A volte sono troppo pigro perfino per cambiare CD. Il che se ci penso può anche essere un bene. Mi trovavo ieri mattina (in macchina lungo l’Altopiano delle Rocche) a riascoltare un brano che ormai avrò sentito un numero incredibile di volte, una di quelle canzoni con cui praticamente sono cresciuto (considerato che il disco è del 1977…). Perché io non proceda troppo chiuso – direbbe il sommo poeta – specifico che sto parlando de La pulce d’acqua, di Angelo Branduardi. Spesso ascoltavo semplicemente la musica, o seguivo gli arrangiamenti delle varie strofe – sempre diversi – lasciando scorrere le parole come fossero una bella favoletta, quasi  un testo per bambini, senza farci troppa attenzione. Mi sa che sbagliavo. Il fatto che Branduardi piace molto ai bambini d’altra parte dovrebbe convincerci subito di quanto sia serio.

E infatti. Infatti mi perdevo qualcosa. Ieri mattina l’ascolto mi ha spalancato il cervello, di colpo. Un sacco di cose che avevo letto e digerito negli ultimi tempi si sono improvvisamente collegate al testo, illuminandolo. Perché è un testo apparentemente semplice, ma profondo. O perlomeno, è un testo che non ti lega ad un livello di comprensione, ma permette anche che tu scenda in picchiata giù dentro le parole, fino a trovare dei concetti veramente nutrienti. E sempre attuali, perché riguardano la posizione dell’uomo al cospetto dell’esistenza, del reale.
Leggo che il testo si ispira ai miti degli indiani d’america, ma in quanto espongo non seguirò questa strada, certamente valida (di solito il mito ha a che fare con faccende umane interessanti e sempre attuali), ma darò voce alle considerazioni che mi sono venute in mente ascoltando il brano.
Iniziamo dalle prime parole. Dopo la gentile apertura affidata alla chitarra acustica, entra la voce.
E’ la pulce d’acqua che l’ombra ti rubò…
Ecco, inizia subito descrivendo un problema: un furto, un fatto certamente negativo. Una mancanza. Io mi farei quasi ingannare dalla soavità della musica, senza capire che qui si aggancia subito il dramma, il vero dramma (oso dirlo subito) della modernità. Questa strana rottura di simmetria. Ti hanno rubato l’ombra. Ovvero, la consistenza profonda di te stesso, che hai solo nel dialogo con l’ombra, non ti è più permessa. Improvvisamente eccoti, sei confinato su un livello esclusivamente orizzontale. Il terreno di coltura ideale per ogni insoddisfazione, frustrazione, violenza, perché il tuo cuore ha desiderio di ben altro, di altezza e profondità, di una dimensione verticale. Un bel guaio (a dir poco). E secondo la canzone, sarebbe stata appena una pulce… Chi ci avrebbe mai pensato? Un animaletto minimo. Perché le cose apparentemente minime ti avrebbero “punito”? Ossia, perché hai perso il rapporto autentico con il reale, in ogni sua minima declinazione? Azzardo: forse perché non lo valutavi abbastanza? Magari vivevi nel futuro o nel passato, trascurando il presente. Dimenticando che la vita è adesso.
E tu ora sei malato…
Semplice. Tu ora sei malato. E se lo sei, la prima cosa è ammetterlo, anche con te stesso. Già ti senti meglio, vedi? Ammetti la malattia, la debolezza, l’oscurità, il buio. Tu ora sei malato. Smetti di resistere. Vivi anche la malattia, non cercare di farla passare subito. Di passare oltre. Passaci dentro, invece. Tutto avviene per un motivo. Perché ti senti meglio ammettendo la tua malattia (almeno a me capita…)? Perché hai iniziato a mollare, non pretendi più che tutto vada bene così. Porti alla luce le tue ferite, perché il sole le possa risanare…  D’altra parte ogni processo di guarigione, di ricerca di senso del vivere, comporta come primo passo l’accettazione profonda delle circostanze in cui si è: “Se uno vuol venire dietro me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Matteo 16:24). E’ abbastanza esplicativo: “prenda la sua croce”. Non c’è da scappare da nulla, da censurare nulla.
sull’acqua del ruscello forse tu troppo ti sei chinato…
Andiamo alla sorgente del problema (per rimanere nelle analogie idriche). Ti sei forse chinato sull’acqua a guardarti troppo a lungo? Hai guardato te stesso, hai lasciato che il tuo ego si gonfiasse, divenisse ipertrofico, invece di abbandonarti al flusso della vita? Ti sei fermato su te stesso, chinato troppo su di te, invece di vivere, di abbandonarti, di vivere il momento presente? Hai preteso (magari per un tuo desiderio anche buono, per una intenzione di far del bene) di tenere tutto sotto controllo? Di fare tu, invece che di affidarti, di essere fatto, creato di nuovo ogni momento?
Tu chiami la tua ombra ma lei non ritornerà…
Senza l’ombra non stai bene, l’hai capito. La chiami, la consistenza di te. Hai capito che senza l’ombra non puoi stare, che devi accettare anche le parti oscure, dialogarci. Allora la chiami, la tua ombra, ma lei  no, non torna, non ne vuol sapere. Certo non torna subito, perché non puoi volerla come il tuo ego vuole le altre cose, non puoi volerla senza accettare una trasformazione, senza lasciarti davvero andare, senza cambiare atteggiamento, senza un nuovo modo di vedere il mondo, senza una conversione…
E allora devi a lungo cantare per farti perdonare…
Non puoi avere indietro la consistenza subito. Ci vuole tempo, se non accetti uno sviluppo nel tempo sei nella vecchia logica, parla ancora il tuo ego, che vuole solo prendere, accumulare, per la sua frenetica corsa contro la paura della morte. Invece ti tocca di abbassarti alle piccole cose, per godere veramente di tutto. Devi allinearti al ritmo dell’universo, smettere di resistere: devi cantare. Mollare le pretese tue, allentare la morsa. E cantare. E cantare a lungo, dice la sfrofa. Cioè devi fare un cammino, devi essere disposto a stare su una strada (aspettatevi un cammino, non un miracolo, avvertiva anni fa don Luigi Giussani, e l’invito è valido tuttora, è un aiuto prezioso a stare nel reale nella giusta modalità, ovvero nella modalità nella quale il cuore può essere più lieto). In ultima analisi, il tuo ego si comporta come se con la morte scomparisse tutto, il tuo essere profondo capisce che non è così. E che il cammino può durare tutta la vita, che non si può affrettare nulla, ma che è bello camminare.
E la pulce d’acqua, che lo sa, l’ombra ti renderà.
Se cambi atteggiamento, in profondità, il reale “se ne accorge” (non perché se ne accorga nel senso che noi diamo al termine, ma perché adesso risuona sulle tue stesse frequenze, perché è stato creato così), se sei disposto a vivere la vita così come viene, se sei amico della vita, la vita lo capisce. Dolce è la vita a chi bene le vuole, canta (appunto) il poeta Carlo Betocchi.
Così il reale (le pulci dell’acqua, le serpi dei boschi) è come se rispondesse al tuo mutato atteggiamento. L’ombra ti ritorna, ti viene resa. Non perché sei stato più bravo, più buono, più coerente. No. Non è un problema etico. Ti ritorna perché hai ceduto, hai cantato.
Quindi puoi riprenderti l’ombra. C’è la speranza di poter guarire, abbandonando l’angosciosa  illusione dell’autonomia (Giussani). Salvi così la vita dal semplice trascorrere, investendola di un significato denso, capace di fugare l’apparente banalità di tanti momenti. Perché ogni cosa, ogni situazione contiene una carica di sfida. In ogni momento, devi rispondere. Ora, devi rispondere. Non conta il passato, devi rispondere ora.
Ci stai, a questo cammino? Ti vuoi bene abbastanza, per cercare la consistenza di te?
Ecco, mi fermo perchè sono arrivato ad una  domanda abbastanza fondamentale, che chiama in causa la mia libertà, momento per momento. Dopo questo lavoro sul testo, la canzone finalmente parla per me, parla a me. E tocca argomenti così universali che, immagino, parla anche al cuore di tanti altri. 

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