What’s in a name? Che c’è nel nome, nell’essere chiamati per nome, in questa convocazione preziosa ed individuale? Preziosa perché individuale?
Come è che essere chiamati per nome, essere convocati nella propria essenza profonda, nella propria unicità e peculiarità, ci fa esistere, ci fa guarire, ci fa essere, nello spettro più ampio del territorio creativo?
Pensiamo all’opposto, per capire meglio. Spesso non ci sentiamo affatto chiamati per nome. Spesso anzi cerchiamo di nascondere il nostro nome, la nostra unicità. Ci sforziamo di essere come gli altri, per questa sete di consenso, di approvazione. Siamo come gli altri, ci affrettiamo a sostenere (e a tentare di dimostrare). Barattiamo la nostra intima specificità, la scintilla sacra che è in noi, in favore dell’omologazione. Ma così facendo ci ammaliamo, mortifichiamo la scintilla di unicità che è in noi. Pensiamo di essere destinati ad una vita comune, quando nessuno di noi lo è. Peggio, pensiamo che ciò che desideriamo sia appena questo, una vita comune.

No, ciò che desideriamo davvero (e insieme la cosa che più ci spaventa) è che la nostra unicità possa manifestarsi, possa brillare. 
Dentro l’album Branduardi canta Yeats compare un pezzo molto suggestivo, delicatissimo: La canzone di Aengus il vagabondo, che Angelo ha ripreso da un pezzo di Donovan. Ebbene, nel bel mezzo della favola, si apre una frase che svela il pieno senso della narrazione

…qualcosa si mosse all’improvviso 
e col mio nome mi chiamò. 
Una fanciulla era divenuta, 
fiori di melo nei capelli, 
per nome mi chiamò ..

Notate come lo dica ben due volte, viene chiamato per nome. La fanciulla – l’epifania del bello e dell’armonia – non si rivolge indistintamente a qualcuno o a tutti, ma a lui. Lo chiama per nome. Essere chiamati per nome è sempre essere chiamati ad una vita più profonda, essere richiamati dall’indistinto in forza di un amore (la fanciulla), in forza del fatto di essere oggetto di affezione. Esistere perché amati. 
Cogito ergo sum? Va bene, posso anche capirne il significato razionale. Ma è troppo freddo per i miei gusti. Questa definizione di esistenza – se pure lecita – si configura come essenzialmente svincolata da ogni rapporto, che dunque appare come secondario e accessorio perché in ogni caso non gioca al livello fondamentale dell’esistenza, non vibra dello stato fondamentale, non pone in questione l’essere stesso.
Solo un amore
chiama all’esistenza…
Crediti: seyed mostafa zamani 
via Compfight cc

Io esisto in quanto sono oggetto di amore. Questo mi piace molto di più, questo è molto più caldo. Diciamo che io voglio un mondo in cui sia questa la definizione stessa di esistenza. Qui il rapporto amoroso (qualunque esso sia, fisico o metafisico) entra in gioco ad un livello fondamentale. Questo apre una possibilità di relazione tutta diversa con il mondo. Decisamente più appagante. E poi, in ogni caso, esisto meglio, esisto di più se sono amato. Nessuno può negarlo. Certo, c’è anche il fatto che posso essere amato alla follia e non riconoscerlo, o non volerlo riconoscere, ma questo è un altro punto, pur interessantissimo – anzi, spesso drammatico. A volte, tragico.

Se esisto perché sono amato, se lo comprendo, posso anche lavorare sul sentimento che mi vuole far sentire solo e abbandonato, posso aprirmi alla possibilità – che nessuno può mai escludermi dall’orizzonte, senza dover mentire – che per il solo fatto di esistere, di essere qui adesso, io sia oggetto di amore.  

Ma in fondo è una lotta che coinvolge tutti. E’ la lotta.

Mi pare che ognuno di noi si debba bilanciare ogni momento tra queste due posizioni, penso dunque esisto (con tutto il problema dell’uso improprio del pensiero, cui abbiamo accennato) e sono amato dunque esisto. Ogni momento mi sembra apra ad una lotta tra le due possibilità fondamentali dell’animo umano, i due autostati di base attorno a cui vibrare il momento, l’angosciosa illusione dell’autonomia (Luigi Giussani) e il cedere ad un amore che ci definisce, lavora i nostri contorni, ci rende meno opachi, più trasparenti. Sempre. In qualsiasi situazione siamo e qualsiasi cosa pensiamo di noi stessi. Il lavoro al quale siamo chiamati è esattamente questo.

Scendi Zaccheo, oggi vengo a casa tua (Luca, 19,5). Essere chiamati per nome. In realtà cosa ci attendiamo con più trasporto, con più desiderio, che questo? Cosa può guarirci meglio di questo? Perfino il rapporto tra psicologo e paziente si basa sull’attenzione e sull’empatia, direi quasi sull’affetto che una persona (il terapeuta) sviluppa ed esercita sull’altra (il paziente). Io posso guarire se sono oggetto di amore e se lascio che questo amore mi tocchi, mi trasformi, mi sani. Ma attenzione, prima ancora di ogni possibile, eventuale trasformazione, aspetto un amore incondizionato, che mi rassicuri, stai tranquillo, tu vai bene così, sei amato per come sei. Non devi assicurare alcuna prestazione. Sei amato per il solo fatto di esserci.

Se io mi sento chiamato per nome, amato così come sono, posso finalmente rinegoziare il giudizio severo e implacabile che ho su me stesso, addolcendolo proprio alla luce di questo amore. Io da solo non posso farlo, da solo mi sento schiavo di una misteriosa ed implacabile severità. Ma pensarsi da soli è una posizione parziale, malata. Perché non tiene conto di tutti i fattori. Se mi lascio plasmare e impastare dall’esterno, se introduco un altro termine nell’equazione, allora posso sperare in una soluzione. In una soluzione che renda la vita più vivibile. Che mi renda più uomo.

Allora potrò fiorire ed esprimere la mia creatività. Come una particella elementare, manifesta la sua carica solo in un campo elettromagnetico, io senza un campo di amore, di fatto non riesco ad esprimere me stesso, a dispiegare la mia unicità: rimango invece rattrappito, teso, spaventato, rintanato.

Ho bisogno di una voce che dica il mio nome con amore, per fidarmi, per esistere. Per esistere davvero.

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