Succede. A volte fai degli investimenti minimi, che nel tempo si mostrano di un arricchimento impressionante. Ecco il mio racconto è proprio di una di quelle volte. Una di quelle volte che si è verificato in maniera davvero incredibile.
Capita infatti che andando dalla dottoressa, ti imbatta in una bancarella. Sai, quelle con libri e compact disc? Ecco, per essere pignoli, non mi ricordo se c’erano i libri. Di CD, originali per giunta, ce ne stavano parecchi. Ricordo di aver sfrugolato abbastanza, trovando anche cose interessanti (tra cui una serie di CD di Luci Battisti che un po’ mi pento di non aver preso). Tra quelle ti può capitare sotto gli occhi un vecchio CD dei Genesis, quel Three Sides Live che ricordi senza troppa emozione, come un doppio album, dal vivo, della band orma da tempo priva del geniale Peter Gabriel.

No, vabbé. Niente di nuovo. L’avevi sentito, a suo tempo. L’avevi credo anche copiato preso “in prestito” da un amico, se ben mi ricordi. Oppure te l’eri proprio comprato, anzi. E comunque, non è che te lo ricordassi con molto affetto, tutto sommato. Tanto che all’inizio, nonostante il prezzo invitante (tre euro? Poi se è doppio.. pure che me lo mettono a sei… ) stai per lasciarlo lì. Però non ce la fai, qualcosa ti vuoi portare via. Ecco che torni, ti avvicini, guardi i brani. Uhm uhm… mah. Però lo prendi in mano, lo consegni al tipo (ancora indeciso se  dargli quello o uno di Battisti o nessuno dei due). 
Quanto viene? Il tipo lo prende, fa un cenno all’altro tipo che gli dice (come speravi) Tre euro ma il primo tipo (disdicevolmente pignolo) specifica al secondo tipo Ma guarda che è doppio che facciamo e per fortuna il primo tipo non si turba affatto – la cosa non ingombra il suo spazio mentale che un solo momento e grazie al cielo dice qualcosa tipo Boh, tre euro, uguale.

Allora lo compri e te ne vai (dalla dottoressa c’eri già stato). Beh un premio ci voleva. Però nemmeno sei tanto convinto. D’accordo, lo so che sono tre euro, ma se me li risparmiavo? Poi appunto non te lo ricordi con troppo trasporto il CD, poi ecco, è la formazione post Peter Gabriel, poi questa copertina sembra già svogliata di suo, una semplice scritta nera in campo bianco. Libretto interno nemmeno a parlarne. Boh.

Con questi pensieri ritorno alla tua auto. Metti il CD in macchina e cominci a sentirlo. Beh tutto sommato non è troppo male. Non lo sai ancora, ma ormai sei agganciato.. Perché lì comincia a crescere, a crescerti addosso. Malgrado la copertina. Che anzi, alla fine ti piace pure: come una bella donna con una brutta abitudine, alla fine ti fai piacere anche quella, hai presente? Soltanto perché è lei che si comporta così. 
Ormai sono passati mesi. E periodici passaggi dalla dottoressa, ma intanto la bancarella non ci sta più, ahimè. Certo, ce ne è una di vestiti, nello stesso spazio di universo. Ma ditemi, che se ne fa uno dei vestiti quando si aspetta la musica?
E che musica. Ho un po’ di cose da dire, accumulate dai diversi ripetuti ascolti: meno male che di solito viaggio da solo, avrei fatto impazzire chiunque. Da che partiamo? Dalla qualità, mettiamo subito giù il dettaglio tecnico. Cavolo, questi dischi sono masterizzati alla grande. Suono pieno, corretto, equilibrato. Anche nella mia macchina suona che è una meraviglia. Se penso a certi trasferimenti su CD di altra roba degli anni ottanta, messa giù da far pena…
Che puoi trovare, nel disco? Un sacco di cose. Intanto ti accorgi di una cosa ovvia. Che Phil Collins suona la batteria da paura. Cioè non parliamo di virtuosismi fini a se stessi. Parliamo di uno stile attraente perché personale, perché riconoscibile all’istante. Perché vario, interessante, complesso, sfaccettato, intrigante. E che ti colpisce al cuore. Ti metti a sentire i pezzi stando magari attento al gioco di batteria, ed è bello, è bello perché è un arricchimento. 
Non è che voglio fare una recensione brano per brano (anche perché ormai chissà quanti ho già perso per strada), ma qualcosa mi va di dirla. L’inizio è una intro formidabile per un concerto dal vivo. Lento e progressivo, Turn it on again parte piano piano ed è come se invitasse all’ascolto, prima di iniziare con la sostanza – ha questo modo gentile di introdurti all’evento. Di catalizzare attenzione. Non ti sovrasta, non ti sommerge di suoni. Ti viene a chiedere attenzione.

Dodo è affascinante e si prende quasi sette minuti e mezzo. Ora dico, far durare una canzone sette minuti e mezzo senza stancare, è un inequivocabile segno di classe. E – contrariamente a quanto pensavo prima – qui di classe, di mestiere, di abilità, ce n’è da vendere. 
La cosa che mi fa letteralmente impazzire è il bridge tra Dodo Abacab. Esci da Dodo, non tiri nemmeno il fiato, non hai il tempo di guardarti intorno e dire “.. però!” che già ti arriva il basso implacabile dell’intro di Abacab. Perfetto. E’ semplicemente perfetto, dopo un paio di ascolti ti sembrano legate, perfettamente integrate, parti diverse ed omogenee di uno stesso progetto, di una stessa urgenza di dire.

Eccoci. Eccoci ad Abacab

Di Abacab si potrebbe parlare per intere stagioni. La prima cosa è… ma come ha fatto? Come ha fatto Phil Collins, o meglio come hanno fatto i Genesis (c’è molto lavoro di squadra), a tirar fuori una cosa del genere? Il gioco di risposta tra chitarra e tastiera è sublime. La linea di basso è deliziosamente implacabile, sottolinea bene l’urgenza e il senso di perentorietà. Parte proprio con il basso che scandisce, scandisce inesorabile. Un primo messaggio: come dire, qui non si sta scherzando. E infatti è così. Non è un pezzo di intrattenimento: qui si fa sul serio. La coda strumentale poi è purissima meditazione per formazione rock. Una sequenza di note semplice, semplicissima, quasi un gioco di bimbi. Eppure incredibilmente efficace.

Its an illusion, it’s a game,
Or reflection of someone elses name.
When you wake in the morning,
Wake and find you’re covered in cellophane…

“Ti svegli la mattina e ti scopri incartato nel cellophane…” No, non è il Collins delle canzoncine che ti intrattengono, ti fanno passare piacevolmente quei tre-quattro minuti. E’ il Collins che attinge a piene mani dalla parte profonda di sè. E genera un capolavoro.

Well, there’s a hole in there somewhere.
Yeah, there’s a hole in there somewhere.
Baby, there’s a hole in there somewhere.
Now there’s a hole in there somewhere.

C’è un buco da qualche parte. C’è una mancanza. I conti non tornano. Qui lo dice, finalmente, in modo molto diretto. Ecco, è una canzone sul dramma di una mancanza. Sul dramma contemporaneo. Sul dramma, senza altra aggiunta. Nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può ascoltare con sufficienza. No perché il fatto è semplice, ci sei dentro, la linea di basso è la linea del pensiero che si avvita ossessivamente, che cerca di rispondere alla mancanza. Che prova ad organizzarla, a capirla. Ecco perché ti risuona subito addosso, la senti. E nel dolore sei confortato – ecco il potere dell’arte! Perché la mancanza finalmente assume dei contorni, è riconoscibile. Esce da te, finalmente evade dalla tua solitudine. Vedi, non è più soltanto tua. E’ umana. Non è solo tuo questo smisurato bisogno. E’ umano. 

Ed ecco, è condiviso.

Baby, there’s a hole in there somewhere.

Eccolo. Intanto, la prima cura, la prima sanità mentale, il primo passo verso un percorso di guarigione, di conversione al positivo, è prenderne atto. Non nasconderselo.

Rispetto alla versione da studio, poi, questa è forse anche più bella: la parte finale della coda è impreziosita da un giro di accordi  che porta ad un climax inedito, che si adatta benissimo al contesto. Appena dopo viene il riepilogo del tema principale, e poi la chiusa.

Complessivamente, una vera meraviglia.

Behind the lines e Duchess pescano ancora da quell’album fantastico che è Duke. Che proprio queste versioni dal vivo mi hanno fatto capire quanto fosse fantastico. Ci voleva un Phil Collins in fase matrimoniale problematica per tirare fuori queste perle, questo parlare autentico. 

Anche il resto del lavoro è godibile. Ormai siamo tra amici, anche i pezzi più vecchi filano via bene, resi collinsoniani dalla voce e dalla inconfondibile batteria.

Insomma, il mio rispetto per i Genesis post-Peter è cresciuto immensamente, riascoltando questo lavoro. Zoppi, null’altro che zoppi diceva la recensione di And then there where three su un antico numero di Stereoplay (che è stata per anni la mia rivista musical-tecnologica di riferimento). E in un certo senso è vero – magari per quell’album è più vero, lo concedo.

Ma qui questi zoppi volano altissimo. A pensare a quanta musica degli anni ottanta, riascoltata, suona così insopportabilmente velleitaria! Ho provato a riascoltare gli Ultravox, che a suo tempo mi facevano impazzire. No, non riesco più, a parte qualche pezzo. Ora che li vedi alla distanza, lo capisci: molta elettronica, due o tre idee, riciclate un po’ furbamente a tirar fuori il pezzo.

Qui invece te la godi, te la godi proprio…

E poi sono una squadra. Mi fanno pensare ai Beatles, in un certo senso. Compattissimi, nessuno fuori dai ranghi. Nessuno che ti fa sparate individualistiche. Non c’è un assolo di chitarra che sia uno, ad esempio. E anche la batteria di Phil, sempre evidente, è comunque al servizio del gruppo, niente invenzioni estemporanee. Ma va bene così. Tutto è perfettamente funzionale al risultato complessivo.

Perché già dire bene un bisogno, è come accoglierlo.

Perché già accogliere un bisogno, dargli spazio, è come curarlo. 
Come esporre la ferita, farla spurgare. Perché possa essere sanata.

Domandare che sia sanata: una semplice domanda, e già filtra la luce, la vedi filtrare.

Perché le regole dell’universo sono queste, perché … la domanda è già un miracolo. È il primo modo della coerenza, del compimento di sé, della propria libertà (Luigi Giussani)

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