Blog di Marco Castellani

Mese: Novembre 2012

Tenere (veramente) un diario

L’ultimo aggiornamento di DayOne, l’applicazione che ho scelto per mantenere un diario privato, ha introdotto finalmente una caratteristica che aspettavo da tanto. Sono arrivate le etichette. 

E questo cambia tutto! Ho aperto DayOne sull’iPad e ho cominciato a rivedere i post all’indietro, aggiungendo le opportune tag, le etichette appunto, individuando una o più parole chiave. Così poi è facile percorrere in mille direzioni diverse quello che si è scritto: ogni parola appunto rappresenta una direzione di lettura, un possibile percorso nella memoria. 
Diary Page
Il diario (vero o digitale) è una traccia, è lo scrivere la vita. Per capirla.
Mi accorgo che un po’ anche la mia mente funziona a parole chiave. Fin troppo, alle volte. Se ho un disagio nel momento presente, il rischio concretissimo è che riveda la mia stessa storia pescando dall’insieme dei ricordi soltanto quelli che mi confermano nel disagio. Come se senza volerlo deliberatamente, sfogliassi la mia memoria prendendo solo i post con etichetta disagio. Grazie al cielo funziona anche al contrario: quando sono contento è più facile trovare i “post” nella memoria in cui si è contenti.
Ma la cosa più importante è che la memoria ci sia. Il disagio veramente grande secondo me è essere schiacciati sul momento presente. Tutto diverso dal fatto di vivere il momento. Mi pare che è tanto più possibile vivere bene il momento presente se non è vissuto come un granellino pazzo e sconnesso da tutto, ma fa parte di una mia storia. L’angoscia più grande è slittare nel tempo senza lasciare traccia, senza lasciare una storia.
Ma non è tutto, così ancora il cerchio non si chiude. I conti non mi tornano. Per farli tornare scopro (spesso a fatica, con un lavoro) che devo uscire da me, dal mio criterio. Sì, perché è solo quando mi sento parte di una Storia che riesco a guardare con simpatia e rispetto anche alla mia storia personale. 
Così lascio che si dipani, che aderisca allo spazio tempo, che lasci la sua impronta. Se mi sento parte di una Storia, una grande avventura cosmica – diciamo – trovo un senso anche nella mia storia personale, anche se afflitta da strappi e buchetti, da giornate mezze storte, da grumi che non scorrono bene. Il razionalismo che mi sussurra di stare solo a ciò che vedi prima di suscitarmi perplessità od obiezioni teoretiche mi mette innanzitutto una paura matta. 
Se non interpreto quello che vedo come la punta di un iceberg in cui c’è molto più di ciò che vedo, o che tocco scientificamente, la stessa parte di realtà che è visibile mi impazzisce sotto le mani. Non vi trovo il senso. Per trovarvi il senso devo fare un passo in più. Devo abituarmi a guardare il reale, le circostanze (l’unica parte del reale con cui interagisco) come segnale di altro, come invito e occasione a traversarlo per andare giù dentro di me, iniziare il viaggio – fino a trovare segno di Qualcosa che trascende il tempo e allo stesso momento ne è profonda giustificazione.
In fondo, tenere un diario è tener traccia delle manifestazioni più periferiche ma più importanti della storia dell’universo, quelle che arrivano fino alla mia interfaccia e mi provocano a pensieri, azioni, atteggiamenti. Dove la mia libertà entra in gioco. Non vi è parte più importante di tutto l’universo di quella che mi tocca, istante per istante. E l’azione di scrivere è come una ruminatio, una riflessione benefica.

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Pazienza

Questa è una cosa che voglio impazientemente. Eh sì, perché con ciò mostro subito il fianco, espongo il punto debole. Sono impaziente, lo ammetto. Impaziente di ottenere quello che voglio, impaziente di uscire da ogni forma di disagio (fisico, psicologico). Ecco come sono, interiormente impaziente.

Poco giova appoggiarsi alle usuali considerazioni di come il vivere moderno favorisca, insieme con una certa inconsapevolezza esistenziale, anche una marcata impazienza. Basta mettersi in macchina, per capirlo. Abbiamo tutti fretta di arrivare da qualche parte, in qualche luogo, per parlare con qualcuno, vederlo, fare, decidere. Non sopportiamo ogni piccolo impedimento. Io per primo, in auto devo lottare contro la mia impazienza. Se uno va piano davanti a me sono impaziente, se uno mi lampeggia dietro sbuffo.

Traffic ?
Ecco una classica (e ben nota) occasione di pazienza…

Forse è un indice di come spesso non stiamo bene con noi stessi. Ci portiamo dietro i problemi irrisolti, le incomprensioni coniugali, le frustrazioni lavorative, il senso di felicità insoddisfatto. Ci illudiamo che spostandoci rapidamente possiamo lasciar dietro il disagio. Invece spesso esponiamo noi e altri ad inutili rischi. In ultima analisi perdiamo di vista la sacralità dell’esistenza, che è di ogni istante.
Forse è anche che la nostra società è impostata sul fare. Rimanendo in superficie, è inevitabile che il fare abbia il predominio. Ti illudi di salvarti (ovvero, come proiezione immediata, di trovare il senso) facendo e riuscendo nel tuo fare.  Quindi uno è sempre inquieto, non riesce a riposarsi a lungo perché ogni acquisizione è temporanea e soggetta a variazioni.
E’ un segno della mancanza di profondità. Mi colpisce la frase di Don Giussani che leggo oggi su Tracce di novembre, perché capovolge il punto di vista (quello che tante volte è esattamente il mio). Era in una lettera a delle persone che andavano in Brasile per seguire la propria vocazione, ma mi pare abbiano una portata universale:

Non è importante quello che riuscirete a fare: è decisivo quello che riuscirete ad essere. Noi vogliamo il Regno di Dio: per il Regno di Dio – da Cristo in poi – è importante quello che si é, non quello che si riesce a fare… 

Il Regno implica la discesa nella profondità di noi. Cadere nel centro di noi stessi, dove ci aspetta l’Assoluto. Restare in superficie è restare invischiati in questa frenesia del fare. 
Il fatto è che non si riesce ad aver pazienza gratis. Non ci si acquieta senza la percezione di un bene in atto, di un presente positivo. Anche se il giorno prima fosse successa la cosa più bella del mondo, ho bisogno che succeda qualcosa adesso. Altrimenti, annaspo, non respiro.
Quindi la pazienza vera si incontra con la contemplazione. Percepisco qualcosa di bello che mi aiuta a vivere non uscendo dai miei guai ma attraverso i miei guai. 

La pazienza cresce e si modula attorno alla consapevolezza delle cose belle. Alla percezione, che penso possa essere educata (attraverso un lavoro), che la realtà è positiva. Ed è all’opposto della rassegnazione, perché la prima ha come una energia buona, una frequenza alta, la seconda no. Nella prima si è in accordo con il cosmo, con la totalità. E’ un “assenso” anche faticoso, ma fecondo; nella seconda ci troviamo in sterile “opposizione”.
Dice ancora Giussani (in Certi di alcune grandi cose):

La pazienza è il modo di portare la totalità o di portare tutto verso la totalità. E’ una energia, la pazienza, non un subire o una rassegnazione. La rassegnazione è la non vita, la pazienza è la dinamica del vivere. “Nella vostra pazienza possiederete voi stessi” – dice Cristo -. Questa è la pazienza,  è la strada al possesso.

Che la pazienza sia strada al possesso è una cosa quasi paradossale, contro la quale gran parte di me si ribella (diciamo, contro la quale il mio ego fa una battaglia furibonda). Se non fosse, che quando alla fine cedo a questo, ecco. Mi sento immediatamente meglio…

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Perché stavolta non faccio il NaNoWriMo

Alla fine mi sto decidendo a lasciar perdere, e ne sono contento. Chissà perché, ci sono cose che si riescono a fare con la sufficiente motivazione soltanto una volta. Come, nel mio caso, il tragitto Roma-Argentario in bicicletta (quella estate dopo gli esami di maturità, con due amici), e per venire a questo post, il National Novel Writing Month (NaNoWriMo), quell’esercizio estremo di scrittura per cui la sfida è scrivere 50000 parole nell’arco di un mese.
Milleseicento parole al giorno non rientrano nel mio stato naturale di scrittura, al momento. Diverso è quando sarò famosissimo come scrittore e mi vedrò costretto a diminuire l’impegno come scienziato in favore di una adesione più piena alle richieste del mio (futuro) editore (chissà!).


Visualizzazione ingrandita della mappa
Una volta sola è sufficiente…

E’ vero che il NaNoWriMo è un modo eccellente e un po’ pazzo per vincere le resistenze del proprio editore interno e scrivere davvero. Però mi forza troppo. Dunque ho cominciato con qualche dubbio, ma già ieri ero abbastanza indietro. D’altra parte dovevo riconoscere che questo secondo romanzo almeno lo stavo finalmente mettendo in lavorazione. E quindi? Che fare? Fortunatamente, cercando per un numero minore di parole, mi sono imbattuto in questo articolo…. Era la risposta che cercavo. Mi è sembrato subito così sensato! 500 parole e non 1600 e più. E’ giusto darsi degli obiettivi anche giornalieri, ma è bene che siano ragionevoli.  

Ho capito cosa c’era dietro il mio calo di motivazione. Non mi va di scrivere all’impazzata tenendo solo conto del numero di parole, stavolta. Non mi va di trascurare questo blog e gli altri siti, per arrivare ogni giorno a superare le 1600 parole nel romanzo. Neanche, di sentirmi a disagio i giorni in cui non ce la faccio.

Fare il NaNoWrimo almeno una volta comunque è una pazzia divertente ed esaltante, grazie anche alla comunità di persone che si raduna intorno a questo “evento”. Così intendiamoci, sono contentissimo di averlo fatto, nel novembre del 2009, e di averlo vinto. Con tutta probabilità, non avrei ancora un mio romanzo, a questo punto della vita. Un romanzo scritto nell’arco effettivamente di un mese, anche se poi, come è ovvio, il processo di revisione e parziale riscrittura ha preso un tempo moooolto più lungo….

Ora se c’è una cosa buona che il NaNoWriMo di quest’anno (a cui appunto, non parteciperò) ha fatto, in quei due o tre giorni in cui ho pensato seriamente di buttarmici, è stato costringermi a prendere sul serio il fatto di affrontare un altro “grande progetto”. Scrivere un secondo romanzo, dopo “Il ritorno”.

Da molto tempo mi girano in testa dei fatti, delle situazioni. Dei luoghi, soprattutto. Quello che stavolta mi prende è soprattutto la geografia, vedere alcuni luoghi come catalizzatori di situazioni, di intrecci, di sentimenti. Ora mi accorgo che per molto tempo ho procrastinato, con varie (sempre onorevoli…) scuse.
Da oggi vorrei prendermi l’impegno di lavorarci in modo più continuativo, più professionale, diciamo. E siccome la cosa più importante è scrivere (è sempre la regola numero uno, a buon diritto), la cosa si traduce assai pragmaticamente in buttar giù un certo numero di parole al giorno (o alla settimana).

Tutti i libri, i manuali di scrittura, i siti per scrittori, convergono su questa cosa. Scrivere parole. Magari poi si scartano al 95%, ma non sono state vane (questa è una cosa che all’inizio non capivo, il mio ideale romantico non prevedeva di scrivere per acquisire pratica, per allenarsi, per trovare ed affinare la propria voce). E’ anche una cosa di umiltà. L’umiltà di fare pratica, di fare palestra. Crescere come scrittore, scrivendo. 

Argentario 005
A proposito di luoghi, il mio secondo romanzo si apre qui, in Argentario…

Lo so, ci saranno giorni in cui non metterò giù parola. Lo metto in conto. Ma allora – perlomeno – mi dovrò confrontare onestamente con quanto ho scritto qui, adesso. Con l’impegno a cercare di diventare sempre migliore nello scrivere. Ecco un’altra ragione per …. scriverlo. Qui. Nero su bianco (diciamo, sfondi colorati a parte…). In un certo senso è un impegno pubblico, per cui spero che la cosa mi aiuti a tenerlo in maggiore considerazione riguardo – poniamo – ad un patto segreto tra me e me.

Allo stesso tempo, cercherò di postare periodicamente qui dei resoconti sullo stato del progetto. Per lo stesso intento motivazionale. E anche con l’intento (segretissimo!) di creare almeno un po’ di interesse 🙂

Per cioò che concerne il numero di parole, vediamo se 500 vanno bene o se dovrò ritoccare in qualche modo. Io spero che possa andare: nell’arco di una settimana (lasciando un giorno fuori per riposare o recuperare) vuol dire 3000 parole. In cento giorni di scrittura dovrei avere le cinquantamila parole del NaNoWrimo.

Non è male, se pongo mente a quanto la scrittura sia terapeutica, per me. No, non è male, se penso a quante trances di cento giorni ho fatto passare scrivendo poco o anche meno…

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