Wish you were here. Era uno dei primi dischi che provammo con il lettore CD. Faceva tutta la differenza del mondo. Quella intro di chitarra, lucidissima che si staglia sopra il tappeto di rumori. Il contrasto è già luminoso nel vinile. Ma ascoltato sul CD è tutta un’altra cosa. Completamente diverso.

A pensarci bene, i Pink Floyd si prestavano perfettamente ad accogliere la nuova tecnologia. Era veramente un salto quantico. Una cosa impressionante. Qualcosa che le generazioni più recenti non avranno mai l’opportunità di provare: il passaggio dall’analogico al digitale, una volta avvenuto, non ammette ritorni indietro. Una prima volta che separa due epoche, due modi di vivere, di sentire. 

Così si potrà proseguire soltanto nel raffinamento della tecnologia, ma un salto così grande è difficile possa essere effettuato di nuovo. C’è qualcosa che si è perso, per sempre. C’è, paradossalmente, una sorta di fisicità che non potrà più essere recuperata.

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Perché il vinile era ancora abbastanza umano. Nel senso, permetteva una interazione tra uomo e macchina, tra uomo e tecnologia. Intanto era perfetto per essere ammirato e catalogato, con la sua forma ampia e piatta, gustosamente flessibile. Compravi un 33 giri e ti portavi a casa la promessa di entrare in un mondo, un’avventura visuale ed acustica insieme.

Partendo dalla cosa più evidente: la copertina.

Eh sì, la copertina rappresentava già una sorta di primo impatto decisivo. Un primo contatto denso di possibili rivelazioni. Perché la dimensione conta, almeno in questo ambito (in altri non azzardo pronunciamenti). Eh sì, a volte ti trovavi tra le mani pezzi d’arte veramente notevoli. Che solo la copertina valeva il prezzo. Grande abbastanza da lasciarsi ammirare, da riempire sufficiente spazio fisico per poter dire, finalmente, guardami. Non come il CD, piccolo rinserrato nella sua così moderna parziale occupazione di spazio e di importanza.

C’era per l’appunto il mistero sempre da esplorare della (possibile) relazione tra copertina e contenuto. Tra disegno e suono, tra grafica e vibrazione d’aria. A cui aggiungere, come ulteriore informazione, il tipo di cartoncino scelto, la sua consistenza, il suo spessore. Cosa può dire la copertina (che valuti prima dell’acquisto, ovvero prima di esserti compromesso) con il contenuto (che diventa tuo soltanto dopo un tuo libero atto di coinvolgimento) ? E’ ovvio che uno cerca di ricavare un’idea dei possibili benefici prima di impegnarsi: è umano. Al proposito da ragazzo avevo un assioma (ovvero, una proposizione assunta come vera perché evidente), che credo abbia retto abbastanza, nel tempo: un disco con una bella copertina non sarà mai brutto, anche se può darsi il caso di un disco bello ma con una brutta copertina.

E poi, superando la copertina, arrivavi finalmente al cuore, al vinile. Se la visione della copertina era come un primo saluto di circostanza, un rapporto con l’oggetto più largo ed esteso, ma anche periferico, qui arrivavi a svelare la promessa di un contatto intimo, spesso personale. Potevi cullare l’aspettativa di una gioia, vicina. Venendo al lato squisitamente musicale, c’era poi questa altra faccenda… Ecco, c’era ancora – da compiere – una ulteriore analisi preventiva del materiale: perché con gli occhi potevi avere informazioni sulla qualità musicale di quanto avevi acquistato.

Eh sì. Prima di mettere il disco sul piatto, già ti facevi una idea.

Prima cosa, dalla distanza dei solchi più lisci ricavavi facilmente una buona stima della durata  dei vari pezzi. Per me e mio fratello, ad esempio, innamorati di rock progressivo, vedere uno o più pezzi abbastanza lunghi – solchi lisci più distanziati – era subito da intendersi come un buon segno: abbiamo fatto bene a comprarlo, ci dicevamo soddisfatti. Di converso, molte tracce troppo fitte e regolari veniva da noi decifrato come indizio di un disco eccessivamente commerciale, probabilmente (per la nostra inclinazione) “troppo” compiacente alle logiche di mercato.  

La seconda parte dell’analisi preventiva contemplava l’esame della riflessività relativa del vinile. Si imparava ben presto che le parti con una maggiore dinamica avevano una riflessività molto variabile, in poco spazio. Un insieme disordinato di solchi affiancati di diverso spessore era per noi, dunque,  un altro indice affidabile di brano interessante. 

Dunque l’esame del vinile era un processo importante, un momento ineludibile e necessario, prima di mettere finalmente il disco sul piatto, e avvicinare la puntina sul primo solco. In qualche modo, inevitabilmente, alla musica fruita arrivavi per gradi, in un processo di continua scoperta, in un complicato rimando tra aspettative preliminari ed evidenze sensibili e  poi ancora sensazioni, con un coinvolgimento di quasi tutti i sensi: delicato e progressivo come un innamoramento, insomma.

E il disco non era lo stesso ogni volta. Il fruscio che si aggiungeva pian piano era tutta una storia. Parlava dei ripetuti ascolti e ti metteva in rapporto con una cosa familiare, che cambia nel tempo. Come cambi tu. Come cambiavano le circostanze, i rapporti, le amicizie. In fondo, il tema dell’album.

Vorrei che fossi qui suona meglio in formato digitale, innegabile. La chitarra limpida e luminosa avvolge le onde di malinconia tiepida della mancanza dell’amico, del ricordo agrodolce e pacato dei tempi passati. Ma l’esperienza del vinile, oso dirlo, rimarrà sempre ammantata di una sua magica unicità. Come un rapporto con un amico, un rapporto speciale, ormai lontano.

 

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