Così, riconoscersi. Rassicurarsi appena nel mettere due o tre parole in fila. A seguire. Ci sono cose che non puoi smettere di fare, tutti i dubbi non ti fermano. Ti possono rallentare, ma non ti fermano. E’ che semplicemente rifiutando, scappando, non eludi il problema. Ti si ripresenta davanti ogni giorno. Vuoi prendere sul serio questa cosa, oggi? Certo, puoi prenderti in giro, rallentare, andare piano quanto vuoi (l’ho fatto tante volte). Puoi mettere da parte, ma non ti senti veramente a posto. Più passa il tempo e non ti senti a posto. Qualcosa non ti lascia a posto – semplicemente ciò che rimane intorno, tolto quello, non ti appaga più. Non ti riempie.

La paura, la resistenza, non è da sottovalutare. Può essere paura forte, decisiva. Dici, non mi butto perché chissà, sarà per me? Sarò bravo abbastanza? Chi lo dice? Eppure la puoi sorprendere, scoprire. Passare attraverso le paure, può essere la cosa più diverente che c’è. E’ ancora tutta da scoprire, probabilmente. 
Writing nowadays
Writing nowadays, immagine di Starlightworld su Flickr
E’ noto: la cosa più difficile è l’inizio. All’inizio metti due o tre parole in fila, scrivi qualche paragrafo. L’hai fatto perché non potevi evitarlo. Le hai provate tutte per non scrivere, ma alla fine hai dovuto. Ecco. Quando rileggi arriva il colpo decisivo. No, non va bene. E’ zoppicamente, suona male. Pieno di ripetizioni. Non decolla. Certo, c’è questa frase che forse va bene. Forse sì, questa va bene. Però no, complessivamente non va: è evidente.
E quello che è peggio, la cosa che fa più scandalo, non è nemmeno questa. E’ l’idea. Siamo onesti, cosa volevi dire? Qual è il nucleo centrale, quel nucleo pulsante che volevi ricoprire di parole? Volevi esporre al mondo? Ai familiari, agli amici, ai contatti facebook, a tutti? E’ questo il nucleo dell’idea? Sarebbe questo? 
La vocina si fa più insidiosa, fino a darti la mazzata più forte. “Ma se è questo che riesci a scrivere, se l’idea che esprimi è tanto ingenua, non è meglio che lasci perdere?” 
Questo mi ha spesso fermato. Leggevo quello che avevo scritto, e subito dopo aver letto, l’impulso era sempre lo stesso. Volevo scappare. O magar far finta di niente, far finta che non ero io. Che io ero molto meglio, se solo avessi voluto. Il solo fatto che io sapessi di riuscire a scrivere soltanto in “questo modo” era già destabilizzante. Lo scarto tra l’idea indistinta e luminosa nella mente e il risultato sulla carta è stridente. Ma allora, io scrivo così?
Meglio cullarsi nell’idea rassicurante che sarei molto bravo, se solo volessi. Sembra rassicurante, all’inizio. Poi capisci che è la strada verso il disagio. Perché quando scappi il disagio, comunque, arriva.
Il punto è  magari che bisogna fare palestra, ogni passione va coltivata. Più profondamente: nessuna auto(s)valutazione può avere la consistenza adeguata per mettere in dubbio la propria vocazione. E’ semplicemente su un altro piano, è solo un ennesimo tentativo di resistere. Il messaggio positivo è esattamente in senso opposto alla paura,  non devo smettere, devo lavorarci di più. Non bisogna scandalizzarsi della propria imperfezione, dobbiamo appunto lavorarci su, nella pace.
D’altra parte gli ostacoli, le paure vengono per questo. Per verificare se una cosa la vuoi abbastanza, la vuoi davvero. Se la vuoi davvero, probabilmente la cosa la devi fare. Probabilmente è la missione che ti è stata affidata fin dall’eternità dei tempi. 
Certo fa tremare i polsi pensare di avere una missione. Mettersi di fronte alla propria unicità può spaventare. Anzi a volte terrorizza proprio. Non siamo più abituati a pensare che ognuno di noi è unico, straordinario ed irripetibile, in tutta la storia del cosmo. Per troppo tempo hanno provato a convincerci del contrario, e forse abbiamo prestato troppa fede a gente ancor più spaventata di noi. 
Chi ci ha già rinunciato / e ti ride alle spalle / forse è ancora più pazzo di te. 
(Edoardo Bennato, L’isola che non c’è)
Ci vuole un lavoro anche per cedere, per arrendersi. 
Ma se questo deve essere, se questa è la verità, allora sia. 
Che poi uno si accorge che se prende sul serio la propria vocazione, l’universo si adatta, si modifica per aiutarlo… ma questa è un’altra storia. 
O meglio: un’altra parte della stessa, unica, grande storia. La scoperta che ognuno deve fare, che realizzare sè stessi non è affannarsi dietro qualche propria idea di compimento, ma è sostanzialmente una passività. 
E’ cedere al progetto che un Altro ha su di te. 

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