Blog di Marco Castellani

Mese: Marzo 2011 Page 1 of 5

Ghiacci polari e atmosfera terrestre

Fonte: http://www.scienze.tv/node/4608 .

Riportiamo qui di seguito un’interessante articolo del Colonnello Mario Giuliacci, fisico climatologo di Epson Meteo apparso su  “Meteo.it – Clima-cambiamenti-Wikimeteo” intitolato “Ghiacci polari e atmosfera terrestre”.

Fonte Meteo.it: http://www.meteo.it/Clima-Cambiamenti/Ghiacci-polari-e-atmosfera-terrestre/content/it/1-693-305344-57754

Negli ultimi decenni i ghiacci polari hanno sempre più richiamato l’attenzione dei climatologi, sia perché è maturata la convinzione che abbiano sul clima un effetto termoregolatore maggiore di quello fin ora loro assegnato, sia perché ogni modifica della loro estensione e del loro spessore costituiscono un sicuro indizio di mutamenti climatici in atto.
La misura della copertura dei ghiacci polari è oggi affidata, oltre che alla prospezione fotogrammetrica aerea, soprattutto ai satelliti in orbita polare, i quali, percorrendo traiettorie abbastanza basse, consentono di avere un continuo e accurato aggiornamento della situazione.

Molto più problematica invece è la misura dello spessore e della densità dei ghiacci. Non è possibile infatti impiegare allo scopo radar montati su aerei o satelliti poiché le onde elettromagnetiche centimetriche emesse da tali apparati non sono in grado di penetrare la coltre ghiacciata, nemmeno per 1-2 metri. Infatti il segnale emesso dal radar viene fortemente attenuato dalla miriade di minuscole bolle di soluzione salina inglobate nel ghiaccio. Pertanto fino a pochi anni or sono si è fatto uso di sonde acustiche montate sui sommergibili nucleari militari, gli unici dotati di sufficiente autonomia per restare, anche per mesi, sotto la banchisa polare.
Oggigiorno, anche in considerazione del problematico impiego dei sommergibili militari, le misure di spessore della coltre ghiacciata vengono effettuate mediante profilografi al laser aerotrasportati, i quali sono in grado di misurare l’altezza dei ghiacci che emergono al di sopra della linea di galleggiamento, e da qui si risale poi allo spessore totale.
Ancor più sofisticata è la tomografia acustica, mediante la quale si rileva il tempo necessario perché un segnale acustico, emesso orizzontalmente da una sorgente sottomarina, venga ricevuto da un rivelatore posto a un centinaio di chilometri di distanza.

Attraverso tali tecniche è stato possibile appunto stimare le variazioni di copertura e di spessore nel corso dell’ultimo quindicennio.
Le misure di copertura hanno evidenziato che i ghiacci antartici hanno una variabilità interstagionale molto più marcata di quelli artici. Infatti i primi passano da una copertura invernale di 20 milioni di chilometri quadrati ad appena 4 milioni in estate; la copertura artica invece varia da 15 a 8 milioni di chilometri quadrati. Inoltre, in una zona artica vasta quasi come l’Italia, è stato scoperto che lo spessore medio misurato nel 1987 si è ridotto di circa il 15% rispetto a quello rilevato sulla stessa area nel 1976.

Per quanto riguarda le variazioni di spessore dei ghiacci antartici non se ne sapeva nulla fino al 1985, poiché in tale area del mondo le convenzioni internazionali vietano l’accesso ai sommergibili nucleari. Nel 1986 comunque furono iniziati rilevamenti di spessore anche al Polo Sud, effettuando nella banchisa circa 4000 perforazioni, un’operazione ripetuta poi nella stessa area nel 1989. Dal confronto delle due serie di successive misure è stato così evidenziato che il ghiaccio polare giovane (quello di 1 anno) costituisce circa il 90% della copertura antartica. Ma la sorpresa più strabiliante è stata data dalla scoperta che i ghiacci del Polo Sud hanno uno spessore medio di appena 1 metro, un valore di gran lunga inferiore a quello dei ghiacci del Polo Nord, i quali sono spessi in media 4-5 metri.
L’inatteso fenomeno ha subito posto agli scienziati una serie di preoccupanti interrogativi: uno spessore così modesto è una naturale caratteristica della banchisa antartica oppure è il risultato di un progressivo assottigliamento intervenuto negli ultimi decenni? La copertura dei ghiacci antartici è forse al limite dell’instabilità? Un’ulteriore incremento dell’effetto serra potrà portare alla completa fusione del sottile pellicola ghiacciata? I problemi appena enunciati non sono di poco conto se si pensa a quale enorme impatto potrebbe avere sul clima del futuro una fusione anche parziale dei ghiacci polari a seguito di un riscaldamento dell’atmosfera. Purtroppo, a tal riguardo, i modelli di simulazione dell’evoluzione del clima concordano nel prevedere per i prossimi decenni un massimo riscaldamento proprio sulle calotte polari. E’ questo il motivo per cui la particolare sottigliezza dei ghiacci polari desta serie preoccupazioni.

Il maggiore riscaldamento previsto alla alte latitudini sarebbe l’effetto di un processo a catena di autoesaltazione degli effetti (feed-back positivo). Infatti un aumento della temperatura sulle zone polari determinerebbe una parziale riduzione della copertura dei ghiacci, specie intorno ai 60-65° di latitudine, ove è ubicato il bordo meridionale della banchisa. Di conseguenza su tali regioni diminuirebbe l’albedo, cioè la frazione di energia solare riflessa dal suolo verso lo spazio. Infatti, mentre le distese ghiacciate riflettono l’80-90% dei raggi solari, un suolo spoglio da ghiacci ne riflette appena il 15-20%. Pertanto sulle regioni interessate da una fusione dei ghiacci polari aumenta la quantità di energia solare trattenuta e immagazzinata dal suolo, la quale viene poi riversata sulla sovrastante atmosfera, determinandone un riscaldamento.

Tale rialzo termico causerebbe un ulteriore arretramento dei ghiacci, il quale a sua volta ridurrebbe l’albedo delle zone interessate dal fenomeno, e così via in un processo a valanga. Inoltre si teme che l’aumento dell’effetto serra possa provocare anche lo scioglimento del permafrost, il sottostrato di suolo permanentemente gelato che attualmente ricopre gran parte della Siberia e del Canada Settentrionale, con l’effetto di trasformare la tundra in palude e liberando così nell’atmosfera gas metano, un gas-serra. Anche tale processo è chiaramente a feed-back positivo.
Una riduzione significativa dei ghiacci polari avrebbe serie ripercussioni sull’habitat del Pianeta. In particolare vi sarebbe uno slittamento verso più alte latitudini della fascia temperata, attualmente compresa tra i 30° e i 50° gradi di latitudine. Inoltre la fusione dei ghiacci determinerebbe un innalzamento del livello degli oceani che, agli attuali ritmi di riscaldamento atmosferico, potrebbe essere dell’ordine di 6 centimetri per decennio, a fronte di un aumento complessivo di 10-20 centimetri dal 1900 ad oggi.

Mario Giuliacci

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Molecole dell’atmosfera terrestre rilevate dalla sonda Venus Express

Crediti: ESA/VIRTIS/INAF-IASF/Obs. de Paris-LESIA (Earth views: Solar System Simulator JPL-NASA).

 

Questo mosaico di immagini mostra le firme del metano (CH4), del biossido di carbonio (o anidride carbonica CO2), dell’ozono (O3) e del protossido di azoto (N2O), specie minori dell’atmosfera terrestre ma potenti gas serra, rilevate dal Visual and Infrared Thermal Imaging Spectrometer (VIRTIS) a bordo della sonda Venus Express dell’ESA alle lunghezze d’onda infrarosse, mentre la sonda era puntata in direzione della Terra nella sua orbita intorno al pianeta Venere.

Le firme spettrali di queste molecole, o impronte digitali chimiche, sono indicate per due sessioni di osservazione e sono tracciate dalle due curve visualizzate in due differenti colori. Durante le osservazioni la Terra mostrava a Venus Express la “faccia” simulata nell’immagine in alto. La luce rilevata da VIRTIS è l’emissione termica dalla superficie terrestre e, in parte, l’atmosfera.

Queste osservazioni sono rilevanti dato che dimostrano che un pianeta lontano, come potrebbe essere un pianeta extra-solare, può mostrare ad uno strumento come il VIRTIS la fima dei composti chimici che costituiscono l’atmosfera e la sua superficie.
VIRTIS ha ricavato questi spettri il 5 e il 6 agosto 2007. Durante queste osservazioni, la distanza di Venus Express dalla Terra era di circa 87 milioni di chilometri, mentre la sonda distava dal pianeta Venere circa 14 500 chilometri.

Fonte ESA: http://www.esa.int/esa-mmg/mmg.pl?b=b&type=I&mission=Venus%20Express&single=y&start=5&size=b

Sabrina

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Venere nell’ultravioletto e nell’infrarosso

Venere ripreso nell’ultravioletto e nell’infrarosso. Crediti: VMC ultraviolet image: ESA/MPS/DLR/IDA. VIRTIS infrared image: ESA/VIRTIS/INAF-IASF/Obs. de Paris-LESIA.

 

Con le immagini ottenute dalla sonda Venus Express, orbitante intorno a Venere, è possibile osservare il pianeta a più lunghezza d’onda e confrontare le varie immagini in modo da poter studiare la turbolenza atmosferica del pianeta.

La mappa in basso a sinistra rappresenta una mappa a varie temperature (non in valore assoluto) della parte superiore delle nubi venusiane, ottenuta dal Visible and Infrared Thermal Imaging Spectrometer (VIRTIS) nella zona buia del pianeta, quella non illuminata direttamente dalla luce solare. Più scura è la regione più la parte superiore delle nubi risulterà fredda.

La parte alta dell’immagine di destra, invece, rappresenta un’immagine ultravioletta della parte illuminata di Venere, ottenuta dal Venus Monitoring Camera (VMC) nello stesso istante in cui si ricavava l’immagine nell’infrarosso della zona non illuminata.

L’ultravioletto mostra la struttura delle nubi e le condizioni dinamiche nell’atmosfera, mentre l’infrarosso fornisce informazioni sulla temperatura e l’altitudine della sommità delle nubi.

Fonte ESA: http://www.esa.int/esa-mmg/mmg.pl?b=b&type=I&mission=Venus%20Express&single=y&start=2&size=b

Sabrina

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Riscaldamento globale e riduzione dei ghiacci marini

Fonte: http://www.astrored.org

Articolo apparso su Meteo.it scritto da Yuri Brugnara di  MeteoNetwork e disponibile alla pagina web:

http://www.meteo.it/Clima-Cambiamenti/Riscaldamento-globale-e-riduzione-dei-ghiacci-marini/content/it/1-693-305111-57754

Riscaldamento globale e riduzione dei ghiacciai. Il sistema climatico terreste pone serie preoccupazioni su: riscaldamento globale, ghiaccio, ghiacciai, riduzione dei ghiacciai, riduzione ghiaccio marino, ghiacci marini

In tempi di riscaldamento globale e conseguente riduzione dei ghiacciai in tutto il mondo, può anche succedere che in particolari situazioni il ghiaccio aumenti. È il caso dell’Antartide, o meglio di un tipo di ghiaccio particolare che circonda l’Antartide, quello marino, generato dal congelamento della superficie dell’oceano. Le misurazioni da satellite, cominciate nel 1979, mostrano infatti una leggera tendenza verso l’alto (poco significativa per la verità), ma soprattutto un record massimo dell’estensione estiva della superficie marina ghiacciata nel corso degli ultimi mesi. Nel gennaio scorso, in piena estate australe, questa superficie era di quasi 7 milioni di chilometri quadrati, contro i 5 milioni che mediamente si sono misurati in quel periodo negli altri anni.

Gli studiosi del settore si sono interrogati sulle cause di questo apparente paradosso, aiutandosi con raffinati modelli climatici, usati anche dall’IPCC, per elaborare le proiezioni sul clima che ci aspetta in futuro. Alcuni studi hanno addirittura concluso che potrebbe essere proprio l’incremento della temperatura la causa principale dell’aumento del ghiaccio marino: una delle teorie proposte sostiene che la fusione dei ghiacciai costieri del continente antartico (formati da acqua dolce) favorisca la diminuzione della salinità dell’acqua superficiale dell’oceano circostante, indebolendo così un processo importante nella rimozione del ghiaccio marino qual è quello del rimescolamento verticale (l’acqua fredda e salata in superficie viene sostituita da acqua più calda proveniente dalla profondità). Proprio quest’anno, la NASA ha confermato che i ghiacciai antartici hanno accelerato il loro “scivolamento” verso il mare, arrivando a fornire un contributo di circa 0,5 millimetri l’anno nell’aumento del livello degli oceani. Il fatto che prima dell’inizio dell’estate australe l’estensione del ghiaccio marino fosse nella norma, supporta ulteriormente la teoria proposta.

Tutt’altra storia invece per il ghiaccio marino del nostro emisfero, che risulta in riduzione drammatica e addirittura maggiore di quella prospettata dai climatologi. Ha fatto scalpore, alla fine dell’estate scorsa, la notizia della completa navigabilità del mitico passaggio a Nord-ovest, rimasto libero dai ghiacci per quasi un mese. In settembre il record minimo di estensione della superficie marina ghiacciata è stato ritoccato di 1,2 milioni di chilometri quadrati (quattro volte la superficie dell’Italia), tanto da portare molti scienziati a ipotizzare la completa sparizione in estate del ghiaccio marino artico entro il 2030, con pesanti conseguenze sul bilancio energetico della Terra, perché l’acqua che andrebbe a sostituire i ghiacci assorbirebbe gran parte della radiazione solare altrimenti riflessa verso lo spazio. Usando una metafora si potrebbe dire che la banchisa artica è il condizionatore del pianeta: le sue sorti sono quindi di estrema importanza a livello climatico globale.

Non deve stupire un andamento così diverso nei due emisferi: in Antartide abbiamo a che fare con un grande continente circondato dall’oceano, nell’Artico abbiamo invece un oceano circondato da continenti; è ragionevole quindi attendersi delle dinamiche differenti, senza contare la grande concentrazione delle terre emerse nell’Emisfero Boreale, che causa un riscaldamento più rapido in questa metà del pianeta.

L’attenzione dei climatologi è ora rivolta all’evoluzione del ghiaccio artico nella prossima estate, con la speranza di un parziale (e comunque momentaneo) recupero, ma col timore che sia stato superato uno dei temuti punti di non ritorno del sistema climatico terrestre.

Andamento dell’estensione dei ghiacci marini nell’emisfero Sud (National Snow and Ice Data Center; http://www.nsidc.org).

Andamento dell’estensione dei ghiacci marini nell’emisfero Nord. Si noti la drastica riduzione avvenuta nel 2007 (National Snow and Ice Data Center; http://www.nsidc.org).

Yuri Brugnara – MeteoNetwork

Fonte: Meteo.it: http://www.meteo.it/Clima-Cambiamenti/Riscaldamento-globale-e-riduzione-dei-ghiacci-marini/content/it/1-693-305111-57754

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Venere nell’ultravioletto


Venere ripreso nell’ultravioletto. Crediti: ESA/MPS/DLR/IDA. Fonte ESA.


Il pianeta Venere, secondo in ordine di distanza dal Sole, ripreso dalla Venus Monitoring Camera  nell’ultravioletto (a 0.365 micrometri) da una distanza di circa 30 000 chilometri.

Le zone chiare e scure sono probabilmente dovute ad una componente chimico sconosciuto presente nelle nubi che assorbe la luce ultravioletta.

Grazie ai dati ottenuti da Venus Express l’area equatoriale del pianeta, che appare scuro nell’ultravioletto, sono regioni di alta temperatura dove la convezione intensa trasporta dal basso verso l’alto il materiale più scuro. Dall’altra parte, le zone chiare alle medie latitudini, rappresentano zone dove la temperatura nell’atmosfera diminuisce con la profondità.

La temperatura raggiunge un minimo alla sommità delle nubi inibendo il rimescolamento in direzione verticale.
Questo anello di aria fredda, soprannominata “il collare freddo” appare come una banda luminosa nelle immagini ultraviolette.

Fonte ESA: http://www.esa.int/esa-mmg/mmg.pl?b=b&type=I&mission=Venus%20Express&single=y&start=1&size=b

Sabrina

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L’Ora della Terra

SABATO 26 MARZO 2011 – ORE 20:30-21:30

Un movimento globale per la sostenibilità del nostro pianeta che ebbe inizio nel 2007 quando Sidney, in Australia, spense le sue luci per un’ora. Questo gesto emblematico fece il giro del mondo e da allora è diventato un vero e proprio “movimento” per la sostenibilità del nostro pianeta Terra.

Earth Hour 2008 riescì a far coinvolgere 370 città in tutto il mondo: oltre 50 milioni di persone spensero la luce per un’ora. L’anno successivo, nel 2009, l’evento diventò planetario: 3929 città di 88 paesi presero parte al movimento e furono messe in rete foto e video.
In quell’ anno, a Roma la Fontana di Trevi, la Torre di Pisa, la Mole Antonelliana di Torino e la Valle dei Templi di Agrigento vennero spente e oltre 140 comuni presero parte. Sempre nello stesso anno, ben 200 imprese italiane furono coinvolte nell’evento e decine di organizzazioni lavorarono dando il loro contributo completamente al buio.

L’anno scorso i numeri sono ulteriormente aumentati: l’Ora della Terra ha coinvolto milioni di persone in oltre 4 000 città di 128 paesi. Tutti hanno spento la luce per un’ora.

Fallo anche tu stasera. Spegni le luci superflue dalle ore 20:30 alle 21:30. Spegni la televisione, spegni il computer, spegni le luci esterne.

 

Earth Hour non significa solo spegnere la luce per un’ora all’anno. E’ uno stile di vita quotidiano che insegna al risparmio energetico rispettando il nostro pianeta.

Per aderire a L’Ora della Terra: Sito web Ora della Terra- WWF:  http://www.wwf.it/oradellaterra/complimenti.aspx
L’Ora della Terra (sito Italiano): http://www.wwf.it/oradellaterra/index.aspx
Sito Web Earth Hour: http://www.earthhour.org/Homepage.aspx

Sabrina

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I gas serra e l’effetto serra

Fonte:  http://www.venetoagricoltura.org/basic.php?ID=2942

Pubblichiamo un articolo apparso su Meteo.it: http://www.meteo.it/Clima-Cambiamenti/I-gas-serra-e-le28099effetto-serra/content/it/1-693-305463-57754 a cura del Colonnello Mario Giuliacci del Centro Epson Meteo.

Descrizione dei principali gas responsabili dell’effetto serra.

I gas serra sono costituiti essenzialmente dalla anidride carbonica (CO2), dagli ossidi di azoto (NOx , N2O), dal metano (CH4), dai CFC e dall’ozono (O3).
Nel riscaldamento globale dell’atmosfera manifestatasi nell’ultimo cinquantennio l’anidride carbonica ha avuto un peso di circa il 55%, i CFC del 24%, il metano del 15% e gli ossidi di azoto del 6%.
La concentrazione totale dei gas serra, attualmente intorno a 450 ppm, è pressoché uniforme su tutto il pianeta, a causa del rimescolamento orizzontale e verticale attuato a scala globale dalla circolazione generale dell’atmosfera.

L’anidride carbonica

Trend CO2

La CO2 viene immessa nell’atmosfera dalla respirazione delle piante, dalla decomposizione dei detriti organici, da processi di combustione e dall’evaporazione degli oceani. Viene invece assorbita dagli oceani e nei processi di fotosintesi clorofilliana. Le maggiori riserve del gas sono negli oceani (38.000 Gt negli oceani profondi e 700 Gt nello strato rimescolato superficiale; 1Gt = Gigatonnellata = 109 tonnellate), nei combustibili fossili (10.000 Gt ), nel suolo come carbonio attivo (1500 Gt), nella vegetazione (500 Gt). La riserva attualmente presente nell’atmosfera è di circa 750 Gt, pari ad una concentrazione di 360 ppm.

La fotosintesi clorofilliana rimuove ogni anno dall’atmosfera 100 Gt di CO2 ma, nello stesso tempo, la respirazione e la decomposizione delle piante ne immette una pari quantità. La diffusione fisico-chimica del gas all’interfaccia con lo strato superficiale degli oceani libera nell’atmosfera 100 Gt/anno ma ne assorbe 104 Gt. L’assorbimento da parte degli oceani è tanto maggiore quanto più bassa è la temperatura delle acque superficiali. Pertanto il riscaldamento da effetto serra potrebbe determinare nel futuro un minore assorbimento della CO2 atmosferica con un processo a cascata con feed-back positivo.
Il consumo di combustibili fossili immette invece 5 Gt/anno mentre dalla deforestazione giunge un carico aggiuntivo di 2 Gt/anno cosicché ogni anno alla riserva di 750 Gt dovrebbe aggiungersi un surplus di 7 Gt; a tal riguardo vi è da far osservare che la deforestazione contribuisce all’incremento dell’anidride carbonica sia in maniera diretta – perché la maggior parte delle foreste tropicali viene bruciata per il reperimento di nuove aree agricole – sia in maniera indiretta perché viene ridotta la capacità delle foreste nella rimozione di parte del surplus annuo di CO2 atmosferica.
In realtà, su base annua, l’atmosfera attualmente vede incrementare le sue riserve di anidride carbonica al ritmo di circa 3 Gt/anno perché gli oceani e le foreste riescono comunque ancora a rimuovere il 50-60% dei 7 Gt immessi dalle attività umane.

L’incremento è stato del 25% dal 1750 ad oggi sebbene almeno la metà di tale aumento sia frutto delle immissioni dal 1960 ad oggi.
Comunque l’incremento annuo di 3 Gt, apparentemente modesto, provoca una maggiore cattura, da parte dell’atmosfera, della energia infrarossa emessa dalla superficie terrestre cosicché aumenta di conseguenza anche l’effetto serra ossia il flusso di radiazione infrarossa che i singoli strati atmosferici riemettono verso la terra (controradiazione).
Tale surplus di energia è attualmente stimata in 2,0 Watt circa per metro quadrato, un quantità che rappresenta appena 1/100 della radiazione solare trattenuta dal suolo ed è in fase con il riscaldamento del globo in atto dagli inizi del secolo scorso.
Non deve del resto meravigliare che una variazione apparentemente modesta del flusso di energia netto guadagnato dalla terra abbia conseguenze così rilevanti se si pensa che la piccola glaciazione verificatasi tra il 1550 e il 1850 fu provocata da una riduzione della radiazione solare di appena il 0.4 – 0.6%, riduzione connessa alle enormi quantità di polveri immesse nella stratosfera da numerose eruzioni vulcaniche di tipo esplosivo.
D’altra parte l’esame del clima nel passato più o meno lontano mette in evidenza che le oscillazioni nella concentrazioni della CO2 atmosferica e degli altri gas serra sono state sempre associate a concomitanti variazioni della temperatura della terra con oscillazioni di circa 5-7 gradi per ogni variazione di 100 ppm nella concentrazione della anidride carbonica.
Se l’incremento dovesse procedere all’attuale ritmo medio del 2% all’anno, il raddoppio della concentrazione dei gas serra rispetto all’era preindustriale verrebbe raggiunto intorno al 2050.
Il verificarsi di una simile ipotesi è considerata dai climatologi molto temibile perché potrebbe determinare nel clima, oltre che profondi mutamenti rispetto alle condizioni attuali, anche una irreversibile instabilità.
Tuttavia vi sono ancora molte incertezze sia sull’entità del riscaldamento globale terrestre ascrivibile all’incremento dell’effetto serra, sia sulla capacità di risposta e di adattamento del sistema terra-atmosfera alle sollecitazioni provenienti dal surplus energetico. Tali incertezze sono legate soprattutto ad una carente conoscenza e alla difficile parametrizzazione fisica e matematica, per la loro non linearità, delle numerose complesse controreazioni (feed-back) positive o negative scatenate dal fenomeno all’interno dell’atmosfera.
In particolare ai processi a feed-back positivo sarebbe legata quella instabilità irreversibile del clima a cui si è già accennato. I processi a feed-back negativo, invece, vanno visti come la riposta che il sistema terra-atmosfera mette in atto per mantenere immutato il suo equilibrio termodinamico e quindi per auto-aggiustarsi. I più ottimisti circa il futuro climatico del nostro pianeta in effetti confidano sul prevalere di tali processi.
Comunque i modelli più accreditati di simulazione del clima, nell’ipotesi di un raddoppio della concentrazione dei gas serra, prevedono concordemente il seguente scenario:

– un ulteriore sensibile riscaldamento del pianeta, concentrato soprattutto sulle latitudini medio-alte con un valore massimo di 6-8 °C sulle fasce polari. Il maggiore riscaldamento delle fasce polari è legato all’effetto concomitante di fusione dei ghiacci con forte riduzione dell’albedo oltre il 50% e quindi una maggiore cattura dei raggi solari. Il riscaldamento della terra inoltre porterebbe all’esaltazione di gran parte dei processi di feed-back;

– uno spostamento di latitudine della attuali fasce climatiche e produttive: inaridimento dell’area mediterranea a causa dell’ aumento della temperatura (e quindi dell’evaporazione) nonché a causa della riduzione delle precipitazioni. Il fenomeno riguarderebbe in particolare anche le regioni centro-meridionali italiane;

– l’optimum climatico ai fini del periodo di crescita della vegetazione, attualmente relegato alla parte occidentale dell’Europa e alle regioni che si affacciano sul settore nord del Mediterraneo occidentale, si sposterebbe più a nord, a latitudini comprese tra i 45 e i 60 gradi;

– la parziale fusione dei ghiacci polari. Il fenomeno, oltre che influire sul livello degli oceani, modificherebbe notevolmente, come anzidetto, l’albedo delle fasce polari e conseguentemente anche il forcing climatico che attualmente i ghiacci esercitano sulla atmosfera e al quale è strettamente collegata, in primo luogo, la struttura della circolazione generale dell’atmosfera . In particolare si ridurrebbe il gradiente termico equatore-poli e quindi anche le correnti occidentali, con una ripercussione a catena su tutti quei sistemi ad esse strettamente legati (cicloni extratropicali, fronti, etc.);

– l’azione concomitante di fusione dei ghiacci polari e di dilatazione volumica degli oceani porterebbe ad un ulteriore innalzamento del livello degli oceani, un fenomeno che è già in atto da quando nell’ultimo secolo la terra ha iniziato a riscaldarsi. La circostanza potrebbe avere conseguenze disastrose per quelle regioni, come l’Olanda o il Golfo di Venezia, ove i fondali molto bassi creano già una situazione favorevole all’invasione del mare verso la terraferma;

– negli anni recenti i Climatologi hanno maturato la convinzione che una larga parte del surplus di energia di 2,5 Watt per metro quadrato legato all’incremento dell’effetto serra, anziché convertirsi direttamente ed integralmente in un surriscaldamento dell’atmosfera – come si riteneva, fino a pochi anni or sono, che dovesse avvenire – vada invece in larga misura per alimentare le perturbazioni della circolazione atmosferica come le onde di Rossby, gli anticicloni di blocco, i cicloni tropicali, i cicloni extratropicali, i tornado e i temporali, cosicché tali sistemi, oltre a presentarsi con maggiore frequenza, tendono anche a divenire più violenti. Insomma il clima è, per tale motivo, in una fase di estremizzazione ossia gli eventi eccezionali – come alluvioni, nubifragi, tempeste, ondate di freddo o di caldo, siccità – tendono a divenire più frequenti e più intensi.

In effetti le correnti occidentali potrebbero più frequentemente subire ondulazioni (basso indice zonale) per effetto delle sollecitazioni subite al di sopra degli oceani, a seguito del maggiore capacità di accumulo di energia termica rispetto ai continenti su periodi dell’ordine di qualche mese. Tale effetto sembrerebbe confermato dall’incremento subito dagli anticicloni di blocco nell’ultimo quarantennio.
Per quanto riguarda i cicloni tropicali, è noto che il loro sviluppo diviene molto probabile sulle aree della fascia tropicale ove la temperatura superficiale delle acque oceaniche superi i 26-27 °C. Pertanto l’apporto energetico fornito dall’effetto serra, cumulato su un periodo di più settimane, potrebbe rendere più probabile il superamento di tale soglia. La circostanza sembrerebbe confermata dalla aumentata frequenza dei cicloni tropicali.
Per quanto concerne poi i cicloni extratropicali, il surplus di energia favorirebbe una maggiore immissione di vapore acqueo nell’atmosfera da parte degli oceani, il quale a sua volta – oltre a rappresentare una maggiore riserva per le precipitazioni – all’atto della condensazione prodotta dalle correnti ascendenti presenti all’interno del ciclone, provocherebbe un maggiore rilascio di calore latente con conseguente intensificazione sia delle correnti verticali che della circolazione intorno alla depressione.
Gli effetti più immediati dovrebbero essere pertanto una maggiore intensità delle precipitazioni e una maggiore violenza del venti collegati alla depressione mobile. Una rassegna degli eventi meteorologici eccezionali che hanno colpito la fascia delle medie latitudini negli ultimi 10-15 anni sembra confermare tale ipotesi.
Vi è infine da osservare che il ciclo di vita della CO2 atmosferica – ma anche quello dei CFC – è dell’ordine di 100 anni. Questo comporta che, anche se il tasso di immissione venisse ridotto nell’immediato futuro a livelli più che dimezzati, il carico totale di tale gas nell’atmosfera andrebbe comunque aumentando per quasi un secolo.
In inverno le variazioni di CO2 nel corso del giorno sembrano correlate soltanto con la direzione di provenienza del vento. In estate invece il gas mostra una tipica oscillazione con un minimo tra le 12 e le 16 e un massimo di notte. Il minimo diurno è legato alla sottrazione di anidride carbonica da parte della vegetazione mentre il massimo notturno è determinato dalla traspirazione delle piante.
Anche a livello annuale il gas ha una caratteristica fluttuazione con un massimo in inverno e un minimo in estate. Il minimo estivo è correlato alla maggiore sottrazione da parte dell’attività clorofilliana.

Il metano

E’ prodotto prevalentemente dalle risaie, dalle attività di estrazione del carbone e del petrolio, dalle fermentazioni enteriche negli allevamenti del bestiame e dalla combustione delle biomasse.
Da una media di 800 ppb degli inizi ottocento si è passati al valore attuale di circa 1800 ppb, con un ritmo di incremento dell’1-2%.

Il protossido di azoto

Si forma prevalentemente per attività batterica nel suolo ma vi è una componente antropica legata all’uso dei combustibili fossili e ai fertilizzanti azotati e la sua concentrazione aumenta al ritmo del 0.2 % all’anno. La maggior parte del N2O raggiunge la stratosfera ove interviene, in maniera antagonista con il cloro, nel ciclo di distruzione dell’ozono.

L’ozono troposferico

La formazione dell’ozono in prossimità del suolo è in genere modesta, eccetto che sulle aree urbane molto inquinate ove il gas è, almeno nel periodo estivo, il maggiore responsabile del cosiddetto smog fotochimico.
Infatti nelle combustioni ad elevata temperatura, come quelle nei veicoli a motore o nella combustione del metano, le molecole di azoto e ossigeno dell’atmosfera interagiscono tra di loro dando luogo a NO e NO2. Gli NOx raggiungono ovviamente la massima intensità durante le prime ore del mattino, quando sono al massimo gli effetti del traffico e del riscaldamento.
La concentrazione di NO2 aumenta immediatamente dopo che l’ossido di azoto NO ha raggiunto, nel mattino, il suo massimo. Il massimo di ozono invece si verifica intorno mezzogiorno ossia circa due ore dopo il massimo dello NO2 e soltanto dopo che la concentrazione di NO si è fortemente ridotta.
Infatti il biossido di azoto, in presenza di forte radiazione solare, dà luogo alla formazione dell’ozono mentre l’ossido di azoto è responsabile della sua distruzione e quindi, soltanto verso mezzogiorno l’abbondanza di energia solare e di NO2 portano ad una maggiore produzione di O3.
In pratica le reazioni che avvengono sono le seguenti.
Al mattino lo NO tende a trasformarsi in NO2 eliminando tutte le molecole di O3 disponibili

NO + O3 = NO2 + O2

Ma lo NO2, abbastanza reattivo nei confronti degli UV, si dissocia di nuovo parzialmente, lasciando libero un atomo di O

NO2 + fotone = NO + O

L’ossigeno atomico, poi, si ricombina con l’ossigeno molecolare, dando luogo alla formazione di ozono

O + O2 = O3

Come si vede, la produzione dell’ozono è resa possibile solo dalla presenza degli inquinanti NOx.
Perché però si abbia la formazione di ozono occorre che siano presenti come catalizzatori, oltre che gli NOx, anche composti organici volatili provenienti sia da sorgenti naturali (emissione da parte della vegetazione, dal suolo e dagli oceani) e dalle attività umane (solventi, trasporti, attività industriali). In particolare, i modelli di simulazione delle reazioni chimiche che, sotto tali condizioni, descrivono il processo di formazione dell’ozono, consentono di individuare tre distinti casi:

– se il rapporto tra la concentrazione delle sostanze volatili e quella degli NOx, è debole (inferiore a 5), allora la formazione di ozono viene fortemente limitata;

– se tale rapporto è elevato (superiore a 20), diviene altrettanto difficoltosa la formazione dell’ozono;

– se tale rapporto è invece compreso tra 5 e 20 – ossia in zona di equilibrio stechiometrico – allora la formazione dell’ozono è fortemente agevolata.
In condizioni di forte inquinamento la concentrazione di O3 in prossimità del suolo è dell’ordine di 0,2-0,3 ppm.
L’ozono troposferico, che è più che raddoppiato nell’emisfero nord rispetto all’era preindustriale, oltre a mettere in pericolo la salute degli esseri viventi e a danneggiare foreste e colture, contribuisce nel rendere più precario l’equilibrio climatico del pianeta. Infatti i modelli di simulazione del clima evidenziano che, a seguito di tale incremento, l’ozono troposferico abbia contribuito ad incrementare l’effetto serra di circa 0,5 Watt/m2 a fronte di un aumento cumulativo di 2,5 Watt/m2 causato da tutti i gas-serra.
Inoltre, l’ozono troposferico ha indirettamente modificato la concentrazione e il ciclo di vita di altri gas come il monossido di Carbonio, il Metano e gli idrocarburi non metanici.
Da ricerche condotte nel 1994 è risultato che l’ozono troposferico nell’emisfero nord ha subito un forte incremento non solo in prossimità del suolo ma anche nello strato tra 8 e 12 km. Tale aumento sembra collegato al corrispondente incremento subito dagli ossidi di azoto per effetto dei voli commerciali e militari che si svolgono prevalentemente a tali quote. A loro volta la dissociazione UV dello NO2 favorisce la formazione dell’ozono.
La riduzione dell’ozono stratosferico sembra che abbia contribuito a ridurre l’effetto serra nella modesta misura di 0.1 Watt/m2.

I clorofluorocarburi (CFC)

I CFC sono composti di Cloro, Carbonio e Fluoro e sono prodotti di sintesi introdotti una settantina di anni fa ed usati come refrigeranti nei frigoriferi e condizionatori, come propellenti nelle bombolette spray e negli schiumogeni e come detergenti per i componenti elettronici.

Tali gas sono stabili e molto volatili e, pertanto, dopo aver superato indenni la troposfera, raggiungono la stratosfera in un tempo medio di circa 15 anni.

I due tipi di Freon più comunemente impiegati sono il CFC11 (CFCl3) e il CFC12 (CFCl2) i quali hanno rispettivamente una vita media 75 e 110 anni, prima di essere rimossi dalla stratosfera.
La loro concentrazione ha subito un aumento notevole dal 1960 al 1997.

Mario Giuliacci – Centro Epson Meteo

Articolo apparso su Meteo.it: http://www.meteo.it/Clima-Cambiamenti/I-gas-serra-e-le28099effetto-serra/content/it/1-693-305463-57754

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Lo stato di salute dei ghiacci artici negli anni 2005-2006


Pubblichiamo qui di seguito un articolo apparso su Meteo.it di Andrea Giuliacci, Fisico e Meteorologo, intitolato “Lo stato di salute dei ghiacci artici negli anni 2005-2006”.

Fonte Meteo.it:
http://www.meteo.it/Clima-Cambiamenti/Lo-stato-di-salute-dei-ghiacci-artici-negli-anni-2005-2006/content/it/1-693-305345-57754


Ogni anno al Polo Nord, come al Polo Sud, la regione marina coperta da ghiaccio aumenta durante la stagione fredda, quando le basse temperature fanno ghiacciare la superficie dell’oceano, e si ritira nella stagione calda (nella regione artica in generale da aprile a settembre), quando la maggior insolazione e le temperature più alte producono lo scioglimento del ghiaccio. Nell’Emisfero Settentrionale durante la stagione di scioglimento la superficie coperta da ghiaccio si riduce progressivamente finché nel mese di settembre si raggiunge il minimo del ghiaccio marino artico, cioè il giorno dell’anno in cui l’estensione complessiva dei ghiacci marini al Polo Nord è minore: tale giorno coincide con la fine della stagione calda di scioglimento del ghiaccio, dopodiché inizia un nuovo periodo di accrescimento, durante il quale la superficie complessiva di mare ricoperta dal ghiaccio va aumentando di settimana in settimana. Tuttavia, a livello locale, vi possono essere alcune aree in cui il ghiaccio, per brevi periodi, continua a sciogliersi anche dopo la data del minimo, e altre in cui la fase di accrescimento inizia qualche giorno prima del momento del minimo. Negli ultimi anni la data del minimo del ghiaccio marino artico è andata spostandosi sempre più in là nel mese di settembre, allungando la stagione di scioglimento e riducendo di conseguenza l’estensione complessiva della superficie ghiacciata. Nel 2005 in particolare i ghiacci marini artici si sono ridotti fino a livelli mai visti prima (ovvero dal 1978, data a partire dalla quale disponiamo di osservazioni satellitari dell’estensione dei ghiacci, ad oggi): intorno al 21 di settembre dell’anno scorso la superficie di mare coperta dal ghiaccio è scesa difatti fino ad “appena” 5,32 milioni di chilometri quadranti, il valore più basso mai registrato dall’inizio dell’era delle misurazioni via satellite (si veda la figura sottostante).

 

Estensione dei ghaicci marini artici.

 

Sono state soprattutto le elevate temperature a causare il minimo storico del 2005. L’anno scorso difatti si è rivelato, a livello globale, il più caldo degli ultimi secoli, e in particolare le temperature medie hanno fatto registrare valori di molto al di sopra della norma (tra 2 e 4 gradi in più rispetto al valore medio del periodo 1968-1996) nella regione artica: le temperature invernali insolitamente miti hanno ridotto la formazione di nuovo ghiaccio durante la stagione di accrescimento, mentre il caldo anomalo della stagione estiva ha accelerato lo scioglimento tra marzo e settembre.

 

Anomalia della temperatura media globale nel 2005.

 

Ebbene, quest’anno sembrava che i ghiacci artici fossero destinati a toccare un nuovo record negativo, a conferma di un’oramai inarrestabile scioglimento delle masse ghiacciate del Polo Nord. A far scattare il campanello d’allarme sono state le osservazioni degli strumenti montati a bordo dei satelliti della NASA e della NOAA, che hanno mostrato come a luglio di quest’anno nell’Emisfero Nord la regione marina coperta da ghiacci sia scesa a “soli” 8,7 milioni di chilometri quadrati, contro i 10,1 milioni di chilometri quadrati che costituiscono il valore medio, per tale mese, nel periodo compreso tra il 1979 e il 2000. Un’erosione così avanzata, nel mese di luglio, non era mai stata raggiunta (il precedente record negativo era del 2005, con 9,1 milioni di chilometri quadrati). In realtà durante il mese di agosto vi è stato un evidente rallentamento nello scioglimento del ghiaccio, soprattutto se confrontato con l’anno precedente.

 

Diminuzione dell’estensione dei ghiacci polari in estate.

 

Il merito della minore erosione del ghiaccio durante il mese di agosto va principalmente a due fattori: da una parte temperature medie in generale leggermente al di sotto delle medie stagionali, dall’altra un’anomalia negativa nel campo barico medio del mese (ovvero aree di bassa pressione più presenti e profonde del normale). In effetti, contrariamente a quanto accaduto nel periodo tra gennaio e luglio, nelle regioni polari (dell’Emisfero Nord) il mese di agosto è stato caratterizzato da temperature mediamente più “fresche” del normale, e questo fatto ha sensibilmente rallentato il ritmo con cui il ghiaccio si è consumato. Un ruolo decisivo però, come accennato, lo ha svolto anche il campo barico medio, con marcate anomalie negative. La presenza pressoché costante della bassa pressione ha difatti imposto alle correnti sulla regione una circolazione marcatamente ciclonica (ovvero antioraria attorno al centro di bassa pressione): quando però al di sopra di una regione marina i venti ruotano in senso antiorario, l’acqua (e con essa il ghiaccio che galleggia sulla sua superficie) viene spinta verso l’esterno in tutte le direzioni, e questo ha contribuito a spalmare il ghiaccio (benché chiaramente in forma meno “spessa”) su aree più vaste.

 

Effetto dei venti sull’estensione dei ghiacci polari.

Se lo scioglimento dei ghiacci marini al Polo Nord dovesse interrompersi in questi giorni (cosa comunque improbabile: la superficie ghiacciata dovrebbe andare avanti a ridursi per un’altra settimana almeno), il valore del minimo di ghiaccio marino artico del 2006 risulterebbe l’ottavo più basso dal 1978 in poi, quindi ancora al di sotto del valore medio di riferimento del periodo 1979-2000, ma comunque con un sensibile miglioramento rispetto agli ultimi anni, durante i quali si è osservata una drammatica diminuzione della regione coperta da ghiacci.

Estensione dei ghiacci artici a metà 2006.

 

Se questa debba considerarsi una decisiva inversione di tendenza, preludio ad un arresto della graduale erosione della calotta artica, o piuttosto un episodio isolato all’interno che non interromperà il trend di progressivo depauperamento dei ghiacci polari artici, lo capiremo solo nei prossimi anni.

Andrea Giuliacci – Settembre 2006

Fonte Meteo.it:
http://www.meteo.it/Clima-Cambiamenti/Lo-stato-di-salute-dei-ghiacci-artici-negli-anni-2005-2006/content/it/1-693-305345-57754

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