Il lavoro è precisamente questo, rintracciare la positività in tutto quello che accade. Anzi, di tutto quello che accade. Allora ogni cosa diventa un’occasione, e non è più un lamento.

Non mi è possibile passare dal lamento alla sfida senza questa accanita ed appassionata ricerca della positività. E’ un lavoro, appunto. Un lavoro che va fatto da mattina a sera (e spesso anche la notte).  Un lavoro che può fare la differenza (ecco perché è ragionevole farlo), dare grossi risultati, nei rapporti personali, nei rapporti affettivi, come genitore, nel sesso, ovunque..

Smile!

Un lavoro che passa necessariamente nella vita ordinaria, come attitudine ad abbracciare le circostanze.

Ci stavo pensando stamattina, in palestra. Per un momento sono riuscito ad osservarmi come dall’esterno, e non essere automaticamente invischiato in ogni cosa che penso. Ho capito allora quanto spesso la mente mi “vende” pensieri ed atteggiamenti negativi, rinunciatari, quante volte passa il pensiero tanto io non ci riesco oppure tanto non sono in grado oppure anche, davanti ad una difficoltà anche minima, ad un lieve imprevisto ah ma ci mancava anche questa ora.

Fermi tutti. Come sarebbe? Ora basta. Non sono più disposto a comprare tutto quello che mi vende la mente. Non più. Questo è il lavoro. Sostituire delicatamente i pensieri negativi perlopiù (grazie al cielo) immotivati, con pensieri positivi e costruttivi. Passare ad uno stato energetico migliore, a frequenze più elevate, diciamo. 
La bassa frequenza è tristemente contagiosa. Tende ad autorinforzarsi. L’ho notato anche ieri. Più vedi cupo più vuoi vedere cupo. Perché è così? Perché a volte ho questa paura di essere felice? Tante volte me lo sono chiesto, ma adesso mi pare di avvicinarmi per la prima volta ad una risposta. Perché nella felicità l’ego si ridimensiona, scompare. L’ego vive benissimo nel conflitto, nell’infelicità, nella tensione. Ci sguazza. La felicità è inevitabilmente uno stato prossimo ad una armonia universale, come tale l’ego viene messo in crisi. Intendo l’ego come la parte più impulsiva, reattiva, in un certo modo infantile, che ci portiamo dentro. Quella che vuole incondizionato amore e attenzione, che non è disposta all’attesa per avere qualcosa. Quella che non concepisce che esista altro oltre le cose che vedi e tocchi.
Mi dico, quello che mi ci vuole è guardare le circostanze con occhio diverso. Perché poi alla fine sono loro, le circostanze, che per me esistono davvero. E’ il modo in cui la realtà mi tocca.  
Luigi Giussani l’ha espresso bene. La vocazione è andare al destino abbracciando tutte le circostanze attraverso cui il destino ci fa passare

Andare al destino è realizzare se stessi. Essere felici profondamente.


Nella vita di chi Egli chiama, Dio non permette che accada qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di coloro che Egli ha chiamati.

Quindi tutto ha senso. Tutto.

Davanti a ogni circostanza e a ogni sfida, che sono costanti, io sono costretto a decidere se rimanere nel lamento oppure se guardarla come la possibilità attraverso cui il Mistero chiama me al rinnovamento della mia autocoscienza. 

C’è molto da lavorare, per me. Guardandomi da fuori, scopro finalmente che l’attitudine al lamento è diventata quasi una abitudine, senza che l’avessi mai pianificato. Si è consolidata durante anni e anni, un atteggiamento non programmato ma comunque vissuto. Però la cosa non mi spaventa, fintanto che vedo una strada che si può percorrere. C’è una strada da poter camminare, e io la voglio fare. Poi il passo sarà anche lento, ma cerco di non preoccuparmi. L’importante è camminare.

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