Blog di Marco Castellani

Mese: Novembre 2013 Page 1 of 2

La caratterizzazione delle Terre lontane

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Transito di un pianeta davanti alla sua stella. Crediti ESO.

Dal momento della scoperta del primo pianeta extrasolare in orbita attorno ad una stella di sequenza principale nel 1995 da parte di Mayor e Queloz oltre 1000 pianeti sono stati scoperti e confermati secondo il The Extrasolar Planets Encyclopaedia http://exoplanet.eu/ ed oltre 2000 sono candidati potenziali secondo la missione Kepler della NASA e che verranno confermati nei prossimi mesi.

Nel corso degli ultimi quattro anni è stato possibile scoprire parecchi pianeti nell’intervallo di massa tra 2 e 10 masse terrestri, quelle che vengono definite le Super-Terre; alcuni di questi pianeti si vengono a trovare dentro oppure si trovano vicini alla zona di abitabilità della loro stella ospite. Recentemente sono stati annunciati nuovi pianeti delle dimensioni della nostra Terra e della nostra Luna, e questo numero sicuramente aumenterà in futuro.

Le prime statistiche hanno messo in evidenza che circa il 62% delle stelle della nostra Galassia potrebbero ospitare un pianeta delle dimensioni della nostra Terra mentre studi compiuti dalla missione Kepler della NASA indicano che circa il 16,5% delle stelle hanno almeno un pianeta delle dimensioni del nostro con periodi orbitali fino a 85 giorni. Per essere preparati e pronti alla caratterizzazione delle future esoterre scoperte dobbiamo prima di tutto dare uno sguardo al nostro Sistema Solare e ai suoi pianeti.

Senza dubbio la possibilità di trovare vita al di fuori del nostro pianeta guiderà la caratterizzazione dei pianeti rocciosi nel corso dei prossimi decenni. La Terra è l’unico pianeta dove la vita si sa esistere; di conseguenza le osservazioni del nostro pianeta saranno una chiave fondamentale per la caratterizzazione e la ricerca della vita altrove. Tuttavia, anche se scoprissimo una seconda Terra, è altamente improbabile che presenterebbe uno stadio di evoluzione simile al nostro. La Terra è ben lontana dall’essere in uno stato statico dal momento della sua formazione avvenuta circa 4,6 miliardi di anni fa. Al contrario, durante questo intervallo di tempo, si sono registrati numerosi cambiamenti nella composizione atmosferica, nella temperatura, nella distribuzione dei continenti e anche dei cambiamenti nelle forme della vita che l’abitano. Tutti questi cambiamenti hanno influenzato le proprietà globali della Terra se viste da distanze astronomiche. Per questo, è interessante non solo caratterizzare le osservabili della Terra come appaiono oggi, ma anche a differenti epoche.

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Una rappresentazione artistica di un pianeta osservato da Kepler. Crediti NASA.

Con lo scopo di determinare il modo in cui la Terra apparirebbe ad un osservatore ipoteticamente lontano, parecchi studi sono stati portati avanti nel corso degli ultimi anni. Le osservazioni di corpi delle dimensioni della nostra Terra sono stati uno degli approcci ossservativi utilizzati per questo scopo, fornendo uno strumento fondamentale per lo studio dello spettro della Terra nel visibile e anche nel vicino infrarosso, e nel vicino ultravioletto.

Un altro possibile approccio consiste nell’ottenere informazioni sulle caratteristiche superficiali quali oceani e continenti dai dati di EPOXI. E’ stato possibile ricostruire una mappa della superficie terrestre.

Le stelle target della missione EPOXI sono state tutte stelle con pianeti noti, in modo da poter essere certi che almeno un pianeta di ogni stella avrebbe prodotto dei transiti planetari. I sistemi con transiti planetari noti avevano tutti un solo pianeta conosciuto almeno all’inizio della missione. La missione EPOXI ha cercato dei piccoli dettagli nella variazione di luminoisità durante l’oscuramento della stella da parte del pianeta, che ha permesso di studiare la presenza di anelli e di eventuali satelliti in orbita attorno al pianeta. EPOXi ha, inoltre, rintracciato e studiato piccole variazione del periodo orbitale dei pianeti conosciuti che permettono di indicare l’influenza gravitazionale di altri pianeti in orbita attorno alla stessa stella. Infine, EPOXI ha cercato anche in modo diretto ulteriori transiti di pianeti più piccoli, troppo piccoli per essere osservati attraverso l’atmosfera terrestre.
La sonda aveva un potere risolutivo tale da poter osservare transiti planetari di oggetti con dimensioni pari a metà di quelle terrestri.

Secondo questo gruppo di ricercatori, guidati da Sanromà dell’Istituto Astrofisica de Canarias (IAC), per trovare la vita su pianeti extrasolari è  importante guardare al colore della loro atmosfera, in particolare al viola. I primi organismi che abitarono sul nostro pianeta circa tre miliardi di anni fa erano di colore viola, batteri che ora potrebbero trovarsi anche su pianeti extrasolari e venir di conseguenza identificati o riconosciuti proprio in base al colore dell’atmosfera planetaria.

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Una rappresentazione artistica di un pianeta extrasolare di colore viola che indica la presenza di batteri. Crediti NASA.

Inoltre, questi batteri devono essere vissuti a lungo prima della comparsa della vita intelligente come la intendiamo noi oggi e probabilmente sopravviveranno a lungo anche dopo la sua scomparsa.
Per andare alla ricerca di questa “firma” di batteri su altri pianeti, è stato riprodotto una sorta di modello della Terra com’era circa tre miliardi di anni fa, al fine di capire di capire se i microbi tendono a formarsi sulla terraferma oppure lungo le coste che sono ricche di elementi nutritivi. Questi microbi producono un segno visibile della loro presenza grazie alla luce totale riflessa dal pianeeta. Se questi microbi si trovassero negli oceani e vivessero lì, il colore sarebbe più difficile da osservare.

Dato che l’imaging diretto è estremamente difficile nel caso degli esopianeti, e quindi è estremamente difficile separare la stella dal pianeta e prendere un’immagine “diretta”, tutte le informazioni del pianeta sono concentrate in un unico puntino di luce, quello che ci arriva a terra. Di conseguenza, studiare la Terra è un metodo estremamente importante per capire il tipo di informazioni che ci si può aspettare da un pianeta analogo alla Terra.

Articoli:
E. Sanromà, E. Pallè, M. N. Parenteau, N. Y. Kiang, A. M. Guti´errez-Navarro, R. Lòpez e P. Montanes-Rodrıguez, “Characterizing the purple Earth: Modelling the globally-integrated spectral variability of the Archean Earth”, Instituto de Astrof´ısica de Canarias (IAC), La Laguna, Spagna, http://arxiv.org/pdf/1311.1145v1.pdf

Istituto de Astrofisica de Canarias (IAC) – http://www.iac.es/?lang=en

Sabrina

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Cometa ISON: forse una parte della cometa si e’ salvata

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Immagine di uno sbuffo di luce nella parte superiore del disco solare (nascosto). Potrebbe trattarsi di quello che rimane della Cometa ISON. Crediti ESA/NASA/SOHO.

La Cometa ISON non sembra completamente vaporizzata durante il suo massimo avvicinamento al Sole: ce lo dicono alcune foto di SOHO della NASA. La Cometa ISON sembra sia riuscita ad emergere dietro la nostra stella con la luminosita’ prevista.

In realta’ si ha ancora un cauto ottimismo perche’quello che si osserva e’ una macchia un po’ confusa, che dovrebbe essere il nucleo e la coda della cometa pensati completamente distrutti. I ricercatori astronomi del Sungrazing Comets Project che hanno seguito la cometa per un anno ammettono di essere sorpresi e (anche) felici, ma rimangono cauti su quello che potrebbe succedere nelle prossime ore e nei prossimi giorni, dato che il frammento di ISON potrebbe continuare a brillare ma anche spegnersi.

La cometa nel momento in cui e’ scomparsa dietro il Sole ha lasciato la comunita’ scientifica e gli appassionati col fiato sospeso, ma questo era previsto e nel momento in cui si era pensato alla fine della cometa, eccola che ricompare da dietro al Sole.

L’Agenzia Spaziale Europea (ESA) che era stata tra le prime organizzazioni a dichiarare la cometa ISON definitivamente “morta” ha rivalutato la situazione. Una piccola parte del nucleo potrebbe essere ancora intatto, affermano alcuni ricercatori dell’ESA. Quanto del nucleo di 2 chilometri sia sopravvissuto al momento non si puo’ saperlo. Passando a soli 1200 chilometri dalla superficie (fotosfera) del Sole ISON sarebbe fortemente perturbata. I ghiacci sarebbero completamente vaporizzati a temperature oltre i 2000 gradi centigradi. E l’immensa gravita’ della stella avrebbe agito sulla cometa in modo estremamente violento.

Karl battams ha affermato che ” Vorremmo che la gente ci potesse dare un paio di giorni, almeno per guardare altri immagini che ci arriveranno dalla sonda spaziale SOHO e che ci permetteranno di valutare la luminosita’ dell’oggetto che osserviamo ora, oltre che a fare una stima su come cambiera’ la sua luminosita’. Questo forse ci permettera’ di avere un’idea della composizione dell’oggetto e di quello che potrebbe fare nei prossimi giorni e settimane”.

Rosetta

Rosetta mentre sgancia la sonda Philae sulla superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Crediti ESA/Missione Rosetta.

Sicuramente le comete continueranno a far parlare di se’. Nei prossimi undici mesi la cometa Siding Spring passera’ vicino a Marte ad una distanza di poco piu’ di 100 000 chilometri. E a novembre 2014 la misisone Rosetta dell’ESA tentera’ (e speriamo con grande successo) di posare una sonda sul nucleo della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko.

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Philae dell’Agenzia Spaziale Europea, la piccola sonda che si posera’ sul nucleo della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Crediti ESA/Missione Rosetta.

Fonte BBC News – Hope still for ‘dead’ Comet Ison.

Sabrina

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Take five (Lucio sei grande)

Di solito uno non ci pensa. Fa le sue cose e non ci pensa. Se gli dici, ma hai presente che ci sono gli ultimi cinque album di Lucio Battisti? Hai presente la bellezza? Quello magari ti guarda strano, non è che capisca bene. Ti dice, ho le bollette da pagare, devo passare dal commercialista o – peggio ancora – devo andare dal dentista. Devo accudire un mio parente anziano, ho la macchina in panne. Mia moglie non mi capisce. Cosa mi importa degli ultimi cinque album di Battisti adesso?

Io pure risponderei così, a prima botta (o qualcosa di simile, ci siamo capiti).

E’ proprio questo il guaio.

Che la gente non si accorge che c’è la bellezza, in giro. Non vi attinge, nei momenti di difficoltà. C’è questa dannatissima idea che uno per attingere alla bellezza deve aver sistemato tutto, deve star bene e a posto, rilassato e ben nutrito, deve aver messo a posto tutti i desideri e gli istinti. Poi pensiamo alla bellezza. Devastante, devastante.

No, è che anch’io in fondo sono così, è per questo che è devastante. Altrimenti erano problemi vostri, e pace. 

Prendiamo Lucio. Gli ultimi anni sono quelli della collaborazione con Panella, e della sperimentazione sonora. Don Giovanni, L’apparenza, La sposa occidentale, Cosa succederà alla ragazza, Hegel. Dal 1986 al 1994. Posto che sono dei capolavori ancora in larga parte non assimilati (dopo tutti questi anni!), ecco che si pone il problema. 

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L’ultimo lavoro. “E” sta forse per End. La fine. O forse un inizio nuovo…

Per me questi lavori trasudano bellezza. Anche a distanza di anni, quasi dieci dall’ultimo lavoro (che stavo riascoltando in questi giorni), c’è qualcosa di coraggioso e di sublime che attraversa anche i brani meno riusciti. Ma chi glielo ha fatto fare? Chi? Prendiamo il Battisti di Una giornata uggiosa (1980). Fama, riconoscimenti, soldi. Un percorso collaudato. Con un paroliere d’eccezione come Mogol, tra l’altro. E che ti succede? 

Che si cambia. E già (che – detto tra noi – non ho ancora ascoltato, ma confido che questo non indebolisca la mia tesi)  è il manifesto del cambiamento.

Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale, mostra a te stesso che non sei un vegetale. E per dimostrare che si può cambiare, sposta il confine di ciò che è normale. Bella giornata è questa qua, l’aria più fresca ti esalta già, il momento migliore per cominciare un’altra vita, un altro stile (Scrivi il tuo nome)

Così cambia tutto. Si prendono nuovi rischi, si fanno nuove scelte. Nuove collaborazioni, nuove sonorità. Nuovi testi: poetici, preziosi. E inizia l’avventura straordinaria. Ora mi permetto una digressione: la musica attuale è così tristemente immediata nella melodia e nelle parole. Soddisfazione immediata, o cambi pezzo (o stazione radio, o file mp3). Al primo ascolto hai capito tutto. Non c’è un rapporto da approfondire, se non va cambi. Poi ti stufi, e cambi. Un dongiovannesco sfrenato. Un libertinaggio forzoso (neanche deliberatamente scelto). 

Qui c’è di entusiasmante che al primo ascolto non capisci nulla. Nemmeno riesci ad arrivare alla fine del disco (quasi come con Amarok, ma questa è un’altra storia). Poi riparti, e ti inizia ad entrare in testa un passaggio, una sequenza di parole. Vorrei segnalare questo fatto, vorrei avvisare: le sequenze di parole di uno qualsiasi di questi album ti possono ricorcolare in testa a distanza di settimane, mesi. Anni. Ok, non le riesci a spremere tutte subito. Non come le altre canzoni, scarti, mangi, digerisci e ciao. Una botta e via, amici come prima, non mi ti filo più, chi si è visto si è visto.

Qui invece ti ricircolano dentro, ci pensi quando meno te lo aspetti. E estrai nuovo succo, quando meno te lo aspetti.  E’ più un matrimonio che una avventura occasionale. E’ il rapporto con una sposa non con una amante. Del resto,. non è una cosa nuova, non è invenzione di  Lucio (meglio, della somma arte Panella, il paroliere). Si chiama in termini semplici, si chiama poesia.

La sposa occidentale che sembra quasi ridere / e invece lei respira, / quasi piangere, ma gira / dall’altra parte il viso, ma ritorna / portando sue notizie inaspettate; / amando tutto ciò che adora, / chiama con nomi fittizi le cose: /così, semmai, le rose / son spasimi, per ora. (La sposa occidentale)

Poi l’ultima canzone dell’ultimo discoLa voce del viso. La bocca.  E’ come se riassumesse tutta la poetica dei cinque dischi, ma in fondo di tutto Battisti. L’elogio commosso e stupefatto della bellezza. Più che elogio: il tributo. La bellezza che addolcisce il mondo, la vita quotidiana. La bellezza che nelle canzoni prende le sembianze dolci della donna, della ragazza. Seguita e indagata con una sorta di divertita tenerezza, e insieme di sbigottimento davanti al mistero. Al mistero di qualcosa che non si può spiegare compiutamente, in parole umane. 

Quest’opera sensibile: 

il tuo volto che si manifesta ed è 

oltre l’ordine della natura.

Il primato del principio del piacere sulla fredda razionalità. E’ paradossale perché spesso l’ultimo Battisti viene etichettato frettolosamente come cerebrale e invece secondo me non c’è niente di più passionale, di più sanguigno ed insieme di più teneramente appassionato. 

Ti spadroneggia allora il tuo godio, 

disincantato in quanto, 

più è restio al racconto lenitivo, 

al riassunto giulivo. E non è riso appunto 

e non è pianto il tuo perché il racconto è il riso e pianto il suo riassunto. 

Sul viso la sintassi non ha imperio, non ha nessun comando. 

Vado in visibilio qui, non riesco più ad essere distaccato, nemmeno un po’. Ma vi rendete conto? Sul viso la sintassi non ha imperio non ha nessun comando. Vince la bellezza sul razionalismo! Ecco cosa canta Lucio come ultima cosa, cosa ci regala prima di partire.  Vince una Bellezza su tutte le nostre preoccupazioni.

E tanti altri esempi…. per esaurire l’argomento ci vorrebbe un libro. O due. Ma qui illumino per schegge, momenti, impressioni. Epifanie. 

Comunque torno al punto, perdonate la divagazione. Il punto è che uno non ci pensa. Non  ci pensa agli ultimi cinque dischi di Battisti. Dite la verità, quante volte ci avete pensato? Sono tempi dure, dite. Ci sono altri problemi.

E io dico che è proprio il tempo di pensare agli ultimi dischi di Battisti, proprio perché sono tempi duri.

Proprio perché sono tempi duri, ci vuole la bellezza. Ci vuole la poesia.

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Pensieri (che ne so io di un campo di grano?)

Pensare è un’attività favolosa, senza confronto. Una meraviglia quotidiana a cui siamo fin troppo abituati. Ma bisogna anche utilizzarla bene, questa meraviglia. A volte il pensiero lo uso indebitamente, fuori dal suo ambito. La cosa più incredibile è che non mi accorgo nemmeno di farlo.

Così affondare nei pensieri per risolvere qualcosa è l’errore più grave che posso fare. 

Perché – detto in termini diretti – il pensiero può violentare la realtà. Ecco il grande pericolo. Può fare questo. Disperdere la sua incredibile e multiforme complessità forzandone i tratti dentro uno schema necessariamente povero e precostituito. Povero perché non ammette l’imprevisto, non tollera minimamente di essere sorpreso. Nel suo delirio di onnipotenza (nel nostro), vogliamo tenere in controllo ogni fattore, ogni variabile. Non lasciamo spazio a quello che esce dal nostro quadro.
Può far tutto questo, e a noi sembra niente. Davvero, sembra niente ma è tutto.
Ci pensavo qualche giorno fa, guardando dalla finestrina delle rampa delle scale. Prendiamo un albero. Ecco, sì. Anche quell’albero là, quello là davanti a me. E’ così evidente – se solo mi fermo un poco a guardare, sì a guardare prima di pensare – che il mio modello di realtà è inadeguato. Che pretendo di controllare qualcosa la cui giocosa complessità mi sfugge in ogni direzione. 
Che ne sai tu di un campo di grano? Ma davvero…

Le foglie, i rami. La complessità impressionante che governa tutto questo. Non posso circoscrivere nemmeno con precisione tutte le informazioni che definirebbero una singola foglia. Non dico una foglia in generale (terribile problema della generalizzazione!), intendo una di quelle foglie che sto guardando. Ognuna diversa, unica. 

Ho fatto un piccolo gioco. Ogni piano che scendevo, mi fermavo alla corrispondente finestrina. Guardavo l’albero. Da ogni piano era una prospettiva diversa, ogni finestra apriva su una visione diversa dello stesso oggetto, nel suo rapporto con le cose circostanti.

Una bella lezione.

E io che cerco ancora di cavarmela dicendomi di aver visto un albero. Che drastica semplificazione ho apportato, alla complessità del reale! Così funziona, di solito: io mi faccio velocemente un modello del mondo, nella fretta di iniziare ad intervenire. Ecco che ho già sostituito alla quieta contemplazione, la fretta di raccogliere i dati sufficienti a manipolare il reale.
Il pensiero va bene per costruire, edificare. Se ho un problema scientifico certamente devo ragionare, fare ipotesi, elaborare teorie. Ma stare a ragionare intorno ad una situazione, è totalmente inutile. Peggio, è usare uno strumento inadeguato. Come voler misurare la temperatura con un metro. Vuol dire non rendere omaggio alla complessità mirabolante di quello che esiste, di cui riesco a trattenere solo una piccolissima parte. Tutto il contrario di quello che dovrei fare, di quello che mi farebbe davvero respirare, arrendermi. 
I mistici, i poeti, lo hanno sempre saputo. Shakespeare ha ragione. Vi sono più cose in cielo e in terra che nella nostra filosofia.
Così mi ripeto che non è il metodo giusto, non è la scelta corretta. Se già un albero è così complesso, così intrinsecamente inconoscibile nella sua totalità di esistenza, come sarà ancora più complessa una qualsiasi situazione umana. 
Come sarà complesso, un amore. Un’amicizia, un rapporto.

L’altro giorno passavo in auto vicino ad un piccolo parco urbano. Mi è venuto da pensare, ma anche se io circoscrivessi appena un metro quadro di questo parco, mi mettessi a studiarlo, analizzarlo, misurarlo… potrei mai dire di conoscerlo? Riuscirei a darmi ragione del numero e della posizione dei fili d’erba, del loro colore, del loro modo di muoversi al vento, delle interazioni reciproche? Che ne so di questo metro quadro, in realtà? Che ne so dei rapporti di questo piccolo pezzo di realtà con il resto del reale? Riecheggiando Battisti/Mogol, mi chiedo, ma che ne so io di un campo di grano, veramente?

Eccoci. Di fronte all’albero, di fronte al prato, io allora mi devo arrendere. Devo deporre le armi, le mie pretese razionalistiche occidentali postmoderne di conoscenza aggressiva e invasiva. Non è facile per me, non è facile per niente. Sono troppo abituato ad un sistema di rapporto diverso con la realtà. Un sistema malato, perché genera disagio. Un sistema cui mi sono abituato e mi hanno abituato, certo con le migliori intenzioni. Ci ho messo tanto per capirlo, ma ora mi sembra di essere finalmente sulla strada per iniziare a comprenderlo.

Perché non è facile? Non è facile perché per farlo devo convertirmi ad un alto sistema di rapporti. Non posso farlo dall’interno da un sistema di pensiero aggressivo e ultimamente disperante. Non posso prenderla come una ennesima acquisizione, un’ulteriore annessione. No, devo cambiare io.

Così di fronte ad una difficoltà, ad un problema – quanto può essere più complesso di un albero, di un prato, di una foglia! – Io devo fare lo stesso, mi devo arrendere. Così lascio fare a forze che mi trascendono e possono lavorare al problema molto meglio di me. Ammetto finalmente che non posso reggere il mondo sulle mie spalle, non posso tenerlo su io: ecco le assurde pretese dell’ego! L’ego non ammette niente che lo trascenda, in ultima analisi, e non si fida di nessuno. Bisogna arrivare a scontrarsi con il fallimento del suo modello, per iniziare a vedere una nuova luce.

Questo è veramente un punto decisivo, del mio lavoro personale. Il mio pensiero lavora sul già visto, non ammette la novità. Il mio ego vuole avere tutto sotto controllo, vuole che il mondo vada come dico io.  Non è facile per niente mollare le redini, eppure ad un certo punto diventa necessario. Se voglio guadagnare una pienezza di vita più grande, è realmente necessario.

Perché io, di un campo di grano, non so proprio nulla…

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Un calendario… stellare

Una mela al giorno toglie il medico di torno, recita l’antico adagio. E chissà quali analoghi effetti benefici potrebbe vantare, aggiungiamo noi, il rimirare una immagine astronomica nuova ogni giorno? Per chi ci segue il sito di Astronomy Picture of the Day non dovrebbe essere nuovo, perché ci siamo spesso ispirati ad “APOD” (brevemente, da Astronomy Picture of the Day) per diversi articoli. 

Non ne abbiamo mai percorso la storia, nemmeno sommariamente, e con questo piccolo pezzo cerchiamo di porre un primo rimedio. Intanto, l’idea è didatticamente molto centrata, a mio avviso. Su APOD è l’immagine a farla da padrona. Spesso è la sua innegabile bellezza che poi spinge chi ha caricato la pagina, a leggere  – purtroppo per noi, soltanto in inglese – le righe a corredo dell’immagine stessa (redatta da un astronomo professionista), dove viene brevemente ed efficacemente fornita una spiegazione che aiuta anche il profano a mettere nel contesto quello che sta osservando. Sovente le immagini sono assai significative dal punto di vista scientifico, essendo estratte da ricerche particolarmente importanti, o da avvenimenti astronomici che stanno accadendo proprio nel periodo della pubblicazione… Altre volte sono “soltanto” immagini di suggestiva bellezza  (sempre però con un chiaro significato astronomico).

Il sito di APOD è attivo dal 16 giugno del 1995, con una immagine generata al computer di come potrebbe essere la Terra se venisse portata alla densità di una stella di neutroni. Interessante notare come le immagini dei primi tempi fossero… molto piccole, rispetto a quelle di adesso! Probabilmente perché nel 1995 ci voleva mediamente molto più tempo di oggi, per caricare sul proprio computer una immagine relativamente grande, via Internet. Leggo sull’articolo in wikipedia che il primo giorno APOD ricevette la bellezza di quattordici visite, mentre in tempi recenti sembra passarsela un po’ meglio, visto che nel 2012 ha ricevuto più di un miliardo di contatti…

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E’ la galassia peculiare Arp 273 a far bella mostra di sé in copertina del calendario 2014 di APOD… !
Crediti: NASA, ESA, Hubble Heritage Team (STSci/AURA)

APOD ci ha già fatto un bellissimo regalo di Natale, con il calendario 2014 preparato in PDF pronto per essere scaricato e stampato. Basta scaricare il file di preview per rendersi conto della cura  con cui è stato preparato (non stampatelo, vi avvisa scherzosamente  il sito, ma preferite i files a dettaglio maggiore: Please do not print it. It will look bad and baby kittens and puppies will cry if you print this one). Tra l’altro il PDF presenta ogni giorno un link diretto alla pagina APOD dove l’immagine è stata presentata (peccato non si possa cliccare col dito sul calendario stampato… forse in anni futuri, magari).

Un’altra cosa interessante che mi pare sia stata introdotta da poco, è il Generatore Casuale APOD. Cliccatelo, vi porta ogni volta su una immagine diversa. C’è il pericolo di iniziare a gironzolare per l’universo…e non stancarsi fino a che fuori appaiono le stelle… o anche oltre… 🙂

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La magia di 3C273… e lo stupore di una bimba

L’immagine presa da Hubble, attraverso la sua “gloriosa” Wide Field and Planetary Camera 2 (WFPC2) – uno strumento al quale dobbiamo una non piccola fetta della conoscenza attuale dello spazio attorno a noi . è probabilmente la migliore che abbiamo. Si parla dell’antico e assai brillante quasar 3C273, che si trova in una galassia ellittica gigante nella costellazione della Vergine. E’ così lontano che la sua luce ha impiegato la bellezza di 2,5 miliardi  di anni per arrivare fino a noi. Malgrado la distanza possa apparire enorme, bisogna considerare che è comunque uno dei quasar più prossimi a noi. E’ anche il primo quasar ad essere stato identificato, poiché fu scoperto addirittura agli inizi degli anni ’60, dal celebre astronomo Allan Sandage (fu lui a pubblicare una prima stima della costante di Hubble, alla fine degli anni ’50).

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Il quasar 3C273 (familiarmente… Treccì!)
Crediti: ESA/Hubble & NASA

Come molti sapranno, il termine quasar  sta per “quasi stellar radio source” (sorgente radio quasi stellare), e sono così chiamati perché in effetti sembrano quasi delle normali stelle, in cielo. Niente di più sbagliato, invece: i quasar sono i centri di galassie distanti e attive, e sono alimentati da un enorme disco di particelle che circonda un buco nero di grande massa.

I quasar sono capaci di emettere centinaia o anche migliaia di volte la luce di una intera galassia, il che li rende senza dubbio tra gli oggetti più luminosi dell’intero universo. Tra tutti questi brillantissimi oggetti, 3C273 è senz’altro il più luminoso nel cielo. Se lo potessimo posizionare a 30 anni luce da noi – circa  sette volte la distanza tra la Terra e Proxima Centauri, la stella a noi più vicina dopo il Sole, – apparirebbe  luminoso addirittura come il Sole (che è appena a pochi minuti luce da noi!).

3C273 è senz’altro un oggetto celeste capace di suscitare curiosità e stupore, se pensiamo alle sue caratteristiche (qui la Press Release originale). Anche da qui è partita l’idea di scriverci un piccolo racconto, chiamato La bambina e il quasar.  Il racconto, una volta postato su Internet, ha avuto il privilegio di essere ripreso su Scientificando, il blog di Annarita Ruberto. Annarita è insegnante di matematica presso una scuola secondaria di primo grado a Solarolo (in provincia di Ravenna), e ha rilevato nel racconto una valenza educativa tale da spingerla a proporlo ai suoi alunni (cosa di cui le sarò sempre grato).

Il fatto è che non si abitua mai. Non riesce ad abituarsi; segno che probabilmente ancora non è diventata grande. I grandi, da come la vede lei, sono quelli che si sono abituati. Più o meno sono abituati a tutto, non solo alle partenze. I grandi, per Anita, sono quelli che non reagiscono quasi mai con preoccupazione o con agitazione scomposta. Loro sanno sempre cosa fare (o fanno sempre finta di saperlo, difficile insomma coglierli in castagna). Al massimo, ecco, puoi trovarli un po’ irritati, o magari scontrosi. Alle brutte, ammettono che sono arrabbiati con qualcuno. Che qualcuno li ha trattati male, che qualcuno non è stato alle regole. Ecco il punto: si comportano in maniera proprio diversa. Comunque inutile girarci intorno. Il fatto è questo, parecchio evidente…

Se avete voglia potete andare a leggere il racconto (si scarica anche in PDF), che ha anche una bellissima illustrazione ad opera di Ilaria Zof, o anche soltanto a vedere, in coda al post di Annarita, i commenti pervenuti, molti dei quali ad opera degli stessi bimbi stessi che hanno letto il racconto (davvero tenerissimi).

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E’ certamente confortante vedere che la stupore e l’entusiasmo per l’astronomia non è affatto prerogativa degli studiosi, anzi raggiunge e contagia anche le persone più giovani. Educare allo stupore è forse una delle cose più belle, e lasciatemelo dire, sono davvero contento di essere stato immeritato latore di tale compito così delicato ma esaltante, almeno in questa occasione…

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Ripensando un mondo alieno…

A circa quaranta anni luce dalla Terra, esiste un mondo roccioso chiamato “55 Cancri e” che gira assai… pericolosamente vicino alla sua stella madre. Il pianeta completa infatti un’orbita in appena 18 ore, e risulta ben ventisei volte più vicino alla sua stella di quanto sia vicino Mercurio al Sole. Se ci trovassimo noi in una simile situazione, il terreno sotto i nostri piedi avrebbe la “piacevole” temperatura di circa 1760 gradi…!

Fino a pochi mesi fa gli scienziati ritenevano che – viste le condizioni – 55 Cancri e fosse niente altro che una landa desolata, costituita solo di roccia bollente e secca. Insomma, poco attraente anche solo come meta di una gita “fuori porta”…

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Una immagine artistica di 55 Cancri e con la sua stella madre (Crediti: U. Texas, NSF, NASA)

Come in diverse occasioni (scientifiche e non), c’è stata però l’occasione di ripensarci. Il motivo è fornita dai dati provenienti dal telescopio spaziale Spitzer, che suggeriscono come 55 Cancri e potrebbe essere meno asciutto di come immaginato un tempo. In particolare, Spitzer è riuscito nell’intendo di misurare la variazione di luminosità – straordinariamente minima – della luce proveniente dalla stella madre quando il pianeta si trova sulla linea di vista. Come abbiamo visto, 55 Cancri compie un transito ogni poche ore, dunque questo regala diverse occasioni ai ricercatori per metter insieme i dati di cui hanno bisogno per ottenere una stima della grandezza, del volume e della densità del pianeta.

Ebbene, secondo le  stime, 55 Cancri e possiede una massa quasi otto volte quella della Terra, e ha un raggio quasi doppio. Queste proprietà lo pongono a pieno diritto nella categoria degli esopianeti noti come  “super-Terre”, delle quali al presente se ne conoscono qualche dozzina. Tra questi, sono ben pochi a passare davanti alla loro stella (dal nostro punto di osservazione), fatto per il quale 55 Cancri e è comunque uno dei meglio conosciuti.

La cosa forse più interessante è che le informazioni acquisite (concernenti la quantità di luce infrarossa proveniente dal pianeta) sono inoltre compatibili con una teoria (a dire il vero già esistente), che vede 55 Cancri e come un vero e proprio “mondo acquatico”: un nucleo roccioso circondato da strati di acqua in uno stato “supercritico”, dove convive nella forma di liquido e di gas, circondato da uno ulteriore strato di vapore.

Insomma, un’altra evidenza del fatto che i pianeti extrasolari sono capaci di riservarci molte sorprese. Complice l’avanzamento tecnologico, nei prossimi anni avremo certamente modo di stupirci diverse volte. E potremmo finalmente arrivare a capire se la nostra Terra è davvero un ambiente peculiare, e in quale grado. In ogni caso, sarà interessante stare con gli occhi aperti…

NASA Press Release

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Hubble rivela le prime immagini della fomazione della Via Lattea

HST Galaxies similar to milky way

Fonte immagine. http://hubblesite.org/newscenter/archive/releases/2013/45/image/a/format/web_print/Crediti: NASA, ESA, P. van Dokkum (Yale University), S. Patel (Leiden University), J. Leja, E. Nelson, R. Skelton, and I. Momcheva (Yale University), G. Brammer (European Southern Observatory), K. Whitaker (NASA Goddard Space Flight Center), B. Lundgren (University of Wisconsin, Madison), M. Fumagalli (Leiden University), C. Conroy (University of California, Los Angeles), N. Schreiber (Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics), M. Franx (Leiden University), M. Kriek (University of California, Berkeley), I. Labbe (Leiden University), D. Marchesini (Tufts University), H. Rix and A. van der Wel (Max Planck Institute for Astronomy), S. Wutys (Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics), and the 3D-HST Team.

L’Hubble Space Telescope ha fornito la prima evidenza o prova “visibile” su come la nostra Galassia si sia assemblata fino a formare la maestosa spirale di stelle (e di gas e polveri) che vediamo oggi.
Scorrendo le survey del cielo profondo di Hubble, i ricercatori astronomi hanno rintracciano 400 galassie simili alla nostra in varie fasi di formazione, in un arco temporale di circa 11 miliardi di anni.

“Per la prima volta abbiamo immagini dirette di come la Via Lattea appare nel passato” ha affermato il secondo autore della ricerca, Pieter G. van Dokkum, della Yale University a New Haven, Connecticut. “Naturalmente non possiamo vedere la Via Lattea nel suo passato. Abbiamo selezionato galassie miliardi di anni luce di distanza che evolveranno in galassie come la Via Lattea. Col tracciare le sorelle della nostra Galassia, ci accorgiamo che la nostra Galassia è costituita per il 90% di stelle tra gli 11 e i 7 miliardi di anni, il che è qualcosa che non è stato mai misurato prima”.

Il superbo potere risolutivo di Hubble Space Telescope ha permesso ai ricercatori di studiare come la struttura della Via Lattea sia cambiata nel corso del tempo. Un modello in scala della Galassia può essere pensato ad un uovo fritto. Il bianco d’uovo è il disco, dove il Sole e la Terra si vengono a trovare. Il tuorlo rappresenta il bulge (o rigonfiamento) centrale formato da stelle più vecchie, e al centro di esso risiede un buco nero supermassiccio che deve essersi evoluto con grande probabilità, assieme alla nostra Galassia.

Le immagini di Hubble suggeriscono che il disco appiattito della nostra Galassia e il bulge centrale si siano formati assieme nella maestosa galassia a spirale che vediamo oggi. “Si può osservare che queste galassie sono soffici e tendano a sparpagliarsi” ha affermato Shannon Patel, della Leiden University, Paesi Bassi, anch’essa autrice del paper. “Non vi è evidenza di un bulge senza un disco, intorno al quale il disco si è formato in un secondo momento” ha aggiunto il membro del team Erica Nelson della Yale University. “Queste galassie ci mostrano che l’intera Via Lattea si è formata nello stesso tempo, a differenza delle galassie ellittiche molto massicce dove il bulge centrale si forma per primo”.

La survey mostra che miliardi di anni fa la Via Lattea era probabilmente un oggetto massiccio di colore blu molto debole contenente una gran quantità di gas, il combustibile delle stelle che sarebbero venute poi. I colori blu dell’antica Via Lattea sono un indice della rapida formazione stellare. Al culmine della formazione stellare, quando l’universo aveva circa 4 miliardi di anni, le galassie simili alla Via Lattea potevano formare circa 15 stelle all’anno. Per confronto, la nostra Galassia attualmente ha un tasso di formazione stellare di una sola stella all’anno.

Per identificare le galassie lontane e per poterle studiare in dettaglio, il team di ricercatori ha utilizzato tre dei più grandi programmi dell’Hubble Space Telescope, il 3D-HST survey, the Cosmic Assembly Near-infrared Deep Extragalactic Legacy Survey (CANDELS) e il Great Observatories Origins Deep Survey (GOODS). Queste survey dell’universo lontano hanno combinato la spettroscopia con l’imaging nel visibile e nel vicino infrarosso della Wide Field Camera 3 di Hubble e l’Advanced Camera for Suveys. Le analisi del team di ricercatori hanno coinvolto misurazioni di distanze e dimensioni galattiche. I ricercatori hanno calcolato la massa di ciascuna galassia dalla sua luminosità e dai colori. Inoltre, hanno selezionato le galassie nel loro censimento da un catalogo che comprendeva oltre 100 000 galassie. La galassie della survey sono consistenti con i modelli che mostrano che i bulge e presumibilmente i buchi nei delle galassie a spirale nei primi stadi di formazione si sono formati in contemporanea coi  dischi galattici.

“In queste osservazioni stiamo catturando la maggior parte dell’evoluzione della Via Lattea” ha spiegato il membro del team Joel Leja della Yale University. “Queste survey profonde ci permettono di vedere le galassie più piccole. Nelle precedenti osservazioni potevamo osservare solamente le galassie più luminose nel passato lontano, mentre ora osserviamo anche le galassie normali. Hubble fornisce forme e colori di queste spirali oltre che le loro distanze dalla Tera. Inoltre, siamo in grado di misurare la velocità con cui le varie parti della galassia si evolvono. Tutto questo è difficile da fare da Terra”. Sarà il James Webb Sipace Telescope della NASA ad esplorare queste galassie fino alla loro infanzia nell’infrarosso” il cui lancio è in programma per il 2018.

Le immagini di Hubble inoltre rafforzano l’idea che le grandi fusioni (merger) tra le galassie a spirale non sono state importanti nella loro formazione. Le simulazioni al computer hanno mostrato che i merger porterebbero alla distruzione dei dischi galattici. Invece, il censimento rivela che le spirali si evolvano attraverso la formazione stellare o grazie ad essa. Lo scenario della formazione galattica è diverso dal modo in cui si sviluppano le galassie ellittiche massicce.

“Queste osservazioni mostrano che vi sono almeno due direzioni di formazione galattica” ha affermato van Dokkum. “Le ellittiche massicce si formano da un core molto denso estremamente presto, probabilmente anche il buco nero centrale e presumibilmente il resto della galassia si viene ad accrescere attorno ad esso, alimentato dal merger con altre galassie. Ma dalla nostra survey troviamo che le galassie come la nostra mostrano un percorso diverso e più uniforme di evoluzione fino alle maestose spirali che vediamo oggi”.

I risultati del team di ricercatori sono stati pubblicati il 10 luglio 2013 nel The Astrophysical Journal Letters. Un secondo paper è apparso lo scorso 11 novembre 2013 nell’edizione online di The Astrophysical Journal.

Fonte: Hubble Site- Hubble Reveals First Scrapbook Pictures of Milky Way’s Formative Years
e
NASA: Hubble Reveals First Pictures of Milky Way’s Formative Years –

Sabrina

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