L’ultimo aggiornamento di DayOne, l’applicazione che ho scelto per mantenere un diario privato, ha introdotto finalmente una caratteristica che aspettavo da tanto. Sono arrivate le etichette. 

E questo cambia tutto! Ho aperto DayOne sull’iPad e ho cominciato a rivedere i post all’indietro, aggiungendo le opportune tag, le etichette appunto, individuando una o più parole chiave. Così poi è facile percorrere in mille direzioni diverse quello che si è scritto: ogni parola appunto rappresenta una direzione di lettura, un possibile percorso nella memoria. 
Diary Page
Il diario (vero o digitale) è una traccia, è lo scrivere la vita. Per capirla.
Mi accorgo che un po’ anche la mia mente funziona a parole chiave. Fin troppo, alle volte. Se ho un disagio nel momento presente, il rischio concretissimo è che riveda la mia stessa storia pescando dall’insieme dei ricordi soltanto quelli che mi confermano nel disagio. Come se senza volerlo deliberatamente, sfogliassi la mia memoria prendendo solo i post con etichetta disagio. Grazie al cielo funziona anche al contrario: quando sono contento è più facile trovare i “post” nella memoria in cui si è contenti.
Ma la cosa più importante è che la memoria ci sia. Il disagio veramente grande secondo me è essere schiacciati sul momento presente. Tutto diverso dal fatto di vivere il momento. Mi pare che è tanto più possibile vivere bene il momento presente se non è vissuto come un granellino pazzo e sconnesso da tutto, ma fa parte di una mia storia. L’angoscia più grande è slittare nel tempo senza lasciare traccia, senza lasciare una storia.
Ma non è tutto, così ancora il cerchio non si chiude. I conti non mi tornano. Per farli tornare scopro (spesso a fatica, con un lavoro) che devo uscire da me, dal mio criterio. Sì, perché è solo quando mi sento parte di una Storia che riesco a guardare con simpatia e rispetto anche alla mia storia personale. 
Così lascio che si dipani, che aderisca allo spazio tempo, che lasci la sua impronta. Se mi sento parte di una Storia, una grande avventura cosmica – diciamo – trovo un senso anche nella mia storia personale, anche se afflitta da strappi e buchetti, da giornate mezze storte, da grumi che non scorrono bene. Il razionalismo che mi sussurra di stare solo a ciò che vedi prima di suscitarmi perplessità od obiezioni teoretiche mi mette innanzitutto una paura matta. 
Se non interpreto quello che vedo come la punta di un iceberg in cui c’è molto più di ciò che vedo, o che tocco scientificamente, la stessa parte di realtà che è visibile mi impazzisce sotto le mani. Non vi trovo il senso. Per trovarvi il senso devo fare un passo in più. Devo abituarmi a guardare il reale, le circostanze (l’unica parte del reale con cui interagisco) come segnale di altro, come invito e occasione a traversarlo per andare giù dentro di me, iniziare il viaggio – fino a trovare segno di Qualcosa che trascende il tempo e allo stesso momento ne è profonda giustificazione.
In fondo, tenere un diario è tener traccia delle manifestazioni più periferiche ma più importanti della storia dell’universo, quelle che arrivano fino alla mia interfaccia e mi provocano a pensieri, azioni, atteggiamenti. Dove la mia libertà entra in gioco. Non vi è parte più importante di tutto l’universo di quella che mi tocca, istante per istante. E l’azione di scrivere è come una ruminatio, una riflessione benefica.

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