Questa è una cosa che voglio impazientemente. Eh sì, perché con ciò mostro subito il fianco, espongo il punto debole. Sono impaziente, lo ammetto. Impaziente di ottenere quello che voglio, impaziente di uscire da ogni forma di disagio (fisico, psicologico). Ecco come sono, interiormente impaziente.

Poco giova appoggiarsi alle usuali considerazioni di come il vivere moderno favorisca, insieme con una certa inconsapevolezza esistenziale, anche una marcata impazienza. Basta mettersi in macchina, per capirlo. Abbiamo tutti fretta di arrivare da qualche parte, in qualche luogo, per parlare con qualcuno, vederlo, fare, decidere. Non sopportiamo ogni piccolo impedimento. Io per primo, in auto devo lottare contro la mia impazienza. Se uno va piano davanti a me sono impaziente, se uno mi lampeggia dietro sbuffo.

Traffic ?
Ecco una classica (e ben nota) occasione di pazienza…

Forse è un indice di come spesso non stiamo bene con noi stessi. Ci portiamo dietro i problemi irrisolti, le incomprensioni coniugali, le frustrazioni lavorative, il senso di felicità insoddisfatto. Ci illudiamo che spostandoci rapidamente possiamo lasciar dietro il disagio. Invece spesso esponiamo noi e altri ad inutili rischi. In ultima analisi perdiamo di vista la sacralità dell’esistenza, che è di ogni istante.
Forse è anche che la nostra società è impostata sul fare. Rimanendo in superficie, è inevitabile che il fare abbia il predominio. Ti illudi di salvarti (ovvero, come proiezione immediata, di trovare il senso) facendo e riuscendo nel tuo fare.  Quindi uno è sempre inquieto, non riesce a riposarsi a lungo perché ogni acquisizione è temporanea e soggetta a variazioni.
E’ un segno della mancanza di profondità. Mi colpisce la frase di Don Giussani che leggo oggi su Tracce di novembre, perché capovolge il punto di vista (quello che tante volte è esattamente il mio). Era in una lettera a delle persone che andavano in Brasile per seguire la propria vocazione, ma mi pare abbiano una portata universale:

Non è importante quello che riuscirete a fare: è decisivo quello che riuscirete ad essere. Noi vogliamo il Regno di Dio: per il Regno di Dio – da Cristo in poi – è importante quello che si é, non quello che si riesce a fare… 

Il Regno implica la discesa nella profondità di noi. Cadere nel centro di noi stessi, dove ci aspetta l’Assoluto. Restare in superficie è restare invischiati in questa frenesia del fare. 
Il fatto è che non si riesce ad aver pazienza gratis. Non ci si acquieta senza la percezione di un bene in atto, di un presente positivo. Anche se il giorno prima fosse successa la cosa più bella del mondo, ho bisogno che succeda qualcosa adesso. Altrimenti, annaspo, non respiro.
Quindi la pazienza vera si incontra con la contemplazione. Percepisco qualcosa di bello che mi aiuta a vivere non uscendo dai miei guai ma attraverso i miei guai. 

La pazienza cresce e si modula attorno alla consapevolezza delle cose belle. Alla percezione, che penso possa essere educata (attraverso un lavoro), che la realtà è positiva. Ed è all’opposto della rassegnazione, perché la prima ha come una energia buona, una frequenza alta, la seconda no. Nella prima si è in accordo con il cosmo, con la totalità. E’ un “assenso” anche faticoso, ma fecondo; nella seconda ci troviamo in sterile “opposizione”.
Dice ancora Giussani (in Certi di alcune grandi cose):

La pazienza è il modo di portare la totalità o di portare tutto verso la totalità. E’ una energia, la pazienza, non un subire o una rassegnazione. La rassegnazione è la non vita, la pazienza è la dinamica del vivere. “Nella vostra pazienza possiederete voi stessi” – dice Cristo -. Questa è la pazienza,  è la strada al possesso.

Che la pazienza sia strada al possesso è una cosa quasi paradossale, contro la quale gran parte di me si ribella (diciamo, contro la quale il mio ego fa una battaglia furibonda). Se non fosse, che quando alla fine cedo a questo, ecco. Mi sento immediatamente meglio…

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