Blog di Marco Castellani

Mese: Agosto 2012

Il mistero della materia…

E’ un pochino lunga, ma vale la pena perché è stata una bella dimostrazione di come si può parlare di cose complesse in maniera semplice ed accattivante (senza che venga meno la correttezza dell’informazione). Se la son cavata benissimo tutti e tre, Marco Bersanelli, Lucio Rossi e Sergio Bertolucci. Tre noti scienziati, intervenuti sabato scorso al Meeting di Rimini, alle prese con una cosa tanto impegnativa come elusiva, la tanto citata particella di Higgs, e il “mistero della materia“.

Quello che a mio parere conquista, è l’entusiasmo e la passione di tutti e tre i relatori. E anche, va detto, la loro umiltà (e sì che di qualifiche ne hanno). Ero presente e vi assicuro, tutto questo era palpabile, ti faceva venir voglia di seguire con attenzione. 
Ne esce un bel quadro non solo della storia della scoperta del bosone di Higgs, ma di quello che è davvero l’avventura scientifica, soprattutto nel caso di una collaborazione così estesa come quella che ha permesso di arrivare alla scoperta. Da vedere.

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Sulla sfacciata modernità della poesia

C’è qualcosa che non torna, a pensarci bene. C’è qualcosa che stride, qualcosa che si adatterebbe benissimo ma non sembra farlo. Per molto non sembra. Eppure è così. Si parla tanto spesso della frammentazione della modernità, del fatto che siamo presi sempre da mille cose, senza riuscire a dedicare tempo a quelle impegnative, che richiedono tempo e pazienza.
Da tutto questo, cosa dedurrebbe un osservatore esterno? Cosa penserebbe un marziano appena atterrato a Roma, oppure a New York? Secondo me, vista la situazione, direbbe benissimo, questi qui leggono un sacco di poesia. 

Certo, e il marziano avrebbe i suoi bravi motivi. Cosa c’è di più istantaneo, circoscritto, definito nel tempo, segmentabile, frazionabile, separabile in versi e parole, della poesia? Se hai cinque minuti magari non ti va di leggere un’altra pagina e mezzo di Dostoevskij, ma una poesia di Luzi o di Ungaretti o di Rondoni o di chi vuoi la puoi sempre leggere (tanto per restare in Italia).

E lei rimane lì, contenuta in sè e in sè sufficiente, come un’isola (sufficiente in sè perché sempre rimanda ad altro). Certo poi ne leggi altre e arricchisci il quadro, capisci di più. Ma una ti basta, per respirare, per ampliare l’orizzonte, per bucare la superficie delle cose ed entrare nella dimensione verticale. Perché il fatto è questo, una buona poesia buca sempre la superficie delle cose, lavora sempre in verticale. 
Il mondo orizzontale ha più che mai bisogno di riequilibrarsi. Il movimento verticale dona stabilità e tranquillità al cuore (la preghiera è il movimento verticale per eccellenza, e anche il nostro marziano si rende conto che tante poesie sono preghiere, come pure tanti salmi sono indubbiamente poetici).

Non è una speculazione culturale per chi ha tempo da perdere. Se non leggiamo poesie ci facciamo del male. Lo spettro possibile della poesia è amplissimo, si può arrivare a diversi livelli di profondità, di comprensione. Se la poesia è valida, è sempre un viaggio, un’avventura. E se leggi, prima o poi ti capitano dei versi che  ti ricircolano in mente, come qualcosa che lungi dall’essere esaurita, regala ancora il suo saporito succo. 
E’ stupendo come la poesia si possa incastrare con i ritmi e i modi di vita del mondo contemporaneo. Sarebbe un vero peccato sprecare una simile occasione.

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I ragazzi del meeting

Questi tre giorni al meeting sono stati esaltanti. E’ vero, un conto è seguirlo sui media ed un altro è andarci veramente. C’è un’aria, un’aria che respiri, che sembra allontanare il pessimismo di tanti giorni e tante sere. Qui lo capisco di nuovo, arrivo naturalmente al punto. Ci vuole un avvenimento per vincere la paura del futuro, non servono le studiate parole, i dotti discorsi. 
Qui ci sono i volti lieti delle ragazze e dei ragazzi volontari al meeting. E li vedi appena arrivi, i volti lieti e la cordialità che scalda il cuore. Se interagisci con loro ti trattano come persona. C’è qualcosa, qualcosa a cui non siamo molto più abituati: ti guardano davvero. Non sei uno dei tanti che chiede una informazione, che domanda dove si svolge un evento, che vuole comprare una maglietta o una piadina. Sei tu. 

Rientrando a Roma, qualcosa mi ricorda il meeting…
Sì, potrebbero essere miei figli, tanti di loro, anagraficamente parlando. E non mi dispiace imparare (o  meglio, reimparare) da loro, se può servirmi a vivere meglio. Non mi dispiace apprendere da come si muovono, come guardano, come sorridono. Tutto serve, tutto ha un senso. 
Potrei parlare di quello che ho visto e ho ascoltato, ma per questo vi rimando al breve “racconto” che ho assemblato su Storify. Mi fermo invece ai volontari, il cui spettacolo  – spesso silenzioso – parlava più di molte altre cose (tanto che anche un ministro se ne accorgeva). Trovare gente che fa gratis un lavoro anche pesante, non è una cosa che si dimentica facilmente. Te lo chiedi, te lo domani, perché lo fanno.

Ha ragione Giulio Terzi, è una cosa che dà fiducia per il paese. Ti viene voglia per una volta, di tirarti fuori dai soliti discorsi, dalla disillusione e dal pessimismo sulle sorti dell’Italia. Non è che hai risolto tutto, hai trovato la parola magica, la soluzione. La crisi è la crisi. Ma in tutto ciò, questi ragazzi ti danno fiducia, speranza. Se ci sono realtà così, se possono crescere, lasciatemelo dire, non siamo a terra. 
O se anche ci fossimo, da qui (ad esempio) possiamo ripartire. 

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Perché io vado al meeting

Faccio una premessa “tecnica”. Non avrei pensato di poter scrivere sul blog dal Freccia Rossa! Il fatto di avere con me l’ipad e di disporre di una connessione wifi gratuita, è chiaramente un concorso di circostanze favorevoli davanti alle quali le scuse per non scrivere, decisamente vengono meno… 😉

Sto andando al Meeting di Rimini, dopo tanti anni che non ci passavo. Per la verità, ci andai una volta sola, con un gruppo di amici, e per giunta facemmo una ammazzata andata e ritorno in un giorno solo. Ma era molti, molti anni fa.

Ed ecco, il mio stupore è legato a questo. Sarò ingenuo, ma lo devo dire. Il mio stupore è il rinnovarsi di un incontro, nel passare degli anni. Nell’arco della vita. Qualcosa che brilla ancora dopo tanti anni, dopo tante idee, percorsi, dopo tanto cercare altro. Essere attirati, stupirsi è bello. Ma tornare a stupirsi, di una possibilità che promette di rendere più liete le giornate, più sopportabile la fatica, più umano il lavoro e lo stare a casa – ecco, tornare a stupirsi è forse ancora più bello.

Come Qualcuno che dice, sorridendo, “Ti stavo aspettando. Lo sai, non ho mai smesso di aspettarti. Non smetterò mai.”

Così vado a vedere più vicino. Non ho propositi particolari, se non starci. Non sono forse migliore di prima, sono consapevole di mille imperfezioni, ma ho anche l’idea che il punto sia proprio un altro. Che il punto non sia il successo o il fallimento dei propositi per migliorarsi, ma sia venire, starci, guardare “persone o momenti di persone”.

Ecco, sto andando per guardare. Per vedere cosa nasce e fiorisce da un’esperienza che nacque – molti anni fa – da un prete di Desio, innamorato della vita, da dei ragazzi che a scuola, credendo già di sapere tutto, si ritrovarono ad ascoltare una possibilità nuova per la loro esistenza. E iniziò qualcosa che arrivò fino a toccare il mio cuore, nel lontano 1984. E anche la mia storia con Paola, la mia famiglia, fiorì da questo incontro.

La bellezza, per quanto giri gli occhi, alla fine la senti, se una volta l’hai vista. E questa possibilità di essere felici è sempre rimasta ad aspettarmi. Ad attendere il mio assenso. E ogni sì, per quanto balbettante, è sempre stato ripagato.

Insomma, vado a vedere che fanno degli amici. Prodigi della fisica: parto da casa, ma vado sempre verso casa.

 

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Correre tra luci ed ombre…

Quanto si apprezza di più la musica quando si corre. Quando la fatica ti allenta un momento la maglia fitta dei pensieri, quel lavoro incessante della mente che di solito ti scherma dalla meraviglia, fa come una rete di protezione dietro la quale non vedi più, non ti riesci a meravigliare più. Qualche giorno fa sono andato a correre, macinando sentieri di montagna abruzzese con Light & Shade di Mike Oldfield nelle orecchie. Un doppio disco con cui ci ho spesso litigato. Diciamola tutta: inizialmente è stata proprio una delusione, temperata solo dalla mia inossidabile stima per questo straordinario musicista.

Insomma, hai questi ottantadue minuti… ascolti, un po’ impaziente, cerchi il succo, le parti decisive. E dopo un pochino ti chiedi, ok, quale è il punto? Dove è che si comincia a fare sul serio? Dove sta un vero climax? Dove mi porta questa musica? Il fatto che mi spiazzava era questo, che la musica non mi portava da nessuna parte. Volevo farmi condurre, ma rimanevo al palo. Allora mi annoiavo.

Ogni tanto lo risentivo. E rimanevo in questo stato di perplessità, gli davo un garbato credito, più per il nome del musicista che per l’impatto dell’opera su di me. 

Ricordo invero anche qualche occasione in cui mi è parso particolarmente significativo, direi nutriente. Erano occasioni d’ascolto in cui non davo mai piena attenzione alla musica: di solito stavo anche facendo altro. Così permettevo che le note, le sonorità mi scivolassero addosso, senza difese. E funzionava. Incredibilmente, funzionava.

Fino a che sono andato a correre. Lì sì, lì ha funzionato veramente bene. Correvo e osservavo la natura, e le note con i percorsi indefiniti, o candidamente ripetuti, non erano più un problema. Affatto. Era come una patina dorata che si appoggiava delicatamente sulle cose, specialmente sugli alberi, le piante, sul tramonto stesso. E la ripetizione non era monotonia, ma era funzionale all’avvicinamento graduale alla sostanza delle cose. Un avvicinamento delicato, uno svelarsi progressivo e rispettoso. Finalmente qualcuno che suggerisce, e non cerca di riempire a tutti i costi.

Infatti il vuoto si avverte, a volte (e non è una sensazione piacevole). Tutti corrono a cercare di riempirlo, ma c’è, capita di trovarlo, di sentirlo. Anche tanta musica cerca di riempirlo: troppa. Non questa, comunque. E la cosa va bene, perché l’armonia nascosta delle cose, non più contrastata, può venire alla luce. Quello che prima sembrava semplicità eccessiva nella mia corsa si tramuta in finissima delicatezza. Le impressioni possono allora rimanere aggrappate alla musica, alle sue maglie larghe.
C’è il vuoto, ti prende il cuore come un messaggio che va ascoltato:  coprirlo di forza non è una buona idea, non funziona. Cioè funziona, ma solo per poco. Poi tanto lui torna a galla. E invece lasciarlo venir su, esser disposti a soffrire e a farselo passare addosso, questo può essere una strategia migliore per superarlo, per continuare il cammino. Essere dolci con il vuoto, anche. Faticoso, certo. Vorremmo scappare, non vederlo. Non vedere dentro noi stessi, coprirlo. Far finta che non ci sia. Sarebbe più comodo, da un certo punto di vista. Ma non risolverebbe molto.

Anzi, non risolverebbe nulla. Rimarremmo sempre in superficie. Passeremmo la vita alla superficie delle cose: ben più tragico che sentire la morsa del vuoto, a pensarci.

Allora sei dentro, ci sei dentro. E devi camminare. Anzi, talvolta, anche correre. E allora corri, in questa situazione. Corri con le gambe e il tuo animo cammina. E camminando, anche lentamente, già respiri ed ogni cosa è più illuminata. Mi pare che alla fine conti questo, la disponibilità a camminare, più che tante altre cose e di tanti bei propositi.
E vedi appunto il tramonto e la vegetazione nella sera, e la musica aderisce così bene, così bene a tutto quanto, a tutta lo stupore per il tramonto del sole – un prodigio quotidiano a cui solo la mia abitudine e la mia  distrazione ha potuto rubare la perpetua meraviglia.
Arrivare a vedere tutto come un prodigio, risvegliarsi dall’abitudine, sarebbe straordinario. Se ci mettiamo all’opera, accettiamo di fare un lavoro su noi stessi, pian piano possiamo, sì. Possiamo recuperare questa dimensione della meraviglia, possiamo allargare una epifania sperimentata durante una corsa, portandola nella vita ordinaria. Dismettere la istintiva diffidenza verso il mondo, per aprire davvero gli occhi, e scoprire che niente è mai uguale, in fondo niente è già visto.

Ditemi se non è cosa che valga la fatica delle nostre giornate…

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In poche parole, di che parla?

Insegnano i corsi di scrittura che quando hai scritto un libro devi imparare anche a presentarlo, a renderlo appetibile per gli altri. Devi far capire in poche parole perché uno dovrebbe voler leggere il tuo libro. E’ anche onesto, in fondo, che un potenziale lettore possa facilmente capire, senza perdere tempo, se il libro gli interessa.
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Gli edifici ESO a Garching,
una delle location del romanzo.

Per i tre libri che ho (auto)pubblicato finora, ho scelto di non seguire nessuna strategia promozionale. Li ho messi lì a disposizione e basta. D’altronde, era già troppo forte la soddisfazione di aver sistemato in volume degli scritti che temevo sarebbero rimasti sempre in un cassetto. Il tempo e certe letture mi hanno fatto capire però che dietro questa apparente umiltà può nascondersi anche una certa dose di orgoglio. Che è sempre una roba pericolosa. Come dire, ecco qui ho regalato questa cosa al mondo, se vi intessa andate a cercarla, io quel che dovevo fare l’ho fatto.
E invece no, non va bene. Non è corretto tirarsi indietro. Se ci credo davvero, non ho fatto tutto quel che dovevo fare. Nossignori. Se ho scritto un libro, qualsiasi sia il canale scelto per la pubblicazione, devo spiegare perché tu che stai leggendo ora, proprio tu, potresti volerlo leggere. Hai presente, quando vai in libreria, ti muovi indeciso tra gli scaffali (soprattutto di questi tempi, se poi c’è l’aria condizionata, non c’è veramente fretta di uscire…), prendi un libro, valuti la copertina, lo giri, leggi le note sul retro. Spesso magari decidi da quello. Io personalmente sono molto influenzabile dalla gradevolezza della copertina e dal breve riassunto che spesso appare nel retro. Almeno fino a qualche tempo fa. Ora acquistando prevalentemente libri digitali, mi baso in buona misura sui commenti di chi il libro lo ha già letto (facilmente reperibili in tutti i maggiori siti per l’acquisto di ebook).
Bisogna anche considerare quello che succede quando parli con qualche amico, qualche conoscente. Magari mi segue su Twitter o è uno degli amici di facebook. Mi è capitato di recente. Ti saluta e ti dice a bruciapelo, ma davvero tu hai scritto un romanzo? Di che parla? Come lo pubblichi?

E’ strano, a pensarci. E’ la mia tentazione a scivolare nel ruolo del momento, a discapito della mia stessa umanità. Come se parlando con persone in un istituto scientifico non potesse venire fuori che ti piace scrivere, che sei uno scrittore (inteso letteralmente: uno che scrive).

Di che parla il tuo romanzo? Devi risponde in maniera chiara e concisa. Non puoi perderti in analisi e considerazioni su come interpretare la trama, o sul perché lo hai scritto. Devi rispondere in un minuto e farlo in modo non banale. Certo, rinchiudere in un minuto un lavoro che – pur con alcune pause – alla fine ti ha richiesto anni, può sembrare riduttivo, impossibile. Invece no, devi farlo. È onesto che tu lo faccia. Se non lo fa sei ancora centrato su di te, invece ti devi aprire. Se veramente vuoi fatti leggere, ti devi aprire agli altri.


Insomma la cosa che più desidero e più mi spaventa allo stesso tempo… già sento che prendono forma  nella mia testa quelle parole, mi fanno paura ma sono reali, sono parole di guarigione…


Ti devi mettere in gioco, Marco.
OK. Torno al romanzo. Dunque come si potrebbe raccontare la trama in non troppe parole?
È la storia di Luca, uno scienziato di mezza età, un matrimonio apparentemente tranquillo e un lavoro solido. Niente che non va, si direbbe. Sotto l’apparente normalità però cova una tensione, una insoddisfazione, una nostalgia di tempi passati, di fuochi che sembrano spenti. A sparigliare una situazione che pare congelata in una dolorosa stasi, arriva una partenza, il contatto con un anziano scienziato e alcuni suoi misteriosa calcoli, che promettono di rivoluzionare l’approccio ad un importante progetto. E soprattutto, a sparigliare c’è Francesca, una avvenente e giovane collaboratrice, segnata da una profonda, dolorosa solitudine. I problemi di Luca e la solitudine di Francesca inseguono un contatto, baluna il miraggio di una mutua compensazione. Per Luca arriva però presto il momento di assumersi la responsabilità di una decisione, una decisione per l’esistenza. Una sfida rinnovata che abbraccia il lavoro come gli affetti. Dal moto segreto del cuore, dall’intimo attimo si coscienza, nasce la scelta di un cammino, di un sentiero. La posta in gioco è la consistenza di sé, consistenza ontologica, prima ancora che etica. Proprio per questo, una posta decisiva. Un possibile ritorno.
Il romanzo sarà disponibile entro la fine dell’estate (è tutto scritto e sto facendo delle prove di impaginazione), e potrà essere acquistato sia come copia cartacea che in formato elettronico. Nei prossimi post sarò più preciso sulla data di uscita, e inserirò qualche brano del testo. Se volete rimanere in contatto esiste un apposito hashtag Twitter, ed è #IlRitornoLibro (certo è una cosa che Balzac non poteva avere, ma la tecnica servirà pur a qualcosa…).

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