E’ certo una delle cose più desiderabili. Quando mi è venuto in mente di aggiungere questa parola al mio dizionario ho dovuto cercare bene nei post passati, tanto non mi pareva vero di non averla già trattata. 

Ed è così, non l’avevo mai trattata. Almeno, non direttamente. Però sfiorata diverse volte, già avvicinata da diverse angolazioni.
E non è un caso. Perché pazienza, umiltà, ad esempio, orbitano strettamente intorno alla pace. Allora provo a fare un po’ di luce sulla questione, lavorando – come al solito – innanzitutto per me stesso, nella speranza (pacifica) che parte di quello che scrivo possa servire anche ad altri. 
Come posso definire la pace? Ecco, comincerei a dire questo. La pace è una disposizione del cuore che prima di tutto accoglie quello che è. E’ gratificare la realtà di un assenso preventivo, come dire quello che accade, va bene.

peace and daisy
 Immagine di thegoinggreenboutique su Flickr (licenza CC)

E qui siamo già nella piena battaglia, secondo me. Perché la pace implica comunque una battaglia. Se mi guardo, capisco che il mio cuore usualmente ribolle di motivi per cui non vuole essere in pace. In questo favorito anche da una sorta di attitudine sociale, per la quale la pace viene vista come cosa poco interessante, soprattutto in ambito economico e commerciale. Se sono in pace, consumo di meno, spendo di meno. Non è una cosa nuova, ma è il cuore di ogni efficace strategia commerciale: indurre un bisogno. L’idea è che soddisfatto questo “bisogno”, posso avere la pace. Può essere un gadget tecnologico, un detersivo, un deodorante… ma è comunque qualcosa che si pone come importante per il raggiungimento della pace, della felicità.
Questo favorisce la posizione del cuore che non riposa in un centro, ma è continuamente spinto su una frontiera, ad una continua verifica del reale per comprendere cosa poter ottenere di più, cosa poter conquistare. L’orizzonte è ridotto e distorto, quando le uniche cose che si vogliono conquistare sono beni materiali. Perché il cuore umano è molto più ampio.

“…la pace dipende dal fatto che l’uomo ammetta l’impossibilità di darsi la perfezione da se stesso, mentre indomabilmente riconosce il suo debito verso l’Essere.” (Luigi Giussani)


Qui andiamo al nocciolo della questione, che trascende anche ogni considerazione sociale od economica. La pace viene da una intima attitudine verso il mondo, verso il reale.
La pace è un ritorno, in un certo senso. Ritornare alla parte autentica di sé, dopo essere andati lontano. E ora capisco meglio io stesso il titolo del mio romanzo. Quello che volevo dire, soprattutto quello che volevo dirmi. Quello che volevo che si capisse, quello che volevo che io stesso potessi capire. 

La pace è anche un lavoro. E’ entrare nelle proprie paure con l’attitudine ad osservarsi, invece di giudicarsi. Osservarsi amorevolmente, accettare con affabilità anche le proprie zone oscure. E’ un lavoro davvero urgente, scendere dentro se stessi, varcare i propri strati di protezione, amarsi e lasciarsi amare – non per quello che facciamo, nemmeno amati “nonostante” gli errori,  ma per il semplice fatto che ci siamo. Che la bellezza del nostro essere è molto più profonda e splendente degli errori che possiamo fare.

Perché per portare pace al mondo, non possiamo coprire frettolosamente le parti scomode di noi stessi. Dobbiamo accettare di sporcarci le mani, scendere nel buio, nel fango, nello sporco, fino ad accettarle. Fino ad accettare l’impossibilità di darci la perfezione da noi stessi.

Un lavoro delicato da cui è bandita ogni fretta, del quale – pur in mezzo alla fatica – possiamo fin d’ora rallegrarci, perché, nel tempo, ci aspettano sicuri risultati.


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