Blog di Marco Castellani

Mese: Settembre 2013 Page 1 of 2

Da Mercurio a Zooniverse, in mille immagini

La galleria web che la sonda MESSENGER sta pazientemente creando con il suo lavoro in orbita intorno al pianeta più vicino al Sole, è arrivata da pochi giorni ad un traguardo significativo: sono mille le immagini disponibili sul sito!

Per l’occasione, l’immmagine numero rilasciata con il numero mille… non è una vera e propria fotografia del pianeta, ma è realizzata come collage di immagini rilasciate in precedenza, in maniera da indicare suggestivamente la simbolica cifra raggiunta.

collage

Tutto il lavoro di MESSENGER in una sola immagine… o quasi!
(Crediti: NASA/JPL)

La scelta del collage appare più che opportuna: il team ritiene – a buon diritto, secondo noi –  che nessuna fotografia vera e propria possa l’enorme ricchezza dei dati scientifici resi disponibili attraverso le immagini di Mercurio fornite dalla sonda MESSENGER.

Le immagini riversate quotidianamente sul web, fino dall’inizio della missione, sono state un modo efficace per tenere informato il grande pubblico dei progressi e dei risultati della missione, praticamente in tempo reale. Una cosa che fino a pochi anni fa esulava anche dai pensieri degli scienziati più… fantascientifici!

In pratica, il team ha inviato sul web una nuova immagine di Mercurio ogni singolo giorno lavorativo, un impegno che a nostro avviso la dice lunga sulla considerazione con la quale enti come la NASA riguardano l’aspetto più specificamente divulgativo del loro compito istituzionale.

E’ veramente una epoca nuova per l’esplorazione del cosmo, un’epoca in cui non è infrequente che risultati ed immagini di primo livello siano portati in tempi brevissimi su Internet a disposizione virtualmente di ogni persona curiosa e desiderosa di sapere.

Va detto ormai non ci si limita nemmeno più ad una fruizione “passiva” del lavoro fatto da altri; progetti come Zooniverse hanno ormai infranto la classica barriera tra scienziati e appassionati, rendendo disponibile potenzialmente ad ognuno l’attività esaltante di ‘fare scienza’. In un certo senso, ritornando alla condizione che è stata propria dell’uomo per secoli e secoli, prima che la specializzazione del sapere e l’accumulo delle conoscenze venisse a creare delle spiacevoli (ma inevitabili) separazioni tra ‘esperti’ e ‘non esperti’.

Ai tempi più remoti, la scienza era appannaggio di tutti, la vera scienza. Bastava essere curiosi, come Pitagora, come Aristotele, come Galileo. O come tanti, spesso senza una specifica preparazione, ma con tanta voglia di capire come funziona il mondo.

Chissà, forse un pochino ci stiamo tornando, a questa condizione?

Elaborazione da una Press Release di MESSENGER

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La più grande rete

galassieOvunque

Crediti: ESA/Hubble & NASA Ringraziamenti: Judy Schmidt

E’ l’immagine della settimana del sito SpaceTelescope.org, e mostra l’ammasso di galassie chiamato MACS J0152.5-2852, catturato in grande dettaglio dalla Wide Field Camera 3 a bordo del Telescopio Spaziale Hubble. Per apprezzarla debitamente, considerate come in pratica ogni oggetto che potete scorgere nell’immagine è in realtà una intera galassia, ognuna contenente miliardi di stelle.

Le galassie non sono distribuite a caso nello spazio, come potremmo essere tentati di pensare guardando la foto. Al contrario: ogni indagine abbastanza estesa nello spazio mostra come esse si organizzino in tipiche concentrazioni, che legano tra loro anche centinaia di “esemplari”, mantenuti vicini dalla reciproca attrazione gravitazionale.

Già la distribuzione delle galassie all’interno degli ammassi è un campo di studi interessante. Sono ben noti degli andamenti tipici, che legano il tipo di galassia alla sua posizione “preferita”: ad esempio, le galassie ellittiche (gli oggetti più sul giallo che vedete nell’immagine) si trovano spesso più vicino al centro degli ammassi, mentre le galassie a spirale (dal colore tipicamente più bluastro), preferiscono dimorare negli ambienti più esterni, dove si presentano anche più isolate.

In generale, investigare la struttura a grande scala dell’universo è una materia affascinante: anche di recente, programmi come VIPERS (che sta per VIMOS Public Extragalactic Redshift Survey) hanno fornito risultati molto interessanti, per i quali in realtà l’universo potrebbe essere pensato come una gigantesca “ragnatela di galassie”. Dalla struttura di queste gigantesca ragnatela possono derivare informazioni importanti riguardo i temi più cruciali della cosmologia contemporanea, come le verifiche della relatività generale e la conferma della necessità dell’energia oscura per far “tornare i conti”.

La stessa struttura a larga scala – la “mappa di ciò che esiste”, che sempre l’uomo ha tentato di rappresentarsi, prima con le forme del mito e poi dell’indagine scientifica – è una di quelle nozioni che sembra possa essere capace di rivelare ogni volta maggiori particolari, a seconda del periodo storico in cui osservata. Come al solito, possiamo “leggere” nella natura solo le cose che siamo già preparati a comprendere!

Un esempio in questo senso è la scoperta della Grande Muraglia, questo “muro” di galassie esteso per più di 500 milioni di anni luce e largo un massimo di circa 200 milioni. L’esistenza di tale struttura era rimasta sconosciuta a lungo, perché per rilevarla era necessario localizzare in uno spazio tridimensionale migliaia di galassie. Questo è stato possibile soltanto alla fine degli anni ’80, mettendo insieme le informazioni della posizione delle galassie con quella della distanza, ricavata attraverso l’analisi dello spostamento verso il rosso della loro radiazione.

Insomma la stessa posizione delle galassie è un libro aperto, che attende via via gli strumenti per essere propriamente interrogato. Così siamo certi che le sorprese nell’indagine del cielo non sono finite, né probabilmente potranno mai finire, finché ci sarà qualcuno con il naso per aria…

Derivato da una Press Release di SpaceTelescope.org

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GruppoLocale su Pinterest

Ci siamo. Forse un po’ in ritardo rispetto, rispetto a tante analoghe realtà (tante, ma non tutte…), mi sono deciso ad aprire un account Pinterest relativo specificamente al progetto GruppoLocale: lo potete trovare a questo indirizzo. Probabilmente sapete già cosa sia Pinterest, perché rappresenta uno di quelle reti sociali che stanno andando per la maggiore negli ultimi tempi.

Per citare wikipedia, Pinterest è un social network fondato nel 2010 da Evan Sharp, Ben Silbermann e Paul Sciarra dedicato alla condivisione di fotografie, video ed immagini. Basato sull’idea di creare un catalogo on-line delle ispirazioni, Pinterest permette agli utenti di creare bacheche per gestire la raccolta di immagini in base a temi predefiniti o da loro generati. Il nome deriva infatti dall’unione delle parole inglesi pin (appendere) e interest (interesse).”

Pinterest di GruppoLocale, schermata

La schermata introduttiva del nostro account GruppoLocale dentro Pinterest, al momento di scrivere questo pezzo…

Ve lo confesso. Per diverso tempo ho pensato, “beh, ma che mi importa di un catalogo online?”; facendo degli esperimenti ho cominciato però a trovare utile il sistema adottato da Pinterest, che rende possibile la creazione di diverse bacheche alle quali ci si può selettivamente decidere di iscrivere (così posso ad esempio sottoscrivere la bacheca gattini di una certa persona e non sottoscrivere quella Film horror, tanto per intenderci). Già questo rende possibile una sorta di granularità che aiuta molto nel mantenersi focalizzati su una certa categoria di interessi. 

Pinterest funziona benone anche come sistema per mantenere online un archivio di siti e pagine di interesse (peccato solo che non mantenga una cache del sito selezionato). In questo probabilmente ci può essere molto comodo, a noi di GruppoLocale: per tenere traccia di una serie di link interessanti, evitando di vederli scomparire magari in una remota pagina Facebook Twitter, a troppi click di distanza perché veramente qualcuno se ne possa imbattere! 

Per farla breve, ho provato a popolare via via, in questi primi giorni di apertura, il nostro account con qualche bacheca tra quelle che pensavo fossero più utili. L’invito a questo punto è a voi: dite la vostra, se volete. E se siete – o diventate – utenti Pinterest, magari iscrivetevi ad una o anche a tutte le nostre bacheche.

Il tempo dirà – come di consueto – se questa declinazione del nostro progetto risulta utile, ovvero se ottiene un riscontro in termini di interesse. Per ora continuiamo a sperimentare, e in questa fase ogni vostro commento risulterà – inutile dirlo – utilissimo.

Confido dunque di ritrovarvi su Pinterest, in modo da sperimentare tutti se questo nuovo strumento può aiutarci a tener desta la meraviglia per il cielo sopra di noi, che è l’unico vero obiettivo del nostro progetto.

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Una stella… in evaporazione!

Questa nuova immagine – eletta a foto della settimana nel sito di Hubble – mostra la stella chiamata HB 184738, nota anche come la stella di idrogeno di Campbell (denominazione lunga, ma sempre assai più facile da ricordare di quella ufficiale…). Già ad un sommario esame, circondata da sbuffi di gas rossiccio: le tonalità di rosso e arancio sono proprio dovute al gas brillante, che comprende in gran parte idrogeno e azoto.

wcStar

La stella HB 184738 è al centro di una piccola nebulosa planetaria. La stella in sé è inscrivibile nella categoria delle [WC], una classe molto rara che assomiglia per certi aspetti alla sua controparte più massiva, le stelle di Wolf Rayet.

Le stelle di Wolf Rayet sono stelle molto calde, una ventina di volte più grandi del Sole (più o meno), che si trovano ad espellere molto rapidamente gli strati più superficiali, perdendo massa. Le stelle di tipo [WC], nonostante le somiglianze “osservative”, sono di natura abbastanza diversa: sono stelle di piccola massa, tipo il Sole, alla fine della loro traiettoria evolutiva. Per quanto ormai abbiamo perso gran parte della loro massa originaria, la parte centrale continua ad espellere materia in modo furibondo, tanto da farle assomigliare – negli effetti – a stelle di Wolf Rayet. Uno dei sistemi migliori per poterle distinguere è analizzare la composizione chimica dei rispettivi venti stellari, che è di norma piuttosto diversa nelle abbondanze di idrogeno, carbonio ed azoto. Dunque una “firma chimica” preziosa che può rivelare il tipo di stella, laddove non si ha accesso a misure dirette di altri parametri, come la massa.

La cosa interessante di HD 184738 è la sua notevole luminosità esibita nella parte infrarossa dello spettro. Inoltre è circondata da materiale e polveri molto simili a quelli che hanno formato la Terra. L’origine della polvere, va detto, non è completamente compresa: ciò non toglie che la stella – in questa peculiare fase evolutiva – costituisca uno spettacolo affascinante…

Adattato da Spacetelescope.org 

 

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Centomila ammassi…

E noi magari pensiamo che siano tanti, i circa 150 (o poco più) ammassi globulari presenti nella nostra Galassia! Tutt’altro, come dimostra questa suggestiva immagine dell’ammasso di galassie Abell 1689, acquisita dal Telescopio Spaziale Hubble. E’ uno degli oggetti più massicci dell’intero universo visibile, e come tale – come la relatività insegna – deflette i raggi di luce che le passano vicino, generando immagini multiple (e distorte) degli stesso oggetti (che sono tipicamente galassie più lontane da noi dell’ammasso stesso).

abell1689_hubble_960

Crediti: NASA, ESA, Hubble Heritage Team (STScI/AURA), and J. Blakeslee (NRC Herzberg, DAO) & H. Ford (JHU)

Con la sua stessa esistenza, Abell 1689 è anche un formidabile argomento a sostegno della materia oscura: infatti la materia visibile dell’ammasso di galassie rende conto solamente di una piccolissima frazione (siamo intorno all’1%) di quella che sarebbe necessaria per curvare i raggi di luce nella misura che possiamo agevolmente osservare da questa e da altre simili immagini.

L’ammasso si trova nella costellazione della Vergine, alla bellezza di 2,2 miliardi di anni luce dalla Terra. Al momento della sua scoperta, nel 2008, una delle galassie la cui luce viene deflessa dall’ammasso, A1689-zD1, rappresentava l’oggetto più distante noto nell’intero universo.

Dicevamo però degli ammassi globulari (che è anche una delle cose che più mi interessano, per campo di studi). Bene, la cosa davvero sorprendente è che un’analisi accurata dell’immagine rivela la presenza di un numero veramente grande di tali agglomerati di stelle: nell’intero ammasso di galassie dovrebbero esservene circa centomila. Questo ci fa capire già “a braccio” quanto sia comune il processo che porta le stelle più antiche a raggrupparsi insieme sotto l’azione della mutua gravità, per formare tali affascinanti strutture: non so se potremo mai studiare gli ammassi così lontani, ma da quelli della Galassia abbiamo certo imparato un numero formidabile di cose – riguardo le stelle, ma anche riguardo l’universo stesso nel suo insieme.

Quelli di “casa nostra” sono in gran parte ben studiati, e in questi anni  cominciamo a poter lanciare lo sguardo (con sufficiente precisione) su quelli delle galassie vicine. Si prevedono tempi emozionanti, dove potremo verificare quello che abbiamo imparato per la Via Lattea e soprattutto vedere se e come c’è corrispondenza con quanto troviamo in altri ambienti galattici (già gli ammassi della Piccola e Grande Nube di Magellano ci hanno dato parecchie sorprese).

Certo, poter gettare uno sguardo ravvicinato su quelli così lontani come in Abell 1689, sarebbe una pacchia per qualsiasi astronomo…

Derivato in parte da APOD 17.9.2013

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La corsa e la croce

No. Non ce la faccio nemmeno io a non scrivere, a non scrivere sul blog. Non raccontare i fatti miei, in un certo senso. Perché così raccontando, mettendo i pensieri in fila secondo le regole ordinate del linguaggio scritto, anche le cose nella mia mente si mettono a posto, si ordinano. Anche se magari non riesco a metterle in relazione in maniera soddisfacente, averle fatte passare per la scrittura crea un filo rosso che segue paziente anche le curve più ardite, le deviazioni più ostiche. Smussa anche un po’ gli spigoli, diciamo la verità.

Per inciso, non riesco a trovare motivazione per scrivere più pregnante di questa.

Allora, domenica scorsa, prima che piovesse (e anche durante la pioggia, a dire il vero) sono andato a correre al parco sotto casa. Finalmente ho capito come funziona il cardiofrequenzimentro, sopratutto come si mette la fascia per rilevare le pulsazioni (non sulla panza come una cintura di pantalone – come mi hanno fatto capire – ma ben più alta sul petto) e debitamente accessoriato, sono sceso per l’avventura.
Debitamente accessoriato, stavo dicendo. Infatti. Ormai per me il fatto di correre è stato raggiunto e divorato dalla tecnica moderna, a scapito probabilmente della intrinseca semplicità del gesto (appunto, mettersi a correre). Ecco qui tutto l’apparato:  cardiofrequenzimentro con orologio/rilevatore al polso, poi iPhone ed auricolari per la musica e ovviamente per monitorare percorso e tempi con Endomondo
Eh no, non sono io. Non ancora, almeno …
Comunque, questo è. A volte penso che qualche anno fa era tutto più semplice. Non c’erano applicazioni da aggiornare, stati facebook da inviare, foto da scattare e mandare su Instagram. Non c’era il telefonino, ma un telefono per famiglia, a casa. Insomma non c’eran tante di queste cose. C’era semplicemente da vivere.

Per il resto (scansando discorsi complessi), il fatto di correre è come inserirsi in uno specifico microcosmo, qualcosa di apparentemente lineare e semplice che però – come ci si accorge presto – mappa efficacemente le posizioni e gli atteggiamenti che assumo durante le normali giornate. E – spero – mi può aiutare a correggermi, quando serve. E serve spesso.
Intanto, la motivazione. Correndo lo vedo subito, me ne accorgo istantaneamente. Il penso positivo agisce in maniera diretta ed immediata. Se cedo ad un treno di pensieri negativi, di sconforto, la spinta viene meno, la fatica aumenta. Ecco qua: rallento, non riesco a progredire. Se invece afferro un pensiero di speranza, lo tengo stretto, lo riguardo da varie angolazioni, lo faccio brillare, ne estraggo il succo, mi sento rientrare addosso l’energia, riprendo gusto all’allenamento. Sono anche più attento a quanto succede in me ed intorno a me. E poi magari va così, accarezzo l’idea di fare un po’ di strada in più, magari prendo una pausa camminando per poi fare un’altro tratto. Insomma ci prendo gusto, mi metto un po’ alla prova. Se però, di nuovo, un pensiero di irritazione o di insoddisfazione o una valutazione sconfortata di un problema mi prende, eccomi di nuovo al palo, ecco che perdo la voglia, la motivazione.
E’ vero. E’ verissimo. A parità di circostanze, i pensieri sono determinanti, decidono della qualità del mio allenamento. Decidono della qualità della mia vita. Se acchiappo un’idea interessante, un progetto, qualcosa su cui lavorare astraendomi dalla ruminazione dei miei crucci, riesco letteralmente a fare chilometri in più. Riesco ad affrontare meglio ogni situazione.
Insomma è inutile andare a correre tristi. Tanto dopo cento metri si rientra a casa.

Poi, per me l’altra cosa importante è guardare.Voglio dire, correre va bene, ma dove guardare? Avanti, onde evitare incidenti. Ovvio. Ma come guardare avanti? La cosa non è risolta. Eh no, perché c’è modo e modo. Vi dico subito la cosa migliore per me: guardare alto, in avanti, all’inizio. Per capire la scena, avere un quadro complessivo. 
Però poi no: poi, correndo, no.

Certo mantenere il controllo della zona, ma concentrarsi su quanto vedo vicino a me. Sì vicino. Se mi fisso sul punto di orizzonte mi sconforto perché – ancora – sembra che io non mi muova. Vince la lontananza, la sproporzione. Il senso di distanza. Chi sono io per avere l’ardire di mettermi a correre? Che progressi faccio? Vedi, sono ancora qui, vedi (con treno di pensieri sconfortanti a seguire).

Se però correndo mi concentro su quello che avviene intorno a me, se scendo nell’istante presente, allora tutto cambia. Vedo che i miei piedi si muovono, che nonostante tutto le zolle d’erba si avvicendano, il sentiero scorre sotto di me, il micropanorama cambia di continuo. Che sto andando avanti, sto facendo il lavoro. Questo mi consola, mi conforta.

Insomma, come al solito, sono davanti alla mia impazienza: se cerco di evadere dalla situazione presente, dal qui e ora, non c’è niente da fare, mi ammalo. Se mi calo nell’istante, invece, mi permetto di vedere che sono in cammino, che mi modifico. Che posso pian piano convertire il mio modo rigido di pensare, che non devo più tentare di schiacciarmi in un orizzonte ipotetico freddo ed uguale per tutti- Posso allentare la presa, posso concedermi di essere me stesso con il mio specifico modo di correre, di affrontare le cose… posso guarire.

Perché nessuno è come me. Nessuno. Quando mi rilasso su questo punto, sto meglio. Capisco un po’ meglio cosa ci sto a fare qui. Mi permetto, mi dò il permesso, di non essere già come vorrei essere, mi permetto di avere paure, insicurezze, sensi di colpa. Paradossalmente, accettando tutto questo, accettandomi come sono adesso, sto subito meglio. E corro più sereno. E vivo più sereno.
Mi colpisce ogni volta che sento questo, mi accorgo che riscopro qualcosa che la saggezza delle filosofie e delle religioni conosce bene da millenni. E che il cristianesimo dice molto bene (se noi lo vogliamo ascoltare). Così fatemelo dire in termini scopertamente  cristiani, senza giri di parole, senza traduzioni nel linguaggio psicologico (pure se ha una portata psicologica poderosa):  accettando la croce si arriva alla gioia – quella profonda, la gioia profonda e tranquilla, la più bella e interessante.

Non cercando di scansarla. Accettandola, la croce.

Questo mi dice anche tutta la mia esperienza maturata fino ad ora. Non che io non sia testardo e normalmente agisca in maniera diversa, tentando di evitare ogni fatica, ogni difficoltà. Soprattutto, sognando circostanze magiche che mi permettano di evitare di lavorare su me stesso.

Quindi?

Questo posso fare. Adesso. Ora. Accettare la mia croce.

E’ una lotta, mi viene per nulla facile.

Quello che però posso dire, è che tutte le volte che mi sono piegato, ho domato la mia rigidità, ho accettato la croce, non ho mai – dico mai – avuto a pentirmene.

E sì, ho anche corso molto meglio… 

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Landing…

Expedition 36 Soyuz TMA-08M Landing

Crediti: NASA, Bill Ingalls

La navicella è atterrata in data 11 settembre, in una area remota vicino alla città di Zhezkazgan, nel Kazakhstan. Si tratta di una Soyuz TMA-08M. Il suo equipaggio ritorna dopo ben cinque mesi e mezzo trascorsi a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. E’ la “Spedizione 36” che rientra. La spedizione attuale è la numero 37, della quale fa parte anche il nostro Luca Parmitano.

La foto è veramente suggestiva ed è stata catturata al momento giusto da un elicottero che sorvolava il luogo dell’atterraggio…

Fonte: APOD

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Voyager 1 è nello spazio interstellare!

In un annuncio davvero storico, la NASA ha fatto sapere che l’oggetto più distante da noi prodotto dall’uomo – la sonda Voyager 1 – è ufficialmente nello spazio interstellare, ovvero lo spazio che separa le stelle, e ha ormai abbandonato a tutti gli effetti il Sistema Solare. In realtà la storica transizione, spiegano, dovrebbe essere già avvenuta da circa un anno.

“Ce l’abbiamo fatta!” ha detto sorridente Ed StoneProject Scientist per la missione Voyager da più di quarant’anni, parlando ad una riunione proprio nella giornata di ieri. “E ce l’abbiamo fatta mentre ancora avevamo abbastanza potenza per inviare i dati a terra da questa nuova regione dello spazio”. Nel video qui sotto potete ascoltare uno dei suoni… più lontani che potreste mai sperare di percepire: quello del plasma interstellare catturato dalla sonda!

Mentre permane ancora qualche controversia sul fatto che Voyager 1 sia davvero al di fuori del Sistema Solare (non è più lontano della Nube di Oort – anzi impiegherà circa altri 300 anni per raggiungerla davvero – e dopotutto la navicella è sempre più vicina al Sole che a qualsiasi altra stella), il plasma nella zona in cui sta viaggiando Voyager 1 è inequivocabilmente cambiato da quello che proviene dal nostro Sole a quello presente nello spazio tra le stelle.

Bene. Così Ed Stone ha potuto mettere questa evidenza in chiaro: Voyager 1 ha fatto il salto.

“Ora che abbiamo nuovi dati, cruciali, riteniamo che questo sia un salto di portata storica dell’umanità nello spazio interstellare”, ha aggiunto Stone, “Il team di Voyager ha avuto bisogno di tempo per analizzare queste osservazioni e derivarne un senso. Ma possiamo finalmente rispondere alla domanda che tutti ci stiamo chiedendo – Ci siamo arrivati? Sì, ci siamo arrivati”.

Il team che analizza le onde di plasma ha pazientemente rivisto i dati fino a trovare, tramite estrapolazioni e correlazioni tra diversi eventi, che la Voyager 1 dovrebbe essere entrata nello spazio interstellare ad agosto del 2012.

“Siamo letteralmente saltati dalla sedia quando abbiamo visto queste oscillazioni nei nostri dati – ci hanno mostrato che la sonda era in una regione completamente nuova, confrontabile a quello che ci si aspettava dallo spazio interstellare, e competamente differente dai dintorni del Sole” ha detto Don Gurnett, che conduce il team che studia le onde di plasma. “Eravamo chiaramente passati attraverso l’eliopausa, quella regione di confine a lungo ipotizzata tra il plasma solare e quello interstellare”. 

Ora la sonda, la missione interstellare dell’umanità, continua il suo viaggio, iniziato nel lontano 1977. Mentre scrivo osservo la distanza dalla Terra riportata nel suo sito, ed è a 18,774 miliardi di chilometri da casa (in questo istante, 18.774.067.741 chilometri, per la precisione, ma quando leggete saranno già molti di più). Nessuno si sarebbe aspettato, all’inizio quando fu lanciata, che sarebbe durata tanto, mantenendo un esile ma tenace filo diretto con il pianeta di origine.

Il team in questi anni ha fatto cose davvero mirabolanti passando attraverso una serie progressiva di (fisiologiche, vista l’estensione “smodata” della missione) avarie e dovendo gestire la sempre maggiore scarsità di energia, per mantenere il contatto con la sonda. E’ veramente un’avventura straordinaria. E chissà che la sonda, un giorno lontano, non si presenti come V’Ger tornando verso Terra, allarmando la futuristica Federazione dei Pianeti Uniti… 😉

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