Blog di Marco Castellani

Mese: Giugno 2014 Page 1 of 2

Leggere, digerire

C’è voluto il passaggio al digitale, in un certo senso. C’è voluto – come spesso accade – il transitare in un altro territorio, per tornare arricchito di una consapevolezza diversa. Che poi, uno nemmeno si rende conto che sia davvero una nuova consapevolezza, o chissà che altro. C’è che una cosa a cui eri abituato, improvvisamente ti sta stretta. 

C’è voluto questo, per me. L’abituarsi alla lettura di ebooks ha comportato un diverso modo di avvicinare il testo. Sì perché il mezzo non è irrilevante, quello che fruisci è tutto un misto tra quello che è davvero scritto e i modo con cui ti arriva. E’ così tutto intimamente legato e non riesci a separare, a dividere i vari fattori. Grazie al cielo. 

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Photo Credit: pedrosimoes7 via Compfight cc

Nello specifico, la lettura in digitale mi ha riabituato – senza che lo mettessi a programma – ad un certo lavoro sul testo (quello che dirà è vero principalmente per i saggi, ma non ne sono completamente esclusi nemmeno i romanzi). Il fatto tecnico assai banale, se vogliamo, per il quale si può agevolmente evidenziare un passaggio – senza di fatto alterare o rovinare il libro – mi ha riportato inevitabilmente all’attitudine di leggere sottolineando i brani più importanti, le frasi che più mi colpiscono: insomma, quelle che vorrei ricordare, o perlomeno alle quali vorrei poter tornare, per digerirle meglio.

Il libro digitale ha un grosso limite, comunque, allo stato attuale. E il grosso limite è che non vi si trova tutto: molti libri sono ancora, e forse lo saranno sempre, disponibili esclusivamente in formato cartaceo. Quello glorioso, quello di sempre (la carta, la sua consistenza, il suo profumo.. etc etc..). Non è come per la musica digitale, lì più o meno se cerchi bene, trovi l’emmepitre praticamente di tutto. Qui no. Diversi saggi ed anche romanzi, o libri di poesia – anche di recente pubblicazione – vivono allegramente (e misteriosamente) soltanto nel formato cartaceo. 

Allora, ecco. Se mi trovo a leggere un saggio pubblicato su un libro di carta , ora sento che mi manca qualcosa. Mi manca la possibilità, appunto, di sottolineare. Per chiarire, va detto che io aderivo, fino a poco tempo fa, a quella disgraziata corrente di pensiero per la quale il libro non può essere alterato in alcun modo (facevo eccezione per la firma e la data di acquisizione nella prima pagina, come avevo visto fare da mio nonno materno). Ovvero, a parte un libro di testo, non reputavo ragionevole sottolineare un libro che leggo per interesse.

E infatti comprendo che il motivo è tutto lì. E’ lì il fraintendimento.

Perché in fin dei conti dietro il fatto che il libro debba rimanere intonso il più possibile, c’è l’idea che tu ci debba passar sopra in modalità leggera e non invasiva, come a volo d’uccello, immergendoti in modo elegante e discreto in quello che ha da dire, per poi salutarlo lasciandolo il più possibile senza traccia del tuo passaggio.

Eh no, invece no. La cosa non funziona così.

Il rapporto con un libro è un rapporto carnale, un rapporto in cui i due partecipanti si modificano, si compenetrano, si sporcano l’uno dell’altro. Non si può far finta che non sia mai avvenuto (io? Quel libro? no, no mica l’ho mai toccato… non è come pensi, posso spiegarti tutto…). Perché le idee non le sorvoli elegantemente. No, con le idee ti devi misurare, ci devi lottare, devi permettere che ti saltino addosso, devi respingerle o accoglierle, resistere e poi cedere, oppure cedere subito e poi cambiare idea. 

Così diceva Giorgio Gaber, in una della sue intuizioni più folgoranti, Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione. L’idea va ruminata, andrebbe fatta propria, perfino mangiata, se possibile.  

Così anche mi conferma una frase di un poeta, Davide Rondoni, quando nell’Avvertenza che prelude al bel libro (cartaceo, soltanto) sulle poesie di Ada Negri, Mia giovinezza, mette in guardia, Si legge per crescere in umanità. Leggere fa parte del lavoro.

Così maturo il distacco dalla scuola il libro non si tocca con un senso di sollievo, finalmente. Perché c’è anche la concezione che leggere sia un passatempo, una cosa per riempire i vuoti. No, non sono d’accordo. Leggere è qualcosa che arricchisce, è proprio un lavoro. E questo vale anche per molta letteratura leggera, secondo me. Puoi imparare molto, da come sono messi in fila aggettivi, avverbi, dalla lunghezza delle frasi, dalle situazioni. Leggere accende sempre la mente. Io sospetto che un si impari di più, per dire, da un brutto libro – ma uno scritto proprio male, vorrei dire – che da uno spettacolo televisivo di qualità media (eccezioni ve ne sono e ve ne saranno sempre, ma in media mi sembra sia così).

Beh, tutto questo per dire che ad un certo punto di questa evoluzione (o involuzione, a seconda di come la pensiate) ho guardato con occhi diversi quell’evidenziatore giallo: quello che era qui appoggiato sul comodino, a non far nulla.

Ecco (i puristi smettano di leggere) … l’ho preso, ho preso il saggio che stavo leggendo (Dennis Gira, La scelta che non esclude. Buddismo o cristianesimo), e ho iniziato a sottolineare. Prima con un senso di disagio, come mi guardassi nell’atto di compiere una marachella. Poi con un vero senso di liberazione. Finalmente. 

E poi ancora, emozionato dalla mia trasgressione, invece di smettere e pentirmi, ho continuato. Le altre vittime sono state, per ora, Imparare ad amare, di Marco Guzzi, e lo stesso libro delle poesie di Ada Negri (limitatamente alla parte di Rondoni).

Niente va perduto, niente è sprecato. Leggere fa parte del lavoro (e anche l’evidenziatore giallo  ne fa parte, aggiungo di mio). Che bello che sia così. Che bello che il libro sappia di me, dopo che l’ho incontrato. Vuol dire che se qualcuno viene dopo di me a leggerlo, sarà non appena un lettore, ma un testimone di un passato incontro d’amore. 

Passato, sì: ma sempre rinnovabile.

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Nuove scoperte lunari

Si chiamava “The Great Moon Hoax”, ovvero “La grande burla della luna”.  Si era nel lontano 1835 e la conquista della luna era ancora nel campo della pura immaginazione.  Così come quello che si sarebbe potuto trovare lassù. Il quotidiano New York Sun, a partire dal mese di agosto, pubblicò una serie di articoli riguardanti – nientemeno – che la scoperta della vita e della civiltà sul nostro satellite. L’autore delle scoperte sarebbe stato nientemeno che John Herschel, astronomo famosissimo al tempo. 

Ora, è chiaro che doveva trattarsi di articoli satirici. La cosa piuttosto impressionante, a ripensarci ancor oggi, è il fatto che vennero presi in tutt’altro modo. Per diverso tempo vennero presi sul serio. Tanto da essere tradotti in altre lingue. Perfino in italiano, con l’uscita a Napoli, l’anno successivo, di un libretto intitolato Delle scoperte fatte nella luna del dottor Giovanni Herschel.

Litografia della Great Moon Hoax di un “anfiteatro di rubino” per il New York Sun, 28 agosto 1835

Pur trattandosi di una burla, appunto, pianificata probabilmente anche con lo scopo di aumentare la tiratura del giornale (e in questo, ebbe pieno successo) è illuminante per farci comprendere al giorno d’oggi a noi – smaliziati uomini del secolo XXI, avvezzi a ragionare delle profondità cosmiche più lontane – di quale enorme curiosità e quale senso di possibili meravigliose scoperte fosse avvolto il nostro satellite. Ora sappiamo che la realtà è molto meno suggestiva, in un certo senso. La luna – l’unico satellite naturale di cui disponiamo – è fredda e piuttosto desolata. Ce lo hanno ben testimoniato anche gli astronauti.

Pensate però a che nuvola di mistero ancora la circondava, per l’uomo di inizio ottocento. Quali civiltà, quali meravigliosi esseri popolavano questo satellite? Chissà quanti ragionamenti arditi nelle notti di luna piena, quante elaborazioni fantastiche, quanti tentativi di immaginare cosa potesse davvero esserci. Ecco, gli articoli ebbero così tanto successo perché venivano incontro a questa curiosità diffusa: in un certo senso, rispondevano ad un bisogno culturale.  Come noi oggi ragioniamo intorno al possibile destino dell’Universo, alla sua remota origine, ci perdiamo nella nozione intellettuale degli universi paralleli, così gli uomini allora, probabilmente, si chiedevano quali creature popolassero la nostra  luna.

Gli articoli del New York Sun interpretavano questo bisogno, rispondevano ad una curiosità diffusa.

Con il trucco di attribuire le scoperte ad uno scienziato famoso (il quale ovviamente non aveva mai osservato nulla del genere), tali articoli non difettavano certo in immaginazione, perché descrivevano minutamente una topografia lunare alquanto intrigante, con foreste, mari interni, piramidi di quarzo di colore lilla. Non era tutto. Altro che sassi. La luna era decisamente popolata. Bisonti, unicorni blu, creature anfibie nei fiumi, tribù primitive che abitavano delle capanne, uomini alati che vivevano in una sorta di pastorale armonia in un suggestivo tempio dal tetto d’oro.

Furono decine di migliaia le copie vendute dal New York Sun prima che qualcuno si rendesse conto che era … fantascienza, non scienza. Tanto per capire la proporzione, considerate che già l’edizione con la seconda puntata vendette la bellezza di diciannovemila copie, ottenendo la diffusione più ampia di qualsiasi altro quotidiano su tutto il pianeta.

La bufala si estese in maniera virale, anche (dettaglio non trascurabile) tra gli scienziati, prima che qualcuno capisse che si trattava di una completa invenzione. Del resto, la scienza ufficiale non viaggiava molto lontano da quanto l’articolista (forse tal Richard Adams Locke, nella realtà) aveva osato immaginare. A ulteriore conferma del fatto che la scienza non è mai avulsa dal suo tempo e – lungi dal costituire  una sorta di indagine asettica del reale – incarna e fa propri gli aneliti e i desideri più propriamente umani caratteristici di ogni epoca.

Come pensare altrimenti, se consideriamo infatti che un docente di astronomia presso l’Università di Monaco, Franz Von Paula Gruithuisen, aveva pubblicato nel 1824 un documento che si intitolava “La scoperta di molte distinte tracce di abitanti lunari, in particolare di uno dei suoi edifici colossali” (già il titolo farebbe sobbalzare sulla sedia qualsiasi scienziato odierno) nel quale sosteneva di aver osservato diverse tonalità di colori sulla superficie del nostro satellite, che lui correlava – disinvoltamente, diremmo oggi – con diversi climi e differenti zone di vegetazione? Arrivando perfino a correlare linee e forme geometriche da lui osservate con la probabile esistenza di muri, strade, città e fortificazioni? Va detto che un margine di eccentricità doveva comunque essere percepibile anche allora, perché probabilmente – al di là dell’aumento di tiratura – teorie come quella di Gruithuisen erano proprio il bersaglio dell’operazione satirica.

Consideriamo comunque che queste teorie – per quanto eccentriche ci sembrino oggi – erano il prodotto accademico di scienziati professionisti. Certo non tutti erano così fantasiosi, non tutti azzardavano ipotesi così rischiose, ma tant’è. Sorprende, forse. Ma solo a chi non comprenda come la scienza sia molto, molto più umana (e dunque molto, molto più interessante) di come tanta cattiva cultura, ancora permeata di influssi crociani, ci porta a pensare. Quella “cultura” che vede la scenza appena  come misuratrice della realtà.

No, la scienza è molto di più. E anche questi episodi “minori” ce lo insegnano.

La scienza è legata intimamente alle altre attività culturali dell’uomo (ove l’uomo ricerca la natura e il senso di sé nel mondo), è iscritta a pieno titolo nel suo tragitto culturale e di scoperta.

E’ insomma parte integrante dell’avventura umana. 

(Elaborazione dalla voce di wikipedia Great Moon Hoax, alla quale si rimanda per approfondimenti e link.) 

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AA Amici di Arcetri

Vorremmo approfittare di questo spazio anche per presentare le varie associazioni che a diverso titolo attendono alla preziosa opera di divulgazione della cultura dell’osservazione e della compressione del cielo, sul territorio italiano. Se volete proporne una di cui fate parte o che conoscete, mandate un mail a info@gruppolocale.it. Iniziamo con AA Amici di Arcetri. 

aaaaL’Associazione Astronomica Amici di Arcetri ONLUS (AAAA) si occupa della diffusione della cultura astronomica e, in particolare, gestisce le attivita’ didattiche e divulgative dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, che includono visite notturne e diurne, conferenze e lezioni pubbliche, eventi scientifici nell’ambito di festival e rassegne, osservazioni del cielo, corsi di aggiornamento di carattere astronomico. AAAA e’ composta prevalentemente (ma non solo) da astronomi e tecnici dell’INAF e del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Universita’ di Firenze. Il suo sito web è http://www.arcetri.astro.it/aaaa/

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Il caffè espresso va in orbita

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La nuova macchina per il caffè espresso si chiama ISSpresso. Crediti: Argotec, http://www.argotec.it/argotec/.

Da oggi un buon caffè italiano si può gustare anche nello spazio. Si chiama ISSpresso ed è un sistema a capsule davvero innovativo in grado di lavorare in condizioni estreme, come quelle dello spazio.

Argotec e Lavazza stanno lavorando, in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), per portare l’espresso autentico, quello italiano, sulla Stazione Spaziale Internazionale con la prossima missione Futura di Samantha Cristoforetti che partirà a novembre 2014.

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Logo della prossima missione di Samantha Cristoforetti, Futura. Sarà proprio durante questa missione spaziale che Samantha Cristoforetti, oltre ad essere la prima donna italiana ed europea a volare nello spazio, avrà anche l’onore di essere la prima astronauta a bere un caffè espresso a bordo della ISS. Crediti ESA.

Argotec è un’azienda di Torino, unica responsabile per il bonus food degli astronauti europei dell’ESA su contratto dell’ESA stessa e fornitore ufficiale di cibo per gli astronauti europei in missione sulla ISS per i quali realizza cibi su richiesta. Argotec ha sviluppato uno spazio di ricerca per lo studio nutrizionale del cibo dedicato agli astronauti, il cosiddetto Space Food Lab. I cibi che vanno a bordo della ISS devono essere consegnati alla NASA almeno 18-24 mesi prima del lancio in modo che possano essere recapitati in anticipo a bodo della ISS prima dell’arrivo dell’equipaggio.

 “Il caffè italiano è una bevanda senza confini – commenta Giuseppe Lavazza, vice presidente di Lavazza – e pensiamo alla sfida di portare l’espresso anche nello spazio da tempo. Già dieci anni fa, infatti, avevamo “mandato in orbita” l’espresso artisticamente con gli scatti di Thierry Le Gouès e con il calendario Mission to Espresso, che all’epoca poteva sembrare un’opera di fantascienza e che, invece, era solo visionaria. Oggi infatti siamo in grado di rompere i limiti dell’assenza di peso e di bere davvero un buon espresso, simbolo indiscusso del made in Italy, a bordo della Stazione Spaziale Internazionale”.

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La Terra ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale. Crediti NASA/ISS.

“I nostri ingegneri aerospaziali – dichiara David Avino, Managing Director di Argotec – hanno progettato un nuovo concetto di macchina per il caffè, sicura per gli astronauti e in grado di funzionare in condizioni di microgravità, integrandosi con l’esperienza di un leader nei sistemi di estrazione a capsule come Lavazza. Si tratta di un’opera di altissima ingegneria che ha portato a soluzioni innovative, applicabili anche con ritorni immediati sulla Terra. Lo schema funzionale era pronto già a giugno 2013: Argotec ci stava lavorando da circa un anno. ISSpresso è una sfida tecnologica che soddisfa requisiti molto severi, imposti dall’ASI , in termini di funzionalità tecnica e di sicurezza”.

“ISSpresso – aggiunge Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana – è un perfetto esempio di come l’iniziativa ASI di rendere disponibili i diritti nazionali di utilizzo della ISS a progetti di partenariato pubblico-privato produca effetti di valorizzazione di risorse pubbliche a fini tecnologici, economici e sociali: l’ASI porterà ISSpresso a bordo della ISS, grazie agli accordi bilaterali di cooperazione con la NASA, condividendo con i Partner del progetto l’obiettivo comune di contribuire al miglioramento della qualità della vita degli astronauti sulla ISS, così come nei futuri lunghi viaggi di esplorazione interplanetaria. Al contempo, siamo orgogliosi di concorrere alla promozione dell’immagine e alla diffusione del marchio Made in Italy a livello internazionale, anzi “spaziale”.

ISSpresso verrà ad aumentare la varietà di gusto nei menù degli astronauti ma aumenterà a migliorare le conoscenze sui principi di fluidodinamica e sulle condizioni di microgravità. Lo studio che ha portato alla nascita di ISSpresso è così vasto che ha avuto e avrà ricadute in un immediato futuro anche su altre applicazioni terrestri oltre che spaziali.

Comunicato stampa di Argotec

Comunicato stampa di Argotec In formato pdf: http://www.argotec.it/argotec//docs/CS_ISSpresso_it.pdf

Tagboard- Missione Espresso

Video Sky.it – Nasce a Torino l’espresso spaziale da bere tra le stelle 

Sito web di Lavazza e Lavazza – 2014: Caffé nello spazio

ASI- Agenzia Spaziale Italiana  e ASI- 2014: caffè nello Spazio – L’espresso italiano in orbita con Argotec, Lavazza e l’Agenzia Spaziale Italiana –

Le interviste qui riportate sono tratte dal comunicato stampa di Argotec.

Sabrina

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Chi si ferma è perduto!

Potremmo ben dire così, vista la situazione: chi si ferma è perduto. Del resto, fermo non c’è proprio nessuno. Tanto meno la Terra. Allora vediamo di fare chiarezza, in questo senso. Approfittiamo dell’immagine presentata ieri da APOD, per aiutarci in questa rapida carrellata… Cominciamo appunto dalla Terra. Ebbene, la Terra non sta ferma di certo: come sappiamo, si muove intorno al Sole, compiendo il suo moto di rivoluzione annuale. Il Sole a sua volta  non sta certo in panciolle, ma orbita intorno al centro della Via Lattea. 

Al che uno potrebbe pensare: bene, è finita qui. 

Invece no. Affatto.

La Via Lattea compie la sua orbita intorno all’interno del Gruppo Locale di Galassie (il nome vi dice qualcosa, per caso?). Il quale Gruppo Locale, lungi dal vegetare tranquillamente a galla nello spazio, si trova altresì coinvolto in una vertiginosa caduta verso il gruppo di galassie dell’Ammasso della Vergine. E’ uno degli ammassi di galassie più grossi vicino al Gruppo Locale, con più di un migliaio di galassie che vi fanno parte. Dunque si capisce che eserciti una rilevante attrazione gravitazionale.

Ma non è finita qui.

E’ che tutte queste velocità messe insieme non raggiungono quella del moto combinato di questi oggetti rispetto alla radiazione cosmica di fondo. Tale radiazione è forse il criterio più valido per poter distinguere, nell’Universo, ciò che sta fermo da ciò che si muove. Se ci pensate, ogni cosa è in movimento rispetto ad un’altra, e l’unico sistema di riferimento affidabile sembra essere quello solidale con la radiazione di fondo. 

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Image Credit: DMR, COBE, NASA, Four-Year Sky Map

Nella mappa che presentiamo qui sopra, ottenuta per mezzo del satellite COBE, che tanto ha dato alla cosmologia moderna, la radiazione nella direzione del moto terrestre appare più blu e dunque più calda, mentre quella dal lato opposto è spostata verso il rosso e dunque più fredda. La differenza di colori rappresenta pertanto l’evidenza più diretta del fatto che la Terra è in (rapido) movimento rispetto ad un sistema di riferimento solidale con la radiazione di fondo.

Sì, va bene. Ma quanto rapido? Avete mai pensato a formulare questa domanda? A che velocità, in ultima analisi, ci stiamo muovendo nel cosmo? Ebbene, dalla mappa si ricava che il Gruppo Locale si muove alla velocità di circa 600 chilometri per secondo in rapporto alla radiazione primordiale. Questa velocità appare piuttosto alta (parliamo di più di due milioni di chilometri all’ora, non proprio bruscolini…) e per molti versi la sua entità rende perplessi gli scienziati, che si sarebbero aspettati un valore più basso. Perché mai ci muoviamo così velocemente? Perché sfrecciamo nello spazio cosmico a questa velocità decisamente sconveniente (in barba ad ogni regolamentazione del traffico che vi può essere a larga scala)? Verso dove siamo diretti? Chi è che ci attira così tenacemente?

La risposta c’è. Si chiama Grande Attrattore (e mai nome fu più indovinato, probabilmente); con la sua massa decisamente elevata (stiamo parlando di decine di migliaia di galassie, ognuna delle quali potrebbe essere paragonabile alla nostra Via Lattea) esercita una irresistibile attrazione (gravitazionale) per le galassie della Via Lattea e per milioni di altre galassie, che da tempo dunque si trovano coinvolte nel moto verso di lui.

Il viaggio comunque si preannuncia piuttosto lungo; siamo ancora a 250 milioni di anni luce di distanza, non c’è davvero da aver troppa fretta di arrivare… 

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NGC 3081, un meraviglioso doppio anello

anelliE’ distante 86 milioni di anni luce da noi, ed è vista “di piatto” tanto da poter ammirare la sua struttura più interna in tutto il suo splendore. E’ una galassia chiamata di tipo Seyfert II. E’ un po’ diversa, probabilmente, dalle immagini pur straordinarie delle galassie a spirale che avete già visto: il suo nucleo di spirale barrata è circondato da quello che si chiama un anello di risonanza. L’anello è pieno di stelle in formazione ed ammassi stellari, e circonda quello che si ritiene essere un buco nero gigante nel centro di NGC 3081. Molto interessante l’anello, che si forma proprio nella zona dove la gravità permette l’accumulo di materiale. Si ritiene sia causato dalla presenza della “barra”, oppure dall’interazione con oggetti vicini.

Immagine: ESA/Hubble & NASA
Acknowledgement: R. Buta (University of Alabama)

Info su SpaceTelescope.org

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In pieno volo

Le ho tenute lì per parecchio. Erano cresciute naturalmente, dopo aver chiuso l’altro libretto, “Per prima è l’attesa”, che per averlo messo insieme un po’ in fretta, si è rivelato capace di darmi soddisfazioni che non avrei osato mai sperare. La gioia più grande – una delle più grandi e più dolci in assoluto, per me – è stata quella di imbattermi in persone  (in rete, ma soprattutto in carne ed ossa) che venivano da me per dirmi quanto avevano apprezzato le mie poesie. Non è una questione di orgoglio o di sentirsi chissà che: non sono certo come Ungaretti, che aveva una chiara coscienza del suo valore e se a suo tempo si proclamava il più grande poeta italiano, per quanto potesse apparire autocelebrativo ed anche un pelo irritante, era probabilmente vicino al vero. 

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A che quota volare per superare le nuvole…? 

Ad un certo punto c’è stata anche una fase intermedia che è risultata la più critica. La più insidiosa. Impantanato nelle sabbie mobili del dubbio, rileggevo le poesie ogni tanto e non ero più sicuro, non ero più certo che volessero dire qualcosa, che riuscissero a dire qualcosa, a farsi quel ponte tra le persone che giustifica il fatto che vengano pensate, vengano scritte, che trovino spazio sulla carta o in una memoria di computer.

Insomma, non volavano più, in un certo senso. E io stesso non volavo, o volavo a quota molto bassa. Sul volare a quota molto bassa si è certamente detto e scritto molto, e non vale la pena affrontare qui una esposizione completa ed esaustiva del fenomeno. Per la qual cosa, mi limito a registrare qualche semplice evidenza rimandando, come si dice in questi casi, il lettore a più esaustive trattazioni.

Allora. Una prima cosa, è che a volare basso (dicono) si scappa ai radar. Questa informazione in un buon filmone sulla seconda guerra mondiale, compare sempre. Dunque deve essere vero.  Cioè non ti vede nessuno, non ti identifica nessuno. A prima impressione potrebbe essere una cosa buona. Forse lo è, se sei in missione in un paese nemico con intenti non propriamente amichevoli. Però a ben pensarci, può non esserlo se stai tentando di esprimere la tua voce, la tua personalissima voce, trovarle un posto nel mondo. Devi rischiare di farti trovare, di farti leggere. Di farti anche criticare, persino deridere, in caso. Comunque devi esporti, smettere di nasconderti.

Una seconda cosa è che a volare basso prima o poi si sbatte da qualche parte. Non so, una parete, un’ostacolo qualsiasi. Un gatto addormentato, se voli proprio basso basso (non so perché mi è venuta proprio questa immagine, ma penso che renda l’idea). Insomma non sei libero di muoverti nell’immensità dello spazio, sei guardingo e temi diecimila imprevisti, ogni piccola asperità del terreno è un problema. Non sei sereno, non sei rilassato.

Essermi deciso a far leggere il manoscritto, permettere che vedesse la luce (sia pure per pochissimi occhi, ai quali sono grato) mi ha permesso di uscire dalla situazione di stallo, e riprendere quota. Ho ricominciato a lavorare con più convinzione a queste poesie, e come accade spesso in questi casi, dalla nuova convinzione sono scaturite anche nuove idee, nuovi tentativi, nuovi modi di miscelare queste parole, di renderle più adatte al volo.

Sembrerà curioso, ma l’ultimo ostacolo era il titolo. Quello provvisorio non mi soddisfaceva più (non lo svelo così me lo posso sempre rigiocare un’altra volta…), non era propulsivo quanto basta, non spingeva al salto, al salto da fare nel permettere che queste poesie potessero essere finalmente lette. Soprattutto, non parlava di me come sono adesso, dei miei desideri, dei miei bisogni. Del mio cuore.

PienoVolo

Bruno Liljefors (Swedish, 1860-1939), “Trutar”.

Fino a che mi è arrivato in mente il verso di una canzone. Eccolo, eccolo il titolo della raccolta che arriverà, che sta per arrivare: In pieno volo (con il corrispondente hashtag #pienovolo).

E’ lui. E’ quello che cercavo. E’ lui.

Sono appena tre parole, estrapolate da una canzone di Victor Heredia, Ojos de cielo. Oltre ad essere una canzone bellissima, mi è cara per come è stata lanciata alla mia attenzione durante il mio personale volo nella ricerca di ciò che è essenziale. E se è entrata nella mia vita in un momento in cui il senso, il significato di tutto, subisce delle oscillazioni, in cui si avverto un doloroso sfocamento, in cui ricerco con più desiderio la mia personalissima ed unica ragione per vivere, forse non è per caso.

Ojos de cielo, ojos de cielo ,

no me abandones en pleno vuelo

Il fatto che non è più tempo di indugiare o di fantasticare il futuro. A quest’età uno si sente necessariamente in pieno volo. E dunque quando si sente incerto, insicuro, dubbioso, nasce l’esigenza essenziale di trovare qualcosa, qualcuno, degli occhi che lo sostengano proprio ora, proprio adesso: proprio nel pieno del volo.

E il volo è anche quello di abbandonare ogni esitazione e scrivere, con fiducia.

Finalmente.

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NGC 290, uno scrigno stellare

Più brillante di un gioiello. Solo le stelle possono essere così. Sono proprio come gemme quelle che risplendono nell’ammasso aperto NGC 290. L’ammasso è davvero fotogenico e in questa immagine catturata dal Telescopio Spaziale Hubble (proposto da APOD qualche giorno addietro) fa una figura davvero maestosa. Gli ammassi aperti, lo sappiamo, sono ben diversi dalla loro controparte globulare. Intanto si trovano per lo più nel piano del disco galattico, mentre i globulari sono sparsi per tutto l’alone. Poi, contengono molte meno stelle (gli ammassi globulari più popolati possono arrivare a diverse centinaia di migliaia), e la percentuale di stelle giovani e blu è molto più elevata. 

La teoria moderna dell’evoluzione stellare si è giovata molto dello studio degli ammassi aperti e globulari e ne ha derivato un quadro ormai abbastanza consistente della loro natura. Gli ammassi globulari sono certamente più antichi, di una età paragonabile all’età dell’universo stesso, e pertanto contengono stelle di massa piccola e in fasi evolutive avanzate. Gli ammassi aperti sono ben più giovani e scoppiettanti, pieni di stelle molto grosse e molto calde.

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Credits:  ESA & NASA; Acknowledgement: E. Olszewski (U. Arizona)

NGC 290 si trova a circa duecentomila anni luce dalla Terra, e (udite udite) non è nella nostra Galassia, ma in una galassia vicina, la Piccola Nube di Magellano. Contiene qualche centinaio di stelle e si dispiega per circa 65 anni luce di larghezza.

Uno scrigno cosmico i cui incantati colori ci raggiungono della profondità dell’universo.

Un delicato tesoro di luci colorate, affogato nel nero limpido e terso di un cielo perennemente stellato.

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