Blog di Marco Castellani

Mese: Agosto 2010 Page 1 of 2

A 21 anni da Nettuno

di Sabrina Masiero

Il Voyager 2 è stata l’unica sonda a visitare Nettuno. Crediti: NASA Planetary Photojournal.

Era il 15 agosto 1989 quando le prime immagini di Nettuno arrivavano a Terra da parte della sonda Voyager 2 della NASA. Questa fotografia è una sovrapposizione di due immagini riprese dalla sonda con l’uso di alcuni filtri.

Si notano tre principali caratteristiche: in alto, la grande Macchia Scura, accompagnata da tenue nubi biancastre che sembrano spostarsi rapidamente. A sud della macchia scura una seconda macchia chiara che è stata battezzata “Scotter”. Infine, ancora più a sud, la seconda Macchia scura, con una zona centrale chiara.

Tutte le strutture si muovono verso est con velocità differenti per cui è un’occasione rara vederle molto vicine l’una all’altra, come in questa immagine.

Per ulteriori informazioni su Voyager 2: http://nssdc.gsfc.nasa.gov/nmc/spacecraftDisplay.do?id=1977-076A .

Sabrina

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M87 e il buco nero supermassiccio

Questa immagine mostra l’eruzione di un “super-vulcano” galattico, come è stato definito, nella galassia M87 e ripresa dal Chandra X-Ray Observatory  della NASA e dal Very Large Array (VLA) in New Mexico dell’NSF. Ad una distanza di circa 50 milioni di anni luce, M87 ha al suo centro un buco nero massiccio molto grande che sta impedendo la formazione di centinaia di milioni di nuove stelle. La galassia è relativamente vicina alla Terra e si viene a trovare nel centro dell’Ammasso della Vergine che contiene migliaia di galassie.

L’ammasso che circonda M87 è ricco di gas caldi che emettono in X (mostrato in blu) e che sono stati rilevati da Chandra. Man mano che il gas si raffredda viene a “cadere” verso il centro della galassia dove continua a raffreddarsi rapidamente e porterebbe alla formazione di nuove stelle.

Tuttavia, osservazioni radio con il VLA (in rosso nell’immagine) suggeriscono che il processo viene interrotto dai getti di particelle di alta energia prodotti dal buco nero massiccio al centro di M87 che sollevano i gas in avvicinamento al centro della galassia allontanandoli da essa. Questi getti  allontanano il gas relativamente freddo dal centro della galassia producendo delle one d’urto nell’atmosfera della galassia proprio a causa della loro velocità supersonica. Le onde d’urto prodotte da questa interazione tra il gas e l’ambiente sono molto simili a quelle prodotte dal vulcano Eyjafjallajokull  in Islanda nell’aprile di quest’anno. Col vulcano Eyjafjallajokull sacche di gas caldo sono penetrate attraverso la superficie della lava, generando delle onde d’urto osservate passare attraverso il fumo grigio del vulcano. Questo gas caldo poi sale nell’atmosfera, trascinando con sè la cenere scura.

Questo risultato mostra come un buco nero supermassiccio influenzino enormemente l’evoluzione delle galassie in cui si sono formati. La notizia è stata diffusa da un gruppo di ricercatori dell’Università di Stanford e pubblicata sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Per ulteriori informazioni si visiti il sito di INAF Multimedia dell’Istituto Nazionale di Astrofisica: http://www.media.inaf.it/2010/08/23/super-vulcano-galattico/ .

Fonte NASA – http://www.nasa.gov/multimedia/imagegallery/image_feature_1743.html

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Un nuovo impatto su Giove

Il punto luminoso sull’atmosfera di Giove mostra la posizione dell’impatto dell’asteroide osservato da Masayuki Tachikawa il 20 agosto 2010. Fonte Ciel et Espace.

Il 20 agosto 2010 alle ore 18, 22 minuti e 12 secondi (UT) si è verificata una nuova collisione sul pianeta Giove, probabilmente un piccolo asteroide catturato dal gigante del nostro Sistema Solare. Il video realizzato dall’astrofilo Mr. Masayuki Tachikawa che vive a Kumamoto, Giappone, è stato ripreso con una Philips Toucam Pro2 attaccata al suo telescopio, un Takahashi TAO-150 f1100mm.

E’ la seconda volta che viene registrata una collisione con il pianeta: la precedente, verificatasi il 3 giugno 2009, era stata osservata dall’australiano Anthony Wesley in contemporanea con il filippino Christopher Go. Le loro osservazioni molto simili a quelle di M. Tachikawa, fanno pensare ad una collisione di corpo di dimensioni di qualche metro penetrato nell’atmosfera di Giove. Il giorno prima nessuna traccia sul pianeta era stata osservata dall’Hubble Space Telescope.

Giove fotografato il 20 agosto 2010. Crediti: Masayuki Tachikawa. Disponibile su: http://alpo-j.asahikawa-med.ac.jp/kk10/j100820r.htm .

Per osservare il video vi suggerisco di visitare L’Asssociation of Lunar and Planetary Observers alla pagina: http://alpo-j.asahikawa-med.ac.jp/kk10/j100820r.htm , cliccate su “wmv” sotto l’immagine e scegliete “salva come”, visualizzando il video col vostro Media Player.

Sfortunatamente il tempo dell’osservazione presenta un’incertezza di + – 1 minuto, ma questo non toglie nulla alle spettacolarità delle immagini.

Fonte: Ciel et Espace.fr: http://www.cieletespace.fr/node/5760 e http://alpo-j.asahikawa-med.ac.jp/kk10/j100820r.htm .

Sabrina

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In ricordo dei Viking

Era il 20 agosto 1975 quando la prima delle due sonde gemelle Viking partiva con un razzo Titan 3/Centaur della NASA in direzione di Marte. Viking 2 l’avrebbe seguita tre settimane più tardi.

Questa foto è la prima in assoluto ripresa dalla sonda Viking 1 il 20 luglio 1976, qualche minuto dopo essere atterrata perfettamente sul suolo marziano. La regione è la Chryse Planitia e qui Viking 1 operò fino al 13 novembre 1982. Il Viking 2 atterrò ad Utopia Planitia e lavorò dal 3 settembre 1976 all’11 aprile 1980.

Gli orbiter inviarono a terra immagini dell’intero suolo marziano a una risoluzione di 300 metri o anche meno per pixel.

Fonte JPL NASA: http://www.jpl.nasa.gov/news/news.cfm?release=2010-273&rn=news.xml&rst=2707.

Sabrina Masiero

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Viaggio sui satelliti di Saturno

Le lune di Saturno come non le abbiamo mai viste prima. Paul Schenk del Lunar and Planetary Institute ha creato una mappa topografica e geologica delle lune di Saturno oltre che dei satelliti di Giove, e dei corpi ghiacciati del nostro Sistema Solare esterno.
Utilizzando dei dati raccolti dalla sonda Cassini della NASA Schenk ha realizzato un video dei satelliti di Saturno. Su YouTube:

http://www.youtube.com/watch?v=GHRfbsap_rg&feature=player_embedded

si osserva il piccolo satellite Giapeto, con una catena di montagne nella zona equatoriale. Nel 2007 Cassini aveva ricavato una serie di immagini stereo a colori proprio lungo questa dorsale, utilizzate in questi ultimi mesi da Schenk per realizzare il video. Si vedono delle montagne di 15-20 chilometri elevarsi su una zona pianeggiante ricoperta di crateri più scuri. Queste montagne sono tra le più alte osservate sui pianeti del nostro Sistema Solare.

Un secondo video in 3D del giovane cratere Inktomi su Rea è disponibile su YouTube alla pagina:

http://www.youtube.com/watch?v=rMy9Cw8NkA4&feature=player_embedded .

Prima di tutto, delle coppie di immagini stereo o dei mosaici di immagini vengono calibrate e formattate; successivamente, viene applicato un algoritmo che permette di calcolare l’altezza delle montagne. “In generale sono richieste parecchie ore di lavoro, a volte anche un’intera giornata per far girare il programma – ha affermato Schenk -. “La maggior parte del tempo, però, viene spesa nella calibrazione e registrazione dei dati e delle immagini grezze. Questa può portare via anche parecchi giorni, se non settimane intere“.

Tutte le immagini sono state tratte dai due video. 
Fonte Universe Today:
http://www.universetoday.com/71552/stunning-flyover-videos-of-saturns-moons/
Fonte YouTube-NASA: Inktomi-Rayde Crater of Rhea: http://www.youtube.com/watch?v=rMy9Cw8NkA4&feature=player_embedded
Fonte YouTube-NASA- Iapetus-Ridge on the Equator: http://www.youtube.com/watch?v=GHRfbsap_rg&feature=player_embedded.

I miei ringraziamenti a Ricardo L. Garcia per il suggerimento.

Sabrina Masiero

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Quante masse per un buco nero ?

Quanto deve essere massiccia una stella perché diventi un buco nero ? E’ quanto si chiedono gli astronomi che, grazie all’utilizzo del Very Large Telescope dell’ESO, hanno dimostrato che una magnetar – un insolito tipo di stella di neutroni – si è formata da una stella di almeno 40 volte la massa del sole. Il risultato presenta grandi sfide alle attuali teorie relative all’evoluzione delle stelle, di come una stella di tale massa si ipotizzasse essere destinata a diventare un buco nero e non una magnetar.

Per arrivare a tali conclusioni, gli astronomi hanno esaminato l’ammasso stellare Westerlund 1 , che si trova a 16000 anni luce di distanza, nella costellazione meridionale di Ara (l’altare). Westerlund 1 è il super cluster oggi conosciuto, contenente centinaia di stelle molto massicce, alcune così brillanti da avere  una luminosità di quasi un milione di soli e con circa duemila volte il diametro del Sole (grande quanto l’orbita di Saturno).

L'ammasso di stelle Westerlund 1 (Crediti: NASA)

Westerlund 1 è un fantastico zoo stellare, con diverse ed esotiche popolazioni di stelle. Le stelle di questo gruppo condividono però un aspetto: tutte hanno la stessa età, stimata tra 3,5 e 5 milioni di anni e ciò testimonia come questo agglomerato abbia trovato origine da un unico evento.

L’agglomerato Westerlund 1 ospita uno delle poche magnetar conosciute nella Via Lattea. Grazie alla sua presenza in questo gruppo gli astronomi sono stati in grado di dedurre che debba essersi formata  da una stella almeno 40 volte più massiccia del Sole.

Poiché tutte le stelle in Westerlund 1 hanno la stessa età, la stella che è esplosa e ha lasciato come residuo una magnetar, deve aver avuto una vita più breve delle altre stelle del gruppo. “Poiché la durata della vita di una stella è direttamente collegata alla sua massa – più pesante è una stella, più breve la sua vita – se siamo in grado di misurare la massa di una qualsiasi stella superstite, sappiamo per certo che la stella con vita più breve e che è divenuta una magnetar, deve essere stata ancora più massiccia“, afferma il co-autore e leader del team Simon Clark. “Questo è molto importante, perché non esiste una teoria universalmente riconosciuta su come si formino questi oggetti così magnetici “.

Gli astronomi hanno quindi studiato le stelle che appartengono al sistema binario ad eclisse W13 in Westerlund 1, sfruttando il fatto che, in un tale sistema, le masse delle stelle possono essere direttamente determinate dal loro movimento.

Messa a confronto con le altre stelle, si è verificato che la stella divenuta una magnetar deve essere stata almeno di 40 volte la massa del sole. Questo porta a dimostrare che stelle molto massicce, dalle quali ci si attenderebbe la formazione di un buco nero, possono evolvere diversamente, come una magnetar appunto. L’ipotesi precedente riteneva che le stelle con masse iniziali comprese tra circa 10 e 25 masse solari formassero le stelle di neutroni e quelle superiori a 25 masse solari producessero buchi neri.

Rappresentazione di una magnetar (Crediti: ESO)

Questa stella deve essersi liberata di più di nove decimi della sua massa prima di esplodere come una supernova, o altrimenti avrebbe creato un buco nero,” dice il co-autore Ignacio Negueruela. “L’enorme perdita di massa prima dell’esplosione rappresenta la sfida più grande alle attuali teorie sull’evoluzione stellare.

Si pone quindi la spinosa questione di come una stella di grande massa debba collassare per formare un buco nero se stelle più pesanti oltre 40 volte il nostro Sole non fanno altrettanto“, conclude co-autore Norbert Langer.

Si ipotizza che la stella divenuta una  magnetar – il cosiddetto progenitore – sia nata in compagnia di un’altra stella. Poiché entrambe le stelle una volta evolute avrebbero cominciato a interagire, l’energia derivata dal loro moto orbitale avrebbe portato ad espellete le quantità necessarie dell’enorme massa della stella progenitrice.

Se questo è il caso, ciò suggerisce che i sistemi binari possano svolgere un ruolo chiave nell’evoluzione stellare“, conclude Clark.

Vai al comunicato stampa dell’ESO

Articolo originale apparso su Media INAF

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Brasile in fiamme

di Sabrina Masiero – Dipartimento di Astronomia, Università degli Studi di Padova

Gli incendi in Brasile. Cortesia: MODIS Rapid Response Team – NASA GSFC.

Vari incendi, divampati lungo il bordo sud orientale della Foresta Pluviale Amazzonica, sono stati ripresi dal Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer (MODIS) a bordo del satellite Aqua della NASA il 17 agosto scorso. Il rosso marca il contorno del luogo ove il sensore MODIS ha rilevato un picco termico, molto probabilmente un incendio. Un fumo denso vela la foresta verde, qui in grigio.

Gli incendi vengono usati frequentemente per eliminare gli alberi e far spazio a nuove terre di pascolo o per le colture. La maggior parte di questi incendi, ripresi in questa immagine, sono raggruppati lungo il bordo della foresta che si affaccia su terreni già ripuliti in precedenza, e che qui appaiono di color marrone. Non è possibile da una sola immagine risalire alle cause degli incendi, anche se la loro posizione, al margine della foresta, suggerisce che siano di natura dolosa.

Misurazioni compiute da satellite forniscono una visione d’insieme dell’estensione del fuoco in un’area vasta e remota come il Bacino dell’Amazzonia. E’ anche vero che gli incendi divampano durante la stagione secca con una certa periodicità, ma il 2010 ha mostrato di essere un anno davvero insolito. Secondo quanto riportato dalla BBC News, i satelliti hanno rilevato un aumento di un fattore tre nel numeo di incendi in cinque stati brasiliani.

Fonte Earth Observatory – NASA: http://earthobservatory.nasa.gov/NaturalHazards/view.php?id=45349.
Riferimenti: BBC News, 15 agosto 2010, Cortesia immagini: MODIS Rapid Response Team del NASA GSFC.

Post pubblicato originariamente su Climate Summit Italia: http://theclimatesummitit.blogspot.com/2010/08/gli-incendi-in-brasile.html.

Sabrina

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Dallo spazio una risposta ai cambiamenti climatici

L’immagine di sinistra è stata ottenuta nell’aprile 2001. Essa mostra il calore irradiato dalla superficie e dall’atmosfera terrestre verso lo spazio esterno. L’immagine di destra, che risale sempre all’aprile 2001, mostra la radiazione solare riflessa indietro nello spazio dagli oceani, dalle distese terrestri, dalle nubi e dall’aerosol. Per comprendere in modo più preciso e accurato i cambiamenti climatici è necessario capire che cosa determina le variazioni nell’equilibrio energetico terrestre.
Entrambe le foto sono state riprese da CERES (Clouds and the Earth’s Radiant Energy System) e potranno aiutare a trovare una risposta.

Fonte NASA Earth-Climate Change: http://climate.nasa.gov/stateOfFlux/index.cfm. Pubblicato originariamente su Climate Summit Italia: http://theclimatesummitit.blogspot.com/2010/08/dallo-spazio-una-risposta-ai.html .

Sabrina Masiero

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