Blog di Marco Castellani

Mese: Novembre 2011 Page 2 of 4

Cometa Tempel 1: l’impatto del 2005

Questa coppia di immagini (cliccare per ingrandire) mostra un confronto tra “un prima” e “un dopo” di una particolare area sulla superficie della cometa Tempel 1, che è stata oggetto di studio e sulla quale è stata fatta schiantare come un proiettile la sonda Deep Impact della NASA nel luglio 2005.

L’immagine di sinistra è una delle ultime immagini ad alta risoluzione ottenute dalla sonda Deep Impact prima di impattare sulla superficie nucleare. La freccia mostra la direzione del proiettile mentre il puntino giallo è il punto dove, pochi istanti più tardi, la sonda andrà a collidere. L’immagine di destra, invece, raffigura il pennacchio di materiale sollevato dall’impatto, così potente da oscurare la superficie. Questo secondo frame è stato ottenuto circa 700 secondi dopo l’impatto.

 

Queste due immagini mostrano due differenti angolazioni della cometa Tempel 1 viste dalla sonda Deep Impact della NASA (a sinistra) e dalla sonda Stardust della NASA (sulla destra). I due crateri, di circa 300 metri di diametro, aiutano i ricercatori a localizzare il punto d’impatto lasciato dalla sonda Deep Impact nel luglio 2005. Le linee tratteggiate correlano queste caratteristiche.
La sonda Stardust si è avvicinata alla cometa da un differente angolo lo scorso 14 febbraio 2011.

Stardust-NExT è una missione a basso costo che sicuramente farà aumentare le conoscenze della cometa Tempel 1 ricavate dalla Deep Impact.

L’Università del Maryland è stata responsabile della parte scientifica della Missione Deep Impact e il Project Management era gestito dal Jet Propulsion Laboratory della NASA, Pasadena, California. La sonda era stata costruita per la NASA dalla Ball Aerospace & Technologies Corporation, a Boulder, Colorado. Il JPL è una Divisione del California Institute of Technology di Pasadena.

Image credit: NASA/JPL-Caltech/University of Maryland Disponibile su: http://www.jpl.nasa.gov/spaceimages/details.php?id=PIA13858
Per informazioni su Deep Impact: http://www.nasa.gov/deepimpact .

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Un flare Hyder sul Sole?

Il grande filamento osservato sul Sole il 18 novembre 2011 e fotografato dall’astrofilo Theo Ramakers di Social Circle, Georgia.  Fonte SpaceWeather.com:  http://spaceweather.com/archive.php?view=1&day=19&month=11&year=2011

 

Questo filamento è sicuramente tra gli eventi più grandi del nostro sistema solare. Un filamento magnetico scuro misura più di 700 000 chilometri e si estende da un estremo all’altro del nostro Sole. Qui si sviluppa in senso diagonale sulla superficie del Sole. L’astrofilo Theo Ramakers ha fotografato questa struttura il 18 novembre 2011 dal Social Circle, Georgia.
Lo stesso filamento è stato ripreso dal Solar Dynamics Observatory dell’Agenzia Spaziale Americana, NASA nella lunghezza d’onda ultraviolette sempre lo scorso 18 novembre.

E’ molto probabile che questo filamento collassi nel momento in cui diventa instabile e quando cade sulla superficie della stella e l’impatto è tale da produrre un flare Hyder.
I flare solari sono delle improvvise eruzioni di materia che si formano sulla fotosfera solare e che avvengono fin nella cromosfera solare; si osservano in genere da Terra utilizzando dei filtri a banda stretta, tipicament in una banda con una larghezza inferiore ai 0,1 nm, e spesso centrata sulla lunghezza d’onda della riga alfa dell’Idrogeno, a 6563 Angstrom (656,3 nm).

La maggior parte dei flare si verificano intorno a regioni attive associate a gruppi di macchie solari. Tuttavia, di tanto in tanto un improvviso flare, e quindi un improvviso bagliore, viene osservato con grande accuratezza lontano da una regione attiva o da un gruppo di macchie solari. Questi flare sono associati ad una improvvisa scomparsa di un grande filamento solare che sono chiamati Flare Hyder, dal cognome del ricercatore che fu in grado di spiegare esattamente il fenomeno.

La comparsa di questi brillamenti può variare da una serie di nodi luminosi su uno o entrambi i lati del filamento (ossia, la posizione precedentemente occupata dal filamento), ad un bagliore singolo o doppio. Una caratteristica interessante dei brillamenti Hyder è che di solito si sviluppano o raggiungono la massima illuminazione molto più lentamente di quanto non facciano i comuni flare che sono associati a regioni attive. I flare Hyder più grandi possono impiegare da 30 a 60 minuti per salire ad un picco di intensità, e poi possono durare anche per diverse ore. Hanno un’intensità piuttosto bassa anche se possono raggiungere un’area estremamente vasta.

Di solito, i brilamenti Hyder non sono associati ad emissioni di particelle energetiche o a tempeste geomagnetiche, di conseguenza non possono essere associati a espulsioni di massa coronorale (MCE). Questo però non vale in generale. Vi sono infatti degli episodi in cui una grande espulsione di massa coronale è stata osservata comunque: nel settembre 2000 il coronografo a bordo della sonda SOHO ha registrato un MCE associato ad un flare Hyder.

Si pensa che la scomparsa del filamento sia dovuta ad una riconfigurazione del campo magnetico. Infatti, il materiale filamentoso (che non è altro che materiale refrigerante) viene accelerato nella corona solare. Nel caso del flare Hyder, la maggior parte del materiale filamentoso cade ai lati del crinale magnetico e interagisce con la materia più bassa della cromosfera che produce il flare.

Il meccanismo recentemente è stato messo in discussione.

Alcuni ricercatori hanno affermato che la riconfigurazione magnetica deve sempre produrre un’espulsione. Si è abbastanza sicuri che i flare Hyder sono associati sia ai CME che alla produzione di particelle energetiche. Al momento il fenomeno non è ancora stato spiegato completamente, la questione è ancora aperta.

Qui un video su YouTube:

http://www.youtube.com/watch?v=7RdgIScY888

Fonte Space Weather.com: http://spaceweather.com/
Per maggiori informazioni sui flare Hyder: http://www.ips.gov.au/Educational/2/4/1

Sabrina

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Verso un atlante visuale della ricerca astronomica

Lo sappiamo, la quantità di dati astronomici presenti negli archivi, grazie anche ai metodi di indagine più moderni e agli strumenti più sofisticati, sta raggiungendo dei livelli incredibili, in termini di copertura del cielo e della qualità e quantità di dati raccolti. La gran parte di questi dati è a disposizione della comunità scientifica senza vincoli o restrizioni, ed è ormai frequente che ulteriori analisi di dati di archivio portino ad eccellenti nuovi lavori, quando non a scoperte davvero importanti.

Ecco che la fruizione sempre più intelligente delle mole di dati diventa fondamentale, per il continuo progresso della scienza, e per massimizzare l’utilità delle informazioni già raccolte (questo è l’obiettivo del data mining, su cui avremo modo di tornare). Al proposito si registra ancora una certa frammentazione dei dati disponibili. Da una parte abbiamo risorse online come Astrophysics Data System  (ADS, in breve) della NASA – ormai strumento di lavoro insostituibile per ogni astronomo-  per quanto riguarda i dati bibliografici, ovvero le pubblicazioni. Dall’altra, una buona quantità di archivi e database, che raccolgono i dati astronomici veri e propri.

Il sito NASA ADS è diventato un punto di riferimento imprescindibile per chi studia lo spazio ….

ADS è veramente una miniera di sapere impressionante: contiene circa nove milioni di riferimenti bibliografici e quattro milioni e mezzo di pagine scansionate. Per giunta, più di un milione di articoli sono presenti col il loro testo completo. Ogni astronomo professionista non può più lavorare senza.

ADS però non contiene in sè dati veri e propri. Questi sono catalogati in altri archivi come il SIMBAD Astronomical Database. Ora, il fatto è  che queste entità normalmente non si parlano, non sono in realazione tra loro. Allo stato attuale, salvo poche eccezioni, sono come  “scatoloni” a se stanti.

Ed ecco però che arriva l’idea geniale (ed ambiziosa) della creazione di un ADS All-Sky Survey, contenuta in un articolo apparso pochi giorni fa su astro-ph, a firma di Alberto PepeAlyssa Goodman e August Muench. Pensate come sarebbe bello se ogni articolo in ADS avesse una “targhetta” (un tag) riguardante la zona di cielo di cui si occupa, o gli oggetti che studia. Tramite tale targhetta (chiamiamola astrotag come gli autori dell’articolo) sarebbe facile esplorare visivamente delle zone di cielo (al proposito, il software non manca) e vedere in ogni porzione della volta celeste gli studi che ne sono stati fatti. Oppure esplorare un oggetto e vedere la lista degli articoli e dei dati.

Immaginate le ricerche che potrebbero essere condotte, avendo a disposizione un programma che vi consente di esplorare la volta celeste con tanto di riferimenti alle pubblicazioni relative, punto per punto. Senza complicate e spesso inconcludenti ricerche di archivio.

Il fatto è che molti articoli su ADS non hanno queste targhette già appiccicate. L’articolo però ci fornisce una strada, perché mostra come questo può essere fatto in larga parte con procedure automatiche. Queste procedure prendono in esame i dati dell’articolo, esaminano le figure in esso contenute, e tramite l’uso di risorse già disponibili come astrometry.net se la cavano in gran parte dei casi.

Insomma l’idea è tutto sommato semplice (non così la sua realizzazione): etichettare tutti gli articoli di ADS, in modo da poterli mettere in relazione con i dati veri e propri. Tutto questo promette una svolta epocale nella fruizione degli archivi di dati astronomici.

Per parte mia seguirò con interesse lo sviluppo del progetto. Se ne vedranno di belle, in cielo. Anche con l’aiuto dei computer.

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New Horizons e la sua attuale posizione

La sonda New Horizons in un’immagine pittorica della NASA. Credit: NASA.

 

Con un programma di generazione delle immagini è possibile dare una simulazione della posizione di New Horizons nel suo viaggio verso il sistema Plutone-Caronte. Le immagini sono state create utilizzando il software Satellite Tool Kit (STK) sviluppato dalla Analytical Graphics Inc.

Le immagini sul sito NewHorizons Web Site – Where is New Horizons? vengono aggiornate ogni giorno.

E’ possibile seguire New Horizons mentre transita attraverso le orbite di ciascun pianeta, a partire dalla nostra Luna: http://pluto.jhuapl.edu/mission/passingplanets/passingPlanets_current.php
Qui sotto un esempio per l’orbita di Giove. Arrivò in vicinanza del pianeta il 28 febbraio 2011.

 

Un’altra immagine del transito di New Horizons in vicinanza a Giove.

 

Questa immagine qui sotto mostra l’attuale posizione di New Horizons nel suo viaggio verso Plutone e Caronte e gli altri oggetti della Fascia di Kuiper.

 

 

La linea verde rappresenta il percorso compiuto dalla sonda dal momento del lancio, quella in rosso invece indica il cammino della sonda verso Giove, Plutone e oltre. Sono pure riportate le posizioni delle stelle di magnitudine 12 o più brillanti della dodicesima, come vengono viste al di sopra del piano dell’eclittica dal polo Nord della Terra, un po’ come se partissimo dal Polo nord della nostra Terra e ci spostassimo verso l’alto.

 

Posizione attuale della sonda New Horizons: Data: 19 novembre 2011 – distanza dalla Terra: 22.32 AU; distanza dal Sole 21.59 AU; distanza da Plutone: 10.68 UA. Credit: NASA. Le immagini sono state create utilizzando il software Satellite Tool Kit (STK) sviluppato dalla Analytical Graphics Inc.

 

Le distanze della sonda sono date in AU, ossia in Unità Astronomiche (in italiano UA= 1 unità astronomica = 149 600 000 chilometri circa che spesso viene arrotondata a 150 000 000 di chilometri per una più facile memorizzazione), che rappresenta la distanza media Terra-Sole.

La velocità eliocentrica è la velocità calcolata rispetto al sole, in chilometri al secondo.

Il 13 giugno 2006 New Horizons transitò approssimativamente a 102 000 chilometri dall’asteroide 2002 JF56, un oggetto conosciuto solo alla comunità degli astronomi che misurava con un diametro inferiore ai 5 chilometri. A tale distanza l’asteroide era molto piccolo e la camera LORRI a bordo di New Horizons era spenta e lo fu almeno fino all’agosto dello stesso anno perchè, anche se avrebbe potuto risolverlo, in realtà puntava verso il Sole e per motivi di sicurezza era rimasta spenta. Tuttavia, l’incontro con 2002 JF56 fu un incontro estremamente utile per New Horizons. Il team di New Horizons testò con grande successo il navigatore ottico Ralph e le capacità del moving-target-tracking che permette di tracciare bene il movimento dell’oggetto a cui la sonda si sta avvicinando. Questo fu utile soprattutto per il fly by con Giove e lo sarà anche per l’avvicinamento a Plutone.
Nel 2007 l’asteroide fu chiamato APL in onore del Laboratorio di Fisica Applicata della Johns Hopkins University che ha un ruolo chiave nella missione di New Horizons e che in passato ha rivestito un grande contributo in altre missioni NASA.

Come si osserva dalle immagini riportate qui, New Horizons si trova oltre l’orbita di Urano e si sta avvicinando a quella di Nettuno, l’ultima prima del suo incontro con Plutone.

Fonte New Horizons Web Site: http://pluto.jhuapl.edu/mission/whereis_nh.php
Percorso attraverso l’orbita di Giove: http://pluto.jhuapl.edu/mission/passingplanets/passingPlanets_jupiter.php

Sabrina

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Correlazione tra attività solare e inverni rigidi?

Fonte: http://www.free-photos.biz/photographs/nature/earth_from_space/181144_earth_s_northern_hemisphere_with_sea_ice_and_clouds.php

 

 

Alcuni ricercatori inglesi hanno dimostrato per la prima volta un chiaro legame tra il ciclo di attività solare di 11 anni e il clima invernale nell’emisfero nord.

In particolare si è trovato che un basso ciclo di attività solare può contribuire ad inverni più freddi nel Regno Unito (dove la ricerca è stata compiuta), nel Nord Europa e in alcune parti dell’America. Un’intensa attività solare ha effetti opposti, comportando un aumento del caldo.

Lo studio aiuta a spiegare perchè il Regno Unito ha avuto parecchi inverni freddi negli ultimi anni. Il Sole, infatti, è appena uscito da un minimo di attività solare.

“La nostra ricerca stabilisce un legame tra il ciclo di attività solare e il clima invernale non come fosse una semplice coincidenza” ha affermato il Dottor Adam Scaife del Met Office del Regno Unito, uno degli autori della ricerca.

I risultati, pubblicati su Nature Geoscience, fanno pure aumentare la possibilità allettante che la regolarità del ciclo solare possa aiutare i meteorologi nel prevedere l’arrivo dei rigidi inverni nell’emisfero settentrionale del pianeta.

“Siamo stati in grado di riprodurre un modello consistente di clima, di confermare come questo modello funzioni e di quantificarlo utilizzando un modello con il computer. Il ciclo di attività solare non è il solo fattore a guidare il clima invernale sulle nostre regioni e sull’emisfero Nord  ma è un fattore significativo e capirlo è importante per le previsioni stagionali decennali” ha affermato Scaife.

Finora i ricercatori sono riusciti a vedere solo un debole legame tra attività solare e clima invernale. Quando il Sole è meno attivo, è più facile rilevare dei deboli venti occidentali durante l’inverno nell’emisfero settentrionale. Questo modello suggerisce che i venti orientali potrebbero portare freddo dal continente verso il Regno Unito.

Ma i ricercatori hanno cercato di incorporare anche le radiazioni ultraviolette (UV) provenienti dal Sole nei modelli climatici.

Le recenti misurazioni ottenute dal satellite Solar Radiation and Climate Experiment (SORCE) della NASA hanno rivelato che le differenze di luce ultravioletta che raggiunge la Terra durante il ciclo di undici anni solari sono più grandi di quanto si pensasse. Il satellite, lanciato nel 2003, è il primo a misurare la radiazione solare in tutto lo spettro ultravioletto.

“Lo srumento a bordo di SORCE è in grado di dividere la luce ultravioletta in piccoli intervalli di lunghezza d’onda, offrendo una buona risoluzione spettrale. Prima di questo strumento, i modelli climatici utilizzavano bande spettrali molto ampie, per cui non si poteva rivelare il segnale proveniente dal Sole” ha affermato Joanna Haigh, Professoressa di Fisica presso l’Imperial College di Londra.

Utilizzando queste nuove informazioni in un modello climatico del Met Office, Scaife, Haigh e altri ricercatori del Met Office e dell’Università di Oxford, sono riusciti a dimostrare che è possibile riprodurre gli effetti della variabilità solare che appare nei documenti sul clima.

Sembra che quando l’attivtà ultravioletta solare è bassa, dell’aria insolitamente fredda si formi sopra i tropici nella stratosfera dell’atmosfera terrestre, a circa 50 chilometri di altezza. Questa viene bilanciata da un flusso d’aria che proviene da oriente sopra le medie latitudini  e che poi si dirige verso la superficie terrestre, portando i venti orientali e inverni freddi nel Nord Europa.

Ma quando l’attività solare è maggiore, intorno al picco di 11 anni di attività solare, accade il contrario: forti venti occidentali portano aria calda e inverni molto miti in Europa.

“Quello che stiamo osservando è che i livelli ultravioletti hanno effetti sulla distribuzione di masse d’aria intorno al bacino Atlantico. Questo causa una ridistribuzione del calore. Così, mentre l’Europa e gli Stati Uniti possono stare più al fresco, il Canada e il Mediterraneo stanno più al caldo e c’è poco impatto diretto sulle temperature globali” ha spiegato Sarah Ineson del Met Office, autrice del rapporto.

“Anche con i modelli atmosferici più sofisticati, è davvro molto difficile prevedere le condizioni meteorologiche su scale temporali stagionali. Questo studio, insieme alla nostra ricerca attraverso il Corsorzio NERC Solar Variability and Climate (SOLCLI), sta aggiungendo molti dettagli alla nostra attuale comprensione del clima” ha affermato Haigh.

Haigh ci tiene a sottolineare che questi risultati si basano su un solo satellite. “Se ci fosse qualche problema con lo strumento che abbiamo utilizzato per ottenere questi nuovi dati, allora il lavoro non andrebbe bene”.

Haigh è tuttavia fiduciosa del funzionamento del loro modello. “Mentre i dati statistici hanno sottolineato i legami tra raggi ultravioletti provenienti dal Sole e il clima invernale, questo nuovo articolo spiega come questi legami siano avvenuti” ha concluso.

E’ disponibile l’articolo su Nature Geoscience: “Solar Forcing of Winter Climate Variability in the Northen Hemisphere” di Sarah Ineson, Adam A. Scaife, Jeff R. Knight, James C. Manners, Nick J. Dunstone, Lesley J. Gray e Joanna D. Haigh: http://www.nature.com/ngeo/journal/vaop/ncurrent/full/ngeo1282.html

Sabrina

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Acqua liquida su Europa!

I dati provenienti dalla missione Galileo hanno fornito agli scienziati le evidenze di una notevole massa di acqua allo stato liquido sotto la superficie ghiacciata della luna di Giove chiamata Europa. La quantità di acqua presente dovrebbe essere circa pari a quella dei Grandi Laghi nel Nord America.

I dati della sonda suggeriscono ancora come vi sia probabilmente uno scambio significativo tra lo strato di ghiaccio superficiale e l’oceano (perché può ben dirsi tale, stante la sua mole) sottostante. L’informazione è piuttosto significativa, perché potrebbe portare acqua (scusate il gioco di parole…) al mulino di chi ritiene che in Europa vi siano condizioni tali da farlo ritenere un habitat potenzialmente adatto alla vita. I risultati di tale ricerca sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature.

Rappresentazione artistica del

La cosa particolarmente interessante è che le caratteristiche riscontrate sulla superficie di Europa portano ad ipotizzare meccanismi di formazione che coinvolgono, come si diceva, uno scambio rilevante tra lo strato superficiale di ghiaccio e lo strato d’acqua “nascosto”. Ciò fornisce un meccanismo – o un modello – capace di trasferire sostanze “nutrienti” ed energia tra la superficie e il vasto oceano sottostante. Tutto questo viene ritenuto dagli scienziati capace di aumentare significativamente il grado in cui tali regioni possono essere ritenute adatte per la vita.

Al momento, alla NASA regna comunque una doverosa cautela: i dati vanno esaminati e verificati con calma da parte degli scienziati di tutto il mondo, prima di poter apprezzare completamente le implicazioni di tali risultati.

NASA Press Release

 

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Propulsori di riserva per Voyager 2. Il viaggio continua!

Ce l’ha fatta. Pur ad una distanza abissale, ce l’ha fatta. Il Voyager 2 ha commutato al set di propulsori di riserva, per quanto riguarda le manovre di assetto della sonda. Il personale del Deep Space Network aveva inviato gli opportuni comandi all’inizio di novembre, per poi riceverne conferma dieci giorni dopo:  i comandi sono stati eseguiti con successo. Il viaggio continua.

Come spiega la notizia sul sito della NASA, il cambio è stato deciso al fine di limitare la potenza necessaria alla sonda, ormai trentaquattrenne, spegnendo i controlli che mantengono caldo il carburante dei propulsori principali. Sebbene infatti il tasso di energia generato dalle sorgenti nucleari a bordo del Voyager 2 continui progressivamente a diminuire, riducendo la richiesta di potenza da parte del sistema, gli ingegneri si aspettano che con questa modifica, la sonda continui a funzionare… per un’altra decade!

Il cambio consentirà alla sonda di utilizzare i propulsori finora mai adoperati, mentre continue il suo viaggio attraverso lo spazio interestellare, oltre il nostro Sistema Solare.

Una rappresentazione artistica della sonda Voyager 2. Crediti: NASA/JPL-Caltech

Le gemelle Voyager 1 e Voyager 2 sono state equipaggiate in origine con ben sei set – o coppie – di propulsori. Questi controllano l’assetto delle sonde, la stabilità, e gli altri dettagli del moto. I set si possono suddividere in tre coppie di propulsori primari, e tre coppie di propulsori di riserva (backup thrusters).

Ricordiamo che il Voyager 2 si trova al momento a circa 14 miliardi di chilometri dal nostro pianeta, cioè sta ormai attraversando gli strati più esterni dell’eliosfera – quelli dove il vento solare comincia ad essere rallentato dalla pressione del gas interstellare. Sono i veri confini del nostro sistema di pianeti, e per la prima volta nella storia una sonda – ancora operativa! – è in grado di attraversarli e di inviarci preziosi dati di tali remote regioni.

Dalla pagina Twitter di Voyager 2, un botta e risposta tra "la sonda" ed uno dei suoi affezionatissimi fans...

Come “curiosità informatica”, è interessante notare come anche il Voyager 2 da tempo usi Twitter (qualcosa che era assolutamente inconcepibile nell’epoca in cui la sonda venne ideata) per inviare messaggi di stato riguardo la sua posizione e le sue condizioni. Il numero dei follower è un ottimo indicatore della popolarità della sonda: al momento di scrivere questo articolo, gli iscritti risultano ben 29.354 (sì, ci siamo anche noi di GruppoLocale). Un altro caso in cui un social network viene usato in maniera “virtuosa” per comunicare ad un largo pubblico gli ultimi sviluppi di quella che può ben essere considerata tra le più grandi avventure tecnologiche del nostro tempo.

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Plutone, un potenziale killer per la sonda New Horizons

L’ultimo satellite di Plutone, qui chiamato con la sigla P4, individuato alcuni mesi fa dall’Hubble Space Telescope. Credit: NASA/HST WFC3/UVIS F606W. Immagine disponibile su: http://www.nasa.gov/images/content/571868main_i1123ay.jpg

Da qualche parte nello spazio compreso tra i pianeti Saturno e Urano si trova la sonda spaziale New Horizons diretta verso Plutone.

E’ in viaggio da oltre cinque anni, dal 19 gennaio 2006, quando è stata lanciata per esplorare il complesso sistema Plutone-Carone, mai visitato prima agli estremi confini del Sistema Solare interno, oltre l’orbita di Nettuno, l’ultimo pianeta gigante più distante dal Sole. Il suo obiettivo, New Horizons lo raggiungerà solo fra quattro anni, nel 2015. Ma c’è un piccolo problema in questo programma.

Dato che gli astronomi hanno osservato nuovi satelliti e piccoli corpi in orbita attorno a Plutone, la corsa di New Horizons potrebbe essere in realtà una corsa verso la morte.

Plutone fu scoperto nel 1930. Le osservazioni iniziali e le misure della sua luminosità apparente portarono i ricercatori a ritenere che il pianeta avesse dimensioni simili a quelle terrestri, ma l’avanzamento delle teniche di osservazione hanno permesso di ipoteizzare l’esistenza di un satellite in orbita intorno a Plutone tanto da rendere Plutone più grande e più luminoso di quanto non fosse in realtà, immaginando perciò la presenza di cui corpi che erano così vicini da non poter essere risolti a tali distanze e a causa delle loro piccole dimensioni. In effetti, nel 1978 i ricercatori osservarono il satellite a cui fu dato il nome di Caronte, che aveva dimensioni pari a metà del suo pianeta a cui ruotava intorno.

Per decenni Plutone e Caronte hanno vissuto in quella che potremmo definire “un’apparente armonia”. Per quanto riguarda le osservazioni compiute dai ricercatori con strumenti terrestri, si sapeva che non vi erano altri corpi in rotazione attorno al pianeta nè in rotazione sincrona con esso, ossia che non vi erano altre lune al di fuori di Caronte.

Ma nei primi anni Novanta del secolo scorso, gli astronomi cominciarono a trovare dei corpi rotanti in prossimità del sistema di Plutone. All’inizio del 2000 i corpi molto vicini a Plutone-Caronte iniziarono ad aumentare e si notò che alcuni di essi dovevano essere davvero molto vicini al pianeta, tanto da tanto che si sarebbe potuto chiamarli “satelliti”.

Nel 2002, Plutone divenne il bersaglio preferito di Alan Stern che propose alla NASA di inviare una sonda verso Plutone per studiarlo più da vicino, quella di cui abbiamo già parlato, la New Horizons. Stern è probabilmente più noto alla stragrande maggioranza delle persone per essere il feroce sostenitore di Plutone come vero e proprio “pianeta” del sistema solare dopo il suo declassamento a pianeta nano da parte dell’International Astronomical Union nel 2006.

La navicella spaziale avrebbe dovuto sorvolare il sistema Plutone-Caronte ed esplorarne i suoi dintorni ossia studiare quella che è stata definita la “Fascia di Kuiper”, dal nome dell’astronomo che negli anni Cinquanta ne propose la sua esistenza. La proposta di una missione verso Plutone fu accettata alla NASA. Mentre la sonda veniva costruita e sviluppato, Stern, come Principal Investigator, iniziò a chiedere la possibilità di avere del tempo osservativo con il Telescopio Spaziale Hubble, inviando dei proposal per osservare il sistema di Plutone, osservazioni importanti che avrebbero potuto in qualche modo influenzare la missione.

Dopo i rifiuti iniziali, il team di New Horizons finalmente ebbe l’opportunità di utilizzare il Telescopio Spaziale Hubble nel 2004. La loro osservazione fu fissata per il maggio 2005. Per due notti, Hubble Space Telescope fu puntato verso Plutone e inviò a Terra fotografie a lunga esposizione che avrebbero permesso di rilevare oggetti fino a circa 100 000 volte più deboli di Plutone. Il team aveva sperato di trovare alcuni oggetti nelle vicinanze di Plutone che avrebbero fatto parte della Cintura di Kuiper. Quello che essi trovarono furono, in realtà, due oggetti deboli che sembravano essere molto vicini a Plutone.

Il sistema Plutone-Caronte e due possibili lune. Credit: NASA, ESA, H. Weaver (JHU/APL), A. Stern (SwRI), and the Hubble Space Telescope Pluto Companion Search Team.

Stern e uno dei suoi studenti di Post Dottorato, Andrew Steffl, studiarono i due oggetti e ne determinarono l’orbita: erano talmente vicini da essere probabilmente due lune in orbita intorno a Plutone. Una conferma della loro conclusione arrivò da Hal Weaver e Max Muchler che trovarono lo stesso campione di oggetti. Entrambi i gruppi di ricercatori erano arrivati a ritenere questi due corpi in orbita attorno a Plutone e non semplicemente degli oggetti della Fascia di Kuiper relativamente vicini al sistema Plutone-Caronte.

La scoperta di due nuovi satelliti di Plutone fu annunciata nel settembre 2005, ma ulteriori studi per confermarne i risultati erano più facili da dirsi che a farsi. Per la manuntenzione al Telescopio Spaziale Hubble (in modo da permettergli una vita più lunga), non fu possibile puntare nuovamente il telescopio verso il sistema Plutone-Caronte  per tutta la prima parte dell’anno 2006. Fu una grossa mancanza, e così il team pensò di utilizzare i telescopi terrestri del Keck e del Gemini nelle Isole Hawaii che purtroppo non furono in grado di risolvere e quindi osservare dettagli intorno l’orbita di Plutone o di eventuali piccoli satelliti.

 

Plutone e le due nuove lune, Nix e Hydra. Credit: NASA, ESA, H. Weaver (JHU/APL), A. Stern (SwRI), and the HST Pluto Companion Search Team.

Fu solo un anno dopo la scoperta di Hubble che i satelliti furono ufficialmente riconosciuti come tali dall’International Astronomical Union, l’autorità riconosciuta per assegnare le denominazioni dei corpi celesti, nel maggio 2006. Nix e Hydra erano legati a Plutone e assieme a Caronte costituivano i due nuovi satelliti di Plutone. Il problema fu che Nix e Hidra non erano gli unici satelliti possibili in quel sistema.

Nix e Idra furono fotografate per la prima volta da HST nel 2005. I due satelliti sono circa 5 000 volte più deboli di Plutone e circa due o tre volte più lontane di Plutone di quanto non lo sia il suo satellite più grande, Caronte.

Nella mitologia greaca, Nix è la dea della notte. Tra i suoi tanti figli vi era Caronte, il barcaiolo che traghettava i defunti attraverso il fiume Stige negli Inferi. Dato che l’asteroide 2908 porta già il nome greco Nyx, l’UAI decise di utilizzare l’equivalente egiziano, Nix, per il nome della Luna di Plutone. Il mitologico Idra era un serpente a nove teste dal sangue velenoso. Idra aveva il suo covo alle porte dell’Ade, dove Plutone e la moglie Persefone entravano negli Inferi.  Il team di ricercatori selezionò i nomi da una lunga lista di oltre due dozzine di nomi candidati.

Ulteriori studi su Plutone rilevarono la presenza di più oggetti nelle sue vicinanze, ma solo uno fu il potenziale candidato satellite: S/2011 P1 o P4, quarta luna di Plutone. Scoperto nel luglio 2011, P4 orbita tra Nix e Hidra. Tutti e tre si trovano al di fuori dell’orbita di Caronte, che perciò risulta più interna.

P4 non è stato il solo corpo intorno a Plutone scoperto quest’anno. Due satelliti candidati, più piccoli di P4, sono stati trovati. Ma non sono ancora stati definiti satelliti. Il team di ricercatori ha bisogno di fare ricerche più approfondite e accurate prima che i nuovi corpi possano essere confermati o meno come satelliti di Plutone.

P4 è la luna più piccola tra quelle catalogate orbitante intorno a Plutone. Ha un diametro stimato di 13-34 chilometri. In confronto, Caronte è di 1200 chilometri di diametro. Nix e Hydra hanno una larghezza di 32 e 113 chilometri. P4 completa la sua orbita intorno a PLutone in circa 31 giorni.

Di fronte a tutte queste nuove lune, quale sarà il destino di New Horizons? Che cosa possono significare per New Horizons queste nuove lune? Dato che nuovi oggetti e possibili satelliti continuano ad aumentare, c’è una certa preoccupazione che si possano trovare degli oggetti intorno ad un Plutone troppo piccoli per poter essere osservati da Terra. Se ci fossero, Stern e il suo team di New Horizons avrebbero solo quattro anni per trovarli tutti e regolare il corso della sonda New Horizons e cercare di evitarli.

Un altro serio problema: la preoccupazione maggiore è che queste piccole lune potrebbero aver generato una nuvola o degli anelli di detriti intorno a Plutone, creando la possibilità di un pericolo di impatto multiplo. New Horizons è stata costruita per passare tra Plutone e Caronte a poco più di otto miglia al secondo. A questa velocità, anche le particelle che sono inferiori alle tre once potrebbero penetrare coprire la sonda con micrometeoriti e fare gravi danni alla sua elettronica, le linee di carburante e i sensori.

Per mitigare la possibile morte della loro missione, il team di New Horizons sta continuando a lavorare per valutare i possibili pericoli associati al sistema di Plutone. I loro strumenti principali sono il telescopio spaziale Hubble, alcuni telescopi di grandi dimensioni qui sulla Terra e i radiotelescopi. La speranza è di risolvere gli oggetti tra Plutone e Caronte perchè è lì che New Horizons si sta dirigendo.

Se si scoprisse che c’è una notevole quantità di detriti nel percorso previsto dalla sonda New Horizons, il team di ricercatori dovrebbe modificarne la rotta. Studi preliminari hanno determinato che una traiettoria di salvezza alternativa potrebbe essere quella di far avvicinare la sonda maggiormente al satellite Caronte, perchè l’azione gravitazionale di quest’ultimo non è così forte e sicuramente lungo la sua orbita non dovrebbero esserci presenza di detriti. Di conseguenza, quella potrebbe essere una zona di sicurezza per New Horizons.

Capire se il sistema di Plutone potrà essere una trappola mortale per New Horizons è ancora una questione aperta. Il team continuerà a studiare i potenziali pericoli durante tutto il prossimo anno, con modelli al computer e con i più grandi telescopi terrestri oltre che con l’Hubble Space Telescope.

Ma tutti noi dovremmo aspettare fino al 2015 per vedere cosa c’è la fuori.

 

Fonte MotherBoard: http://motherboard.tv/2011/11/11/tiny-gentle-pluto-may-in-fact-be-a-killer

Per ulteriori informazioni su Plutone e i suoi satelliti:

NASA – Hubble Space Telescope: http://www.nasa.gov/mission_pages/hubble/science/pluto-moon.html

NASA’s Hubble Reveals Possible New Moons Around Pluto: http://hubblesite.org/newscenter/archive/releases/2005/19/

Pluto’s Two Small Moons Officially Named Nix and Hydra: http://hubblesite.org/newscenter/archive/releases/2006/29/

Hubble Site: NASA’S Hubble Discoveres Another Moon Around Pluto: http://hubblesite.org/newscenter/archive/releases/2011/23

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