Scrivere è un’attività solitaria, siamo d’accordo. Esige un certo grado di concentrazione, esige soprattutto la volontà di osare, di metterle giù quelle parole, una dopo l’altra. Esige la fiducia pazza e irragionevole che il mondo complesso e screziato che  hai nella testa possa ammettere una (parziale ed imperfetta) traduzione in frasi, possa incarnarsi in qualche modo in una linea di inchiostro, in una sequenza di caratteri. La fiducia che il tuo universo interno così luccicante, incostante, liquido, possa essere comunicato al di fuori di te. Possa essere, in qualche misura, condiviso con altri.

Posso forse immaginarne il motivo. Se scrivere è un dono, un talento che (in misura che ora qui non discutiamo) ci è stato regalato, io penso pure che ci sia stato regalato con un motivo. Cioè che vi sia un solo modo corretto di accogliere questo dono. E il mondo è quello di condividerlo. Condividere, intendo, il frutto che direttamente da questo dono sgorga, o vorrebbe sgorgare: le parole scritte. 

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Apri le mani, lascia pure che siano gli altri a vedere se c’è qualcosa di dolce… 

Photo Credit: włodi via Compfight cc

Intendiamoci: scrivere per se stessi, in un certo grado, va bene. Va benissimo. Ad esempio tenere un diario personale. Perfetto.Totalmente OK. Io lo tengo (su DayOne), anche se la frequenza di aggiornamento è squisitamente irregolare, dipendendo spiccatamente dal periodo e dal mio umore medio. Perché non è egoistico? Perché scrivere per se stessi è sempre e comunque una palestra, un modo per raffinare le proprie capacità. Perché non è infrequente che le cose che si scrivono per se stessi, in un secondo momento, possano rientrare in larga parte in cose che si scrivono (anche) per gli altri. A me è capitato di riprendere ampi brani del mio diario e – tolte (ehm…) le cose più imbarazzanti – proporle nel blog o altrove. Potremmo anche ricordare che scrivere per se stessi permette di sperimentare senza troppa paura, permette altresì di stendere una linea di parole sugli avvenimenti personali più intricati, perciò stesso – per il potere della scrittura – orientandoli verso la possibilità che vengano compresi, dipanati.

Dunque scrivere è un dono che va condiviso (affrontando – o meglio accettando – tutta la paura e i dubbi che questo inevitabilmente comporta). Per inciso, è questo anche il motivo per cui – a mio avviso – scegliere di non scrivere non è mai una buona idea. (Invia su Twitter) Eh no, mio caro, non te la cavi così (dico a me, prima di tutto). Se hai questo impulso, questo desiderio di scrivere, se niente può farti sentire così a posto come quando scrivi, a posto nel senso proprio che ‘stai facendo il tuo dovere’… non te la cavi mica a buon mercato rifiutando la lotta, evitando di scrivere. No no, caro mio: ti stai facendo del male, stai comprimendo dentro di te un dono, un qualcosa che ti è dato per essere elargito, elargito a piene mani. Ecco, invece lascia fluire questo dono: offrilo agli altri. Lasciati andare, lascia che il tuo nero inchiostro fecondi la pagina bianca, facendo germogliare senso e significato.

Ribadisco. Qui non è affatto questione di quanto si è bravi. La questione è molto più profonda e meno egoistica: si tratta in realtà di onorare il dono ricevuto. E’ la direzione dentro la quale, poi, la vita scivola meglio, va più fluida: non ci possiamo fare niente, l’universo è fatto così. Non è saggio mettersi di traverso alle linee di forza, per così dire. Meglio riconoscere la struttura del reale e accoglierla, adeguarsi, allinearsi. Se tu sei un punto dell’universo per il quale esso si ricomprende nella scrittura (o in qualsiasi altra arte), se sei qui per questo, se questo è stato deciso per te, non è saggio opporsi. Molto meglio mettere da parte l’orgoglio (proprio quello che ti fa dire ma non sono bravo abbastanza, quello che non ti fa impegnare se non sei certo di produrre il capolavoro) e dire di sì. Sospetto una cosa: che aumentino decisamente le probabilità – in questo modo – di essere autenticamente felici. 

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