Vi sono libri che instaurano un rapporto particolare con chi li legge. Non dipende solo dal libro, non dipende esclusivamente dal lettore: è come un’affinità che vibra nella composizione virtuosa di chi conosce con l’oggetto del conoscere. 
Questo libro mi è piaciuto molto. Quando un libro mi piace davvero lo capisco perché mi ritrovo, ad un certo punto, a verificare con una certa apprensione il numero di pagine che ancora mancano, come a controllare che vi sia ancora un certo periodo minimo “garantito” prima di dover sbucare fuori. Quando sbuchi fuori da un libro, o da una musica, che ti piace, ti senti grato ma avverti anche un senso di mancanza. Come dire stavo bene lì dove stavo…
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Biaca come il latte, rosa come il sangue  (Alessandro d’Avenia)

Non sarà un capolavoro,  ma è ben scritto (e pensato). E la storia di Beatrice, di Silvia e Leo mi ha preso. Mi ha commosso in diversi punti. Mi ha fatto pensare. Soprattutto mi ha  rasserenato, come lo scrivere onesto e non furbetto può rasserenare. 
Perché mi piace? Forse perché è coraggioso nello sdoganare il mondo dell’adolescenza da tanti stereotipi e luoghi comuni. Finalmente l’adolescenza viene riumanizzata.  La malattia di Beatrice è il punto dove la finzione non regge più, e si vede come l’adolescente e l’uomo maturo sono molto vicini, molto più di quanto la percezione comune porterebbe a pensare (ci capita di pensare a compartimenti stagni, perché è meno faticoso: il bambino e il suo mondo, l’adolescente e i suoi problemi, e così via). 
L’adolescente e l’uomo maturo sono vicinissimi perché in entrambi brucia forte una domanda di senso. E che il giovane chiede e cerca un adulto capace di intercettare la domanda di senso (anche a scuola). 
Che se c’è un senso nella vita e nel dolore, se dopotutto ci fosse, esistesse davvero, più tragico ancora del dolore stesso sarebbe il non percepirne nemmeno il riverbero…

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