Blog di Marco Castellani

Mese: Ottobre 2012

Umiltà

Continuo con questo post ad esplorare il mio personale percorso tra le parole, colorandole dei sapori e delle sensazioni che mi porto dietro in questa parte del cammino della vita. Vi sono parole intorno alle quali si possono dire cose sempre diverse, atteggiamenti e attitudini fondamentali, opzioni essenziali dello spettro delle possibilità umane. Parole cardine, intorno alle quali si possono far risplendere colori in maniera continuamente cangiante.
Prendiamo la parola umilità. La si può approcciare in innumerevoli modi. Uno di questi, la cui evidenza mi ha colpito per la prima volta pochi giorni fa, è che oggi, lo studio dell’uomo e insieme del cosmo suggerisce un atteggiamento di umiltà, derivante essenzialmente dal riconoscimento – forse mai stato così chiaro – di quante cose non sappiamo. 

Quanta parte ignota nella conoscenza del cosmo! (Fonte: wikipedia)
Mai il so di non sapere, a pensarci bene, è stato così manifesto, solo che lo si voglia guardare. Bisogna però, appunto, saperlo guardare. Vedere il quadro generale. Ad esempio, davanti al mare di notizie astronomiche che arrivano continuamente dai vari media (cosa certamente ottima), chi pensa mai al fatto che in realtà più del 95% di tutto l’Universo è composto – secondo le teorie più accreditate – da qualcosa di cui non conosciamo la natura? Energia oscura e materia oscura insieme, nel quadro attuale, rendono conto di quasi tutto l’Universo. Tranne quel misero 4%. Che poi è quello fatto della materia che conosciamo, ed è praticamente tutto quello che sappiamo (anzi ne sappiamo ancora meno, perché anche di quel 4% le cose ancora da capire non sono affatto poche…).
E uno potrebbe pensare, ok lo studio del cosmo è peculiare e complicato. D’accordo. Ma dell’uomo ormai sappiamo tutto. E invece no. E la cosa curiosa è che anche qui andiamo a sbattere in percentuali simili, anche se meno rigorosamente definite. Leggo in un libro di psicologia che il 95% della nostra mente sia costituita dall’inconscio. Ovvero quel luogo dove avvengono processi psichici inaccessibili al cosiddetto pensiero cosciente. Dunque anche qui la nostra razionalità si deve fermare, arrendere, davanti ad una sostanziale ignoranza. Possiamo scandagliare l’inconscio, possiamo speculare sui suoi effetti, ma è un po’ come lanciare una sonda nello spazio, portiamo a casa dei dati ma intorno rimane comunque il mistero più profondo. Una zona non conoscibile direttamente, ma che ha effetti decisivi sulla parte conosciuta. E vale tanto per lo spazio al di fuori (l’universo) quanto per lo spazio al di dentro (la psiche).
Non so voi, ma personalmente questo alone di ‘non conosciuto’ non mi inquieta per niente, anzi lo trovo rassicurante. Prendere atto di questo stato di cose implica anche che io non possa mai dire, ne come uomo ne come ricercatore, la terribile frase è tutto qui? 

Perché so che sono appena all’inizio del viaggio di scoperta (del cosmo e di me stesso), ogni atteggiamento più o meno arrogante sarebbe decisamente fuori luogo. Come sarebbe fuori luogo ogni tentazione di razionalismo che limitasse il reale al razionalmente conoscibile (“Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore”, Is. 55,8). Molto meglio sarebbe arrendersi, ammettere che vi sono realtà che superano infinitamente la mia comprensione.

 E la cosa più giusta tornerebbe ad essere l’umiltà, la coscienza tenera e liberante dei propri limiti. 

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Professionismo

Sono andato a correre al parco – oggi pomeriggio – con Paul Simon nelle orecchie, per la precisione l’ultimo disco, Live in New York City. Mi veniva in mente correndo, a parte che è proprio bello, ma mi veniva in mente cosa vuol dire essere un professionista. Non è legato immediatamente al percepire un profitto per quello che si fa. Essere un professionista ha a che vedere con l’atteggiamento che si tiene davanti ad una certa cosa. Sentendo coma canta adesso Paul Simon – a più di settant’anni – come lima e interpreta ogni frase di ogni canzone, come non scivola mai pigramente sulla melodia ma vive ogni passaggio, mi sono detto ‘ecco, questo è un professionista’. 

Come intendere questa parola? Secondo me vuol dire questo, disporsi nell’atteggiamento migliore perché si possa mettere a frutto il proprio impegno. In pratica, rendersi trasparenti all’emergere del positivo di sè. Questo può voler dire che ci possono essere persone geniali ma non professionali, per cui il loro talento va ampiamente sprecato. E ci possono essere persone che attraverso l’applicazione  e la perseveranza superano anche molte iniziali difficoltà o apparenti incompatibilità.

Turning pro è dunque una faccenda piuttosto fondamentale, e riguarda l’atteggiamento prima di ogni altra cosa. Come si guarda quella cosa. Vale la pena di farlo, prima di tutto per il lavoro. Esattamente. Tutti i problemi “mi piace, non mi piace, con Tizio lavoro benino, ma Caio non lo sopporto… oggi mordo perché ho dormito male, graffio perché mia moglie/marito mi tiene il broncio…” si superano (o si mitigano) attivando in sé un atteggiamento da professionista. Anche il fatto “lo so fare, non lo fare, chissà se sono capace”, è in realtà un residuo di immaturità dell’ego, anche quello può essere lasciato indietro se ci disponiamo ad una attitudine da pro.
Così davanti ad un problema, una noia, una rogna supplementare, ad una giornata storta, ci si può chiedere, ma come reagirebbe un professionista? e cercare di agire di conseguenza. Non per dimenticare che siamo uomini (o ancor meglio, donne…), ma per onorare la cosa che stiamo facendo, dargli il giusto credito perché è una parte importante della nostra vita. Una cosa così fa bene al mondo.
E’ ora di smettere di chiedersi se vale la pena o no, se è giusto o no, etc. Una volta deciso, andare. E agire da professionista, fregando tutti i dubbi. I dubbi abbandonano un pro perché si accorgono seccati che non lo condizionano più. Che ne dite? Se risuona anche con la vostra esperienza (o anche no), sentitevi liberi di lasciare un commento al post.

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Giù in verticale, nella creatività

Il mondo si muove sempre più in orizzontale, se volete sapere come la penso. La dimensione orizzontale ci è nota, d’altra parte. E’ decisamente moderna. E’ quella della continua novità, della navigazione da un riferimento ad un altro (Internet permette e in certa misura favorisce questo) da un incontro ad un altro. Senza approfondire. Tutto rimane espresso e fruito come su uno schermo, dove la parte di mistero e di imponderabile che fa da collante tra le situazioni e le cose, che ammorbidisce tutto, non viene tenuta in considerazione, in conto. 
D’altra parte, come si fa a tener conto del mistero imponderabile che è dentro ciascun uomo nel notiziario del mattino, ad esempio? Non è possibile, non c’è il tempo, non farebbe audience. Non vende nulla, perché non serve nessun prodotto. La dimensione verticale è quella del viaggio dentro se stessi. E’ il viaggio che dà senso e lenisce il disagio, la sofferenza. Del resto, ogni croce è ben piantata a terra, il senso di ogni dolore non è compreso a fondo e non fiorisce, non è fecondo, finché rimaniamo in orizzontale, in superficie.

Mi sono convinto, per letture e soprattutto per esperienza, che il prezzo che si paga vivendo scollegati dalla propria profondità, dalla comprensione della propria intimità, è assai caro.

La stada per
C’è un viaggio che fa respirare davvero…
La comprensione profonda della propria intimità porta alla vera essenza dell’intera umanità, dove risultano inutili, indifferenti, segni esteriori come il denaro, il sesso, il successo, il potere, se non vissuti come cifre, attraverso la cui lettura si ritorna alla conoscenza di se stessi. La paura, la disperazione, la violenza, la depressione, le manie, le ossessioni, attraverso la psicospiritualità vengono capite, comprese, reinscritte in un nuovo codice dove hanno perso forza, carica, e sono state diluite nella vita, nell’anima. Con la conoscenza di sè, con il desiderio di capire la condizione umana, di dare senso all’esistenza, si dà senso alla solitudine. (Valerio Albisetti)

Così non sorprende come la creatività si nutra profondamente del movimento verticale, dell’andare dentro di noi portandoci inevitabilmente dietro la parte del mondo con cui siamo a contatto, le nostre circostanze. Tuffando l’orizzontale dentro il verticale. Il contingente nell’eterno, la molteplicità nel significato. Dentro c’è la linfa vitale, l’ingradiente necessario a far reagire tutto quello che abbiamo trattenuto della realtà, perché generi un visione nuova, una visione creativa. L’anima viene da Dio, ovvero è agganciata all’eternità, al senso.

Mi pare di aver capito questo. Non è possibile essere creativi se si accetta supinamente di rimanere prigionieri nei nostri pensieri. Non avviene la reazione necessaria, manca qualcosa. Di estremamente importante, di nascosto ma eterno. Se si lascia spazio al vuoto tra le parole, alla pausa tra i pensieri, invece, può accadere qualcosa.

Accettare l’invito al viaggio verso se stessi è immettersi ipso facto in un percorso di creatività. Anche se non si è artisti, in senso stretto. Una persona che accetta il lavoro di andare a sè è comunque un artista, secondo me. E’ la persona adatta per scoprire la verità enunciata da Chesterton, La vita è la più bella delle avventure ma solo l’avventuriero lo scopre.

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Positività

Il lavoro è precisamente questo, rintracciare la positività in tutto quello che accade. Anzi, di tutto quello che accade. Allora ogni cosa diventa un’occasione, e non è più un lamento.

Non mi è possibile passare dal lamento alla sfida senza questa accanita ed appassionata ricerca della positività. E’ un lavoro, appunto. Un lavoro che va fatto da mattina a sera (e spesso anche la notte).  Un lavoro che può fare la differenza (ecco perché è ragionevole farlo), dare grossi risultati, nei rapporti personali, nei rapporti affettivi, come genitore, nel sesso, ovunque..

Smile!

Un lavoro che passa necessariamente nella vita ordinaria, come attitudine ad abbracciare le circostanze.

Ci stavo pensando stamattina, in palestra. Per un momento sono riuscito ad osservarmi come dall’esterno, e non essere automaticamente invischiato in ogni cosa che penso. Ho capito allora quanto spesso la mente mi “vende” pensieri ed atteggiamenti negativi, rinunciatari, quante volte passa il pensiero tanto io non ci riesco oppure tanto non sono in grado oppure anche, davanti ad una difficoltà anche minima, ad un lieve imprevisto ah ma ci mancava anche questa ora.

Fermi tutti. Come sarebbe? Ora basta. Non sono più disposto a comprare tutto quello che mi vende la mente. Non più. Questo è il lavoro. Sostituire delicatamente i pensieri negativi perlopiù (grazie al cielo) immotivati, con pensieri positivi e costruttivi. Passare ad uno stato energetico migliore, a frequenze più elevate, diciamo. 
La bassa frequenza è tristemente contagiosa. Tende ad autorinforzarsi. L’ho notato anche ieri. Più vedi cupo più vuoi vedere cupo. Perché è così? Perché a volte ho questa paura di essere felice? Tante volte me lo sono chiesto, ma adesso mi pare di avvicinarmi per la prima volta ad una risposta. Perché nella felicità l’ego si ridimensiona, scompare. L’ego vive benissimo nel conflitto, nell’infelicità, nella tensione. Ci sguazza. La felicità è inevitabilmente uno stato prossimo ad una armonia universale, come tale l’ego viene messo in crisi. Intendo l’ego come la parte più impulsiva, reattiva, in un certo modo infantile, che ci portiamo dentro. Quella che vuole incondizionato amore e attenzione, che non è disposta all’attesa per avere qualcosa. Quella che non concepisce che esista altro oltre le cose che vedi e tocchi.
Mi dico, quello che mi ci vuole è guardare le circostanze con occhio diverso. Perché poi alla fine sono loro, le circostanze, che per me esistono davvero. E’ il modo in cui la realtà mi tocca.  
Luigi Giussani l’ha espresso bene. La vocazione è andare al destino abbracciando tutte le circostanze attraverso cui il destino ci fa passare

Andare al destino è realizzare se stessi. Essere felici profondamente.


Nella vita di chi Egli chiama, Dio non permette che accada qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di coloro che Egli ha chiamati.

Quindi tutto ha senso. Tutto.

Davanti a ogni circostanza e a ogni sfida, che sono costanti, io sono costretto a decidere se rimanere nel lamento oppure se guardarla come la possibilità attraverso cui il Mistero chiama me al rinnovamento della mia autocoscienza. 

C’è molto da lavorare, per me. Guardandomi da fuori, scopro finalmente che l’attitudine al lamento è diventata quasi una abitudine, senza che l’avessi mai pianificato. Si è consolidata durante anni e anni, un atteggiamento non programmato ma comunque vissuto. Però la cosa non mi spaventa, fintanto che vedo una strada che si può percorrere. C’è una strada da poter camminare, e io la voglio fare. Poi il passo sarà anche lento, ma cerco di non preoccuparmi. L’importante è camminare.

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La poesia è molto più di questo

Guest post di Andrea Castellani
Nel novembre del 2002 si è verificata una curiosa coincidenza: una signora novantenne ha regalato  alla famosa rivista “Poetry” cento milioni di dollari per superare le difficoltà finanziarie di questa nuova epoca, soldi che ha ereditato insieme alla casa farmaceutica produttrice del Prozac. “E’ un segno del destino che il denaro speso per antidepressivi sia andato a finanziare la più antica e ignorata delle medicine”, scrive Gramellini su La Stampa (“I versi della nonna”, 20/11/2002). Ma sa anche che, in fondo, la verità è un’altra, come dimostra l’età della fortunata ereditiera: sono sempre loro, gli anziani, a cercare consolazione per una vita che ormai sfugge dal loro controllo. Emblematica la sua conclusione: “Rimane la gioia di vedere tanti vecchi rifugiarsi nella poesia […]. E la rabbia di saperli quasi costretti a scrivere, dal momento che il mondo non li ascolta più.”
Poesia
“Ovunque io vada,vedrò una poesia abbracciarmi” (Adonis)

Già, perché nel mondo del terzo millennio non c’è più spazio per loro, come non ce n’è per la loro poesia…Essi, come la poesia, sono ormai vestigia di un epoca passata, e non possono certo trovare un proprio posto nella società dell’attuale, tanto presa dal presente da dimenticare il passato, e gettarsi senza scrupoli in un futuro che non comprende. Già nel 1975 Montale aveva avvertito le conseguenze di una società in cui i mass media hanno tentato di “annientare ogni possibilità di solitudine e riflessione” (“E’ ancora possibile la poesia?”, Discorso tenuto all’Accademia di Svezia in occasione del Premio Nobel per la poesia), una società ormai dominata da un “esibizionismo isterico” (o.cit.) che poi è l’apparire, non importa il come e il perché, l’illudersi di essere protagonisti dell’interminabile corsa verso un “attuale” in costante mutamento, quindi irraggiungibile. Da allora, credo di poterlo dire con sicurezza, tale processo non ha fatto che accelerare: i conflitti, i governi, le idee e le mode vanno e vengono con la stessa velocità di una hit dell’estate.

In una società così votata all’apparenza della felicità nel nuovo, che ruolo potrà mai avere la poesia? Per lei non c’è più spazio tra le pagine delle maggiori pubblicazioni, né sui principali canali radio-televisivi, né tantomeno nei famosi caffé di una volta, e neppure nelle parole dei nostri idoli, della nostra classe dirigente. Se questa popolarità, questo indiscusso e riconosciuto ruolo di guida sociale è ciò a cui aspira la poesia, allora sì, è morta, forse per sempre. E a poco servirebbe condannarne gli assassini, perché ne saremmo tutti complici, di questo pubblico delitto… e non la farebbe comunque tornare in vita.

Ma forse la poesia non è davvero questo, forse è altro: una “possibilità infinitamente sospesa” (G. Raboni, “La poesia? Si vende ma non si dice”, sul Corriere della Sera, 18/01/2003), un sentimento unico, sfuggente, sorprendente, che alberga in tutti noi, nel profondo. Se la poesia fosse davvero morta, nota giustamente G. Conte (“Ma la poesia non sempre deve essere popolare”, su Il Corriere della Sera, 15/01/2003), “non sarebbe un capitolo della storia umana a chiudersi, ma sarebbe l’umanità stessa a cambiare”. O, per meglio dire, a scomparire: la poesia, a mio avviso, è molto più che forma, molto più che un paio di pagine scritte in versi… è nella musica, vecchia e nuova, nell’arte, nei romanzi, nel cinema, anche nei videogiochi, purchè tutto ciò sia ispirato da veri sentimenti, piuttosto che da analisi di mercato; è insomma nel nostro linguaggio, nelle nostre idee, nei nostri pensieri, è nella vita di tutti i giorni. Senza di essa, non saremmo che macchine. 
Se è questa la poesia, allora non morirà mai. E fa poca differenza il fatto che, rispetto alle epoche passate, abbia perso un suo preciso riconoscimento sociale all’interno di limiti e convenzioni prestabilite, al punto che oggi  l’occasionale evento mediatico “inquina senza scampo quelle privatissime risonanze” (C. Fruttero, “L’indice di Borges”, Tuttolibri, 11 gennaio 2003) che essa produce…anzi, oserei dire, è un bene: di fronte al conformismo sempre più diffuso della società,  forse essa è davvero l’unica cosa che ci resta di inimitabile, insostituibile, personalissimo, e proprio per questo, quindi, universale.

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Come fare il brodo…

Come ti senti? E’ una domanda che mi hanno fatto su Facebook, pochi giorni fa. Il riferimento è al romanzo appena (auto)pubblicato, Il ritorno. Come ti senti, dopo averlo terminato? Cosa fare dopo? E potrei accostare un’altra domanda, rivoltami oggi di persona. E ora che hai finito il libro? Così il saluto di Teresa, qualche giorno fa, in occasione di un battesimo. Mi raccomando non smettere di scrivere.

Forse è questo. Forse è questa la risposta e il tratto di unione con le altre domande. Mi raccomando non smettere di scrivere. Se ci penso, c’è dentro tutto. Tutto quello che mi serve. E non c’è quello che porta fuori strada. Non dice mi raccomando cerca di farti pubblicare da un grande editore, mi raccomando cerca di sfondare. Non dice questo, no. Dice solo di non smettere. 

Don’t give up.
Questo mi fa pensare ad una frase del bel libro di James Scott Bell Writing Fiction for all you’re worth. E’ sempre troppo presto per smettere.
Così uno potrebbe dirsi, ok, ci siamo tolti questa soddisfazione, ora pensiamo ad altro. No, sarebbe sempre troppo presto. D’altra parte, c’è il fatto che le parole comunque arrivano, in testa. Tendono a strabordare, se contenute. Bisogna arrendersi. Mi devo arrendere al flusso, lasciar fluire.

Sono loro che fanno tutto, le parole.

Devo soltanto accettare di colorarle lasciandole passare attraverso me stesso, lasciandole impregnare di me, dei miei umori. In fondo fare lo scrittore è come fare il brodo. Bisogna lasciar impregnare della propria carne, della propria vita le parole. Che all’inizio sono neutre, come l’acqua. E’ una cosa sulla quale lavorare, così come devo, voglio, lavorare su me stesso (tentativamente) ogni giorno della vita. Lavorare sulle parole e lavorare su di sè. Non sono cose molto distanti, a pensarci bene. E’ più un lavoro che ingloba, comprende, entrambe le cose.

Veggie Brodo in the Afternoon
Fare il brodo è come scrivere (dettagli nel testo)!

Così penso che se uno ha la passione – diciamo – per l’uncinetto, il lavoro su di sè deve comprendere, trattare, affrontare, trasportare, anche questa passione. Siamo mica neutri e uguali, come contenitori che possiamo riempire con qualsiasi cosa si voglia. No, abbiamo una conformazione interna, come una forma nascosta, siamo fatti per seguire certe strade, accogliere certe cose. Ci vuole attenzione e rispetto di sè, per individuare la vocazione e per decidere di seguirla.

Certo che si può essere disattenti a sè e non seguire. Ma non è mai una buona idea. Se non seguo, mi  metto in rotta di collisione con tutto quanto, tutto quanto mi diventa pesante. Mentre accettare di seguire, nonostante tutti i dubbi e le perplessità,  mi libera immediatamente e mi rende intimamente contento e più robusto. Quante volte me lo devo dire. Quante volte me lo devo scrivere…

Perché è semplice, in fondo. Bastano tre parole. Ha ragione Teresa.

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