Quanto deve essere massiccia una stella perché diventi un buco nero ? E’ quanto si chiedono gli astronomi che, grazie all’utilizzo del Very Large Telescope dell’ESO, hanno dimostrato che una magnetar – un insolito tipo di stella di neutroni – si è formata da una stella di almeno 40 volte la massa del sole. Il risultato presenta grandi sfide alle attuali teorie relative all’evoluzione delle stelle, di come una stella di tale massa si ipotizzasse essere destinata a diventare un buco nero e non una magnetar.

Per arrivare a tali conclusioni, gli astronomi hanno esaminato l’ammasso stellare Westerlund 1 , che si trova a 16000 anni luce di distanza, nella costellazione meridionale di Ara (l’altare). Westerlund 1 è il super cluster oggi conosciuto, contenente centinaia di stelle molto massicce, alcune così brillanti da avere  una luminosità di quasi un milione di soli e con circa duemila volte il diametro del Sole (grande quanto l’orbita di Saturno).

L'ammasso di stelle Westerlund 1 (Crediti: NASA)

Westerlund 1 è un fantastico zoo stellare, con diverse ed esotiche popolazioni di stelle. Le stelle di questo gruppo condividono però un aspetto: tutte hanno la stessa età, stimata tra 3,5 e 5 milioni di anni e ciò testimonia come questo agglomerato abbia trovato origine da un unico evento.

L’agglomerato Westerlund 1 ospita uno delle poche magnetar conosciute nella Via Lattea. Grazie alla sua presenza in questo gruppo gli astronomi sono stati in grado di dedurre che debba essersi formata  da una stella almeno 40 volte più massiccia del Sole.

Poiché tutte le stelle in Westerlund 1 hanno la stessa età, la stella che è esplosa e ha lasciato come residuo una magnetar, deve aver avuto una vita più breve delle altre stelle del gruppo. “Poiché la durata della vita di una stella è direttamente collegata alla sua massa – più pesante è una stella, più breve la sua vita – se siamo in grado di misurare la massa di una qualsiasi stella superstite, sappiamo per certo che la stella con vita più breve e che è divenuta una magnetar, deve essere stata ancora più massiccia“, afferma il co-autore e leader del team Simon Clark. “Questo è molto importante, perché non esiste una teoria universalmente riconosciuta su come si formino questi oggetti così magnetici “.

Gli astronomi hanno quindi studiato le stelle che appartengono al sistema binario ad eclisse W13 in Westerlund 1, sfruttando il fatto che, in un tale sistema, le masse delle stelle possono essere direttamente determinate dal loro movimento.

Messa a confronto con le altre stelle, si è verificato che la stella divenuta una magnetar deve essere stata almeno di 40 volte la massa del sole. Questo porta a dimostrare che stelle molto massicce, dalle quali ci si attenderebbe la formazione di un buco nero, possono evolvere diversamente, come una magnetar appunto. L’ipotesi precedente riteneva che le stelle con masse iniziali comprese tra circa 10 e 25 masse solari formassero le stelle di neutroni e quelle superiori a 25 masse solari producessero buchi neri.

Rappresentazione di una magnetar (Crediti: ESO)

Questa stella deve essersi liberata di più di nove decimi della sua massa prima di esplodere come una supernova, o altrimenti avrebbe creato un buco nero,” dice il co-autore Ignacio Negueruela. “L’enorme perdita di massa prima dell’esplosione rappresenta la sfida più grande alle attuali teorie sull’evoluzione stellare.

Si pone quindi la spinosa questione di come una stella di grande massa debba collassare per formare un buco nero se stelle più pesanti oltre 40 volte il nostro Sole non fanno altrettanto“, conclude co-autore Norbert Langer.

Si ipotizza che la stella divenuta una  magnetar – il cosiddetto progenitore – sia nata in compagnia di un’altra stella. Poiché entrambe le stelle una volta evolute avrebbero cominciato a interagire, l’energia derivata dal loro moto orbitale avrebbe portato ad espellete le quantità necessarie dell’enorme massa della stella progenitrice.

Se questo è il caso, ciò suggerisce che i sistemi binari possano svolgere un ruolo chiave nell’evoluzione stellare“, conclude Clark.

Vai al comunicato stampa dell’ESO

Articolo originale apparso su Media INAF

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