“Fabio sognava di correre insieme con Liliana. Erano in un campo vastissimo, pieno di sole e di fiori gialli gialli. Lui correva e cercava di acchiapparla, lei correva più veloce di lui, gli sfuggiva sempre per un pelo. Poi alla fine lui riusciva a prenderla, ma con la sensazione che lei si fosse lasciata prendere per essere baciata. Come quando erano fidanzati, lui la stringeva a se e lei faceva la faccia con il broncio.”
E’ un po’ che ci gioco, con questo brandello di trama venuta su così, quasi senza volere. Che parte da alcuni luoghi, da una geografia prima che da una vera e propria storia. Orbetello, Montreal, St. Moritz… Luoghi e personaggi. Così accade che mi trovo a rileggere la parte iniziale del romanzo, che vorrei percorrere piano piano, facendolo crescere, lievitare come una torta, con pazienza e applicazione. E mi domando perché sia ancora lì, fermo.

Vediamo, cerchiamo di fare luce.C’è stato l’inizio, con l’entusiasmo tipico di ogni inizio. C’è stata poi la paura. La paura che tutto questo sia una perdita di tempo, che io non sia veramente in grado di scrivere una buona storia. Insomma tutte le paure più classiche che si possono avere: io ovviamente me le sono ritrovate addosso (io le paure le me le attiro addosso abbastanza bene). Così vi sono state sessioni di scrittura faticose – perché non convinte – e soprattutto lunghe fasi di stasi. Che come tutte le fasi stazionarie, non hanno risolto nulla.
Così ora che inizia un nuovo ciclo, un nuovo anno (per me l’inizio di un nuovo ciclo annuale è circa poco dopo ferragosto, è lì che riparte tutto: dopo la pausa estiva), ora che penso a come veleggiare attraverso l’autunno che sta arrivando, e poi l’inverno, ecco che capisco che ci forse ci manca un ingradiente, alla mia analisi.

Beh, avete probabilmente già capito quale.

Il bello è questo. Attraversare questa paura e scrivere. Allargo un attimo il quadro, permettetemi. E’ bello, gustoso, attraversare ogni paura che viene. A volte mi pare di capire che sia ben di più che un atteggiamento terapeutico. Di qualcosa da raccontare all’analista. E’ qualcosa di strettamente legato al mio compito, al motivo per cui sono qui, per cui sto vivendo. Nella disposizione interiore, che si traduce in una modalità di reazioni di fronte alle circostanze, vi è il nocciolo sacro della libertà, è misterioso ed ha connessioni misteriose e profonde con tutto quanto.

Venendo poi a scrivere. Scrivere è sempre rischioso (un rischio salutare) e scrivere un romanzo è molto rischioso, è come lasciare il porto e fare rotta verso un punto lontano. Verificare le dotazioni di bordo e andare. Del resto, dice qualcuno, le barche in porto stanno sicure: ma non sono fatte per rimanere in porto, le barche.
Allora il viaggio di quest’autunno, di questa fine anno e inizio del prossimo, potrebbe essere questo. Potrebbe essere far crescere un secondo romanzo, dopo Il ritorno. Scrivere un romanzo è una cosa, ma farne un secondo ha una portata profonda (vorrei dire, a prescindere dall’esito). Vuol dire riconoscere che non si può stare lontani dal raccontare storie. Vuol dire che non era una tantum. Vuol dire che non puoi farne a meno, no. 
Che la vita risulti scolorata e tesa quando uno non scrive, quando tenta di legarsi le mani (senza riuscirci) per risparmiarsi questa complessità e eludere ogni incertezza, è un segnale. Forte, netto, che deve essere assimilato. Non è certo completamente in mio potere decidere di scrivere bene. Ma è in mio potere accogliere questa (pressante) richiesta a scrivere, o rifiutare. Rifiutare però vuol dire comprimersi sulla superficie, mancare in profondità, perché il no avvelena e corrompe. Così devo passare oltre la mia autosvalutazione e dire sì. 
Alla fine è semplice: devo fare questo, devo andare a vedere. Devo vedere cosa succede nella storia di Fabio e di Liliana. Perché si sono allontanati, se si potranno riavvicinare, per che motivo, o per chi. Non devo creare, devo soltanto ascoltare i miei personaggi. Fare pace e silenzio dentro di me, perché loro mi parlino. E tenere traccia umilmente di quanto mi vogliono dire. Del resto, lo stanno già facendo. Mi stanno già parlando e io devo solo abbassare lo strato protettivo di distrazione e affanno per lasciar emergere quanto mi dicono. A piccoli passi, con pazienza. Baby steps, sempre.
E’ il tempo giusto per farlo, probabilmente. 
E’ sempre, questo tempo. Ma è soprattutto adesso, mi sembra.

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