Blog di Marco Castellani

Mese: Agosto 2014 Page 1 of 2

Ci leggi qualcosa?

E’ la sera di martedì 26, sono al Meeting. Dopo l’incontro tanto atteso – Davide Rondoni che legge le poesie di Mario Luzi – ancora piacevolmente contaminato dalla bellezza intravista, ascoltata, respirata, raggiungo gli amici al ristorante. Si sono fermati lì a parlare, c’è anche una coppia di tedeschi. Il marito molto gentile si alza per pagarmi da bere, quando arrivo. Qualcuno lo dice, Ma lo sai che Marco scrive poesie? E poi la domanda si gira direttamente a me, la domanda prevedibile, ragionevole, conseguente, Ci fai leggere qualcosa? 

Al di là del momento di imbarazzo (accipicchia: ho appena regalato l’ultima copia che mi ero portato dietro del mio libretto In pieno volo) questo mi fa pensare. Avere qualcosa di proprio, da mostrare, se serve. Avere qualcosa di proprio – soprattutto – da portare con sé. Se uno scrive le poesie è per questo, perché si installino come un ammortizzatore, tra te e il reale. Per levigare gli spigoli, per digerire le circostanze. Dopotutto non è troppo male portarsele appresso, queste poesie.

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Ti leggo qualcosa di mio… 

Photo Credit: pedrosimoes7 via Compfight cc

Ma nemmeno sul telefonino? Insiste l’amico, giustamente. No, veramente… e intanto penso che qualche modo tortuoso pur ci sarebbe: dopotutto le cose stanno su Dropbox, ma dovrei arrivare alla cartella giusta, vedere se riesco ad aprire il file pdf o World dall’iPhone, cercare poi una certa poesia dentro il documento… non certo una cosa immediata. 

Corro il rischio che quando sono finalmente pronto se ne sono già andati tutti (e io perdo anche il passaggio in macchina verso l’albergo, cosa assolutamente disdicevole).

Vabbé: albergo a parte.

C’è qualcosa di più.

Perché in fondo scrivere, cos’è?  E’ cercare di generare quelle parole (e sequenze di parole)  che cerchi, e che non trovi altrove – o non trovi esattamente come cerchi. E quindi averne compagnia, con tutta le imperfezioni possibili, non è troppo sbagliato.

Le poesie soprattutto: quelle ti fanno davvero compagnia, ti lasciano sempre addosso – a rileggerle – un po’ di quel tentativo di dolce interpretazione del reale, che hai messo in atto quando le hai scritte. Così ne puoi spremere sempre un po’ di succo. E ti riscaldi nei passaggi che trovi riusciti, e non puoi evitare una punta di dolore per le parti che a tuo avviso sono ancora, in qualche modo, incompiute. Ma sempre ti coinvolgono.

Oppure può capitare, appunto, di avere una richiesta da soddisfare. E anche questo è onestà: rispondere di come si è. Sei scrittore se scrivi. E se sei scrittore è normale che ti chiedano. Rispondere alla vocazione, accoglierla: in fondo non ci è chiesto che questo. E non serve alcuna coerenza, alcuno sforzo sovrumano.

Serve solo questo, di volersi bene. Almeno un po’.

Perciò ho iniziato a riversare sul mio account Wattpad le mie poesie pubblicate: parto dal libretto “Anni diVersi”, perché è stato pubblicato ormai alcuni anni fa, e mi fa piacere ripercorrere ora quelle poesie, riguardarle e comprendere cosa è cambiato, cosa invece è rimasto come struttura costante immodificabile,  come architettura portante della mia espressività.

Vabbé ma Wattpad cosa c’entra?

Senza andare sul tecnico (che c’è l’altro blog per questo) direi che questo Wattpad – che io ho scoperto da pochissimo, ma lui esiste da tempo – ha qualcosa, ha una fisionomia che mi piace abbastanza. Si può usare facilmente sia dal computer che da un tablet o perfino da un telefonino; c’è l’applicazione gratuita e funziona piuttosto bene, in verità. Riversando i testi su quella piattaforma, potrò disporne ovunque abbia la connessione.

Mi piace anche che ogni composizione si possa votare e commentare. Un pizzico di interattività non fa male. Mi piace che uno possa “seguire” il mio profilo ed essere avvisato ogni volta che aggiungo del materiale (sì, può accadere che uno sia così disturbato da voler fare ciò). Ho riversato su Wattpad anche le mie piccole storie su Giada, che a dire la verità sono ferme da un po’. Non mi dispiacerebbe proprio avere dei suggerimenti, delle indicazioni sui temi attorno a cui sviluppare le prossime puntate. Perché Wattpad, tra l’altro, si presta benissimo ad una pubblicazione periodica di una serie di episodi.

Beh, una cosa per volta. Anche diventare popolare su Wattpad (sì, sì, mi piacerebbe, non posso negarlo) non è cosa di un minuto. Per intanto, sto mettendo riparo al Ci fai leggere qualcosa… Siccome non giro mai senza qualcosa di elettronico appresso (lo so è quasi una patologia, ma ognuno ha le sue, del resto) siete avvisati che – da ora – se chiedete di sentire qualcosa di mio, potrete ascoltarlo davvero… 

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Abbraccio vuol dire gioia

Sono stato tre giorni al Meeting di Rimini, da lunedì a mercoledì. Tre giorni scarsi, a dire la verità. Però sufficienti. Decisamente sufficienti per riempire gli occhi e il cuore (gli occhi, e quindi il cuore) di cose belle.

Di cose che fanno respirare.

Non so come fare – ora vediamo – ma soprattutto nel parlare di questo vorrei evitare la ricerca delle frasi belle, scansare per una volta la tentazione della  retorica, la costruzione edificante, la levigatezza del dettato. Non mi soddisferebbe. Non vorrei cadere in questo: “dimostrare” e convincere che il Meeting è una bella cosa, una bella iniziativa, che vale la pena andarci. Non mi interessa particolarmente, ora. Nemmeno mi interessa fare una esposizione sistematica ed ordinata di quanto ho visto (una piccola parte di quanto è accaduto e sta ancora accadendo): preferisco dare due schizzi di colore, cercare una immagine, una sensazione. Parlare del mio meeting. Altrove si troveranno certo tutti i debiti resoconti, più meditati e meno soggettivi.

Piscine

Un momento di pausa tra un incontro ed una mostra, alle piscine

Ulteriore premessa. Non ho voglia, non ho tempo ed interesse, per argomentare con chi ha un suo pensiero bello e fatto del Meeting senza esserci andato. Vorrete perdonare la mia vena blandamente intollerante, ma mi sembra proprio troppo, lo dico dolcemente ed amichevolmente, pensare di poter derivare un pensiero maturo sul Meeting dalla lettura esclusiva del proprio giornale, l’ascolto del telegiornale preferito. Non mi pare un approccio conoscitivo adeguato all’oggetto.

Ora dirai che bisogna starci, eh. Diranno subito “i miei piccoli lettori” Sì lo dico, bisogna starci. 

Andare a vedere. Respirare l’aria.

Sopratutto guardare. Guardare i ragazzi e le ragazze che lo costruiscono, lo lavorano, lo faticano. 

Che poi, nel dubbio, per me è più facile e piacevole osservare le seconde, tendenzialmente. Ma c’è qualcosa di più, della eventuale attrattiva fisica (cosa di cui a volte si dubita, in fondo).

Ma guarda. Fosse solo questo (non è poco, per carità), potremmo restare a casa. Magari fare un giro al parco, o in centro (meglio, se si vuole contrarre gente). No, no. Altro.

Poi uno è così, in realtà uno non decide niente. Pensa di pianificare la sua vita, tutto intento ai suoi calcoli, quando invece al massimo fa ridere i polli. O meglio, fa sorridere gli angeli, che sanno come davvero va il mondo.

Grazie al cielo non si può pianificare nulla.

Tanto meglio. Così uno è guidato, se si lascia guidare, o se si distrae e si perde nei suoi schemi in maniera appena sufficiente a far sì che molli la presa. Pure per sbaglio, pure per un istante, pure per una sospensione momentanea del ragionare. Come quando prendi una cunetta in macchina, la prendi troppo veloce e per un momento lo stomaco ti arriva in gola.

Così succede che i contrasti acuiscano lo stupore. Se parti basso poi l’altezza la percepisci di più. 

Infatti parto basso. Lunedì a pranzo, il momento peggiore è proprio l’arrivo. La selva dei dubbi che premono il cervello. Ma perché sono qui: ma tanto io il meeting lo conosco ormai. Perché stare fuori casa anche solo tre giorni, adesso. Adesso che il mio lavoro è in famiglia, lì c’è da esserci, c’è da fare: lo sappiamo. E questi amici ancora  – per certi versi – nuovi, quanto davvero posso aprirmi con loro? Devo rimanere chiuso, con tutta la fatica che comporta? Non mi va di fare fatica. Non mi va. Voglio andare a casa.

Ecco, lo ammetto. Vorrei stare a casa.

Perché sono venuto? Qual era la scommessa? Ora non la vedo.

La mostra di Millet inizia ad addolcire qualcosa nel cuore indurito, fisso nel suo schema, determinato nel suo proposito di contaminazione appena parziale – finestre sottili attraverso cui passa poca luce, giusto il minimo indispensabile. Però qui ti fregano perché passa il colore. Allora su allarga il cuore, e entra anche Van Gogh di soppiatto, Van Gogh che – scopro – copiava Millet e lo adorava. E la guida appassionata ti infetta, ti infetta della sua passione, senza avvertirti (il tuo cinismo abituale non funziona come vaccino, perde colpi). E quei quadri che illustrano così soavemente il valore profondo del lavoro umile: sono un inno nascosto alla vita. Questo non vale. E’ stupendamente disdicevole.

Bella signora che mi lusinghi citando a memoria le mie canzoni

il tuo divano è troppo stretto perché io mi faccia delle illusioni

Qui tutto ti lusinga, se appena  ti lasci tentare, magari il “divano” non è sempre così stretto come canta Fossati in Chi guarda Genova (che posso fare, è entrato di forza, stava passando nelle cuffie mentre scrivevo, poi mi piace troppo questo verso). Così ancora intontito per tutta l’attività intorno, tu che ancora trattieni qualcosa di casa e non sai bene se sei qui per piena ragione, se puoi lasciar correre il cuore: non lo sai ancora. Sei solo un po’ più colorato per colpa di Millet. Appena uno schizzo di colore che stempera il tuo bianco e nero dell’ultimo periodo. E vabbé.

Con questo tiepido colore addosso, vai al salone dove c’è l’incontro con Aleksandr Filolenko (ma chi è, questo tipo? Che ci potrà mai dire, in fondo, l’ennesimo intervento filosofico?). Diciamolo pure, ci vai solo per fare la brava persona ragionevole, quella che va all’incontro principale della giornata, quello che spiega il titolo del meeting. Senza altra ragione che questa, che poi anche gli amici tuoi ci vanno.

Accidenti, quanto uno non capisce fino a che non ci sbatte il naso.

Arriva questo Filonenko: sì sembra ben piazzato, simpatico d’accordo. Un volto curioso, serio e divertito insieme. La Guarnieri lo presenta. Però, fisico nucleare e filosofo. Mica male. Ma anche questo stupore rischia di smorzarsi. Inizia a parlare dell’Ucraina e tu pensi certo bel tema, molto attuale, ci mancherebbe, anche doveroso, etc… ma pensi pure – tra te e te – che allora puoi anche mezzo ascoltare e mezzo assopirti. Invece stai per sentire una delle cose più significative degli ultimi tempi.

Un momento. Che vuol dire significative

Che per te significano, che mettono in movimento quelle corde che fanno respirare, che muovono il cuore indurito. Questo è significativo, il resto chissenefrega. Non c’è tempo per il resto, il resto ha stufato. Quello che intenerisce, commuove, stupisce: questo mi interessa. Il resto può occuparsene chi non si ricorda che non è immortale. Che deve scegliere. Che un giorno il suo essere fisicamente qui si dissolverà. Chi non si ricorda di dover morire può evitare di mettere le cose in ordine di priorità.

Che vita, però. Che vita già morta senza la morte. Poveretto.

Ma torniamo al punto. Il punto è che la gioia sta facendo un giro lungo e sta per arrivarti addosso, ospite imprevista, dama inattesa. L’intervento di Filonenko, iniziato apparentemente sottile e focalizzato, ora si allarga a ventaglio, assume diversi colori e riempie il campo come la ruota di un pavone. Cavolo, come si allarga. Invece di una frequenza singola si amplia a spettro e inizia a vibrare su diversi autostati, su mille colori contigui. Non capisco ancora adesso come sia stato possibile. Parla della situazione politica dell’Ucraina e improvvisamente – senza avermi preliminarmente avvisato – parla della situazione spirituale ed esistenziale dell’uomo, della mia, cioè parla dell’unica cosa che mi interessa, in pratica. E mi dà una prospettiva. Rimango sbigottito. Ad un certo punto – ecco – sta parlando a me della mia personale situazione psicologica, delle mie fatiche e dei miei disagi  interiori e di come affrontarli. Niente altro mi interessa di più. 

Così allargato il parlare procede e mi ha investito e sono dentro, la stanchezza passa e le antenne si allineano, cerco di cogliere.

Sono così rapito che mi incanto ad osservare l’interprete, la traduttrice. Mi appago del gioco di sguardi e di intesa con Filonenko, osservo come lei esiti, riprenda, scivoli sulla frase, si metta di taglio quando è perplessa, si sistemi i capelli mentre pensa. Poi magari ride e rimane colpita lei stessa, si trattiene e poi si lascia afferrare dalla frase, che le addolcisce il viso, le illumina gli occhi. La sua femminilità inconsapevole dona un tocco di morbidezza ulteriore alle parole, già morbide ed accoglienti. Che poi lei,  forse le parole già le sa, ma la parola la colpisce lo stesso, è evidente, e attraverso di lei, attraverso il suo viso, il suo corpo, l’enfasi con cui restituisce il senso, colpiscono me. 

Mi precipito ad estrarre il tablet dalla borsa e cerco di trattenere qualcosa, se non le parole esatte, una imperfetta ricostruzione, un’ombra che però trattiene la bellezza.

Spesso chiediamo a Dio di essere invulnerabili, dovremmo chiedere di essere fragili, vulnerabili. La Sua potenza si manifesta nella debolezza. È quello che hanno scoperto in Ucraina questa estate. Occorre sconfiggere la paura. La prima definizione della liberta è libertà dalla paura. Chiedere di essere vulnerabili. Il coraggio è una virtù cristiana. Ma è il coraggio della debolezza, della mendicanza. Della vulnerabilità. Possiamo fare opposizione alle circostanze, oppure possiamo cedere, ma san Paolo propone una terza via, il vantarsi delle tribolazioni.. Sapere che in ogni tempesta c’è Cristo, indica la possibilità di vittoria sulla paura. Ed è la pazienza. Attraverso questo cammino la vulnerabilità si trasforma in speranza, ma la cosa più importante è la pazienza. Con la pazienza possiamo trasformare la violenza in pace.La pace di Cristo, che possiamo chiedere essendo disponibili a questo lavoro sulla pazienza…

La chiusa è memorabile.

Il primo compito dell’uomo della periferia è  tornare ad educarsi alla compassione. Ed è educarsi alla capacità di far festa. 

In fondo l’unico problema è la gioia, e l’unica cosa di cui val la pena parlare è la compassione (per questo è bella la poesia, perché ci educa alla compassione). Non chi ha ragione, ma quello che ci serve per vivere. La ragione e il torto sono così antichi, così pesanti, così “uno-punto-zero” che non mette conto soffermarci più. Non in un tentativo di sintesi poetica, perlomeno. Un tentativo, imperfettissimo e zoppicante. Ma poetico nel senso di parlare di ciò che avviene nel cuore.  Di ciò che non divide e non definisce.

Così abbraccio vuol dire gioia, in Ukraino, dice Filolnnko. 

 

E tutta l’attualità pesante - se acquista una chiave interpretativa - non dico che scompare, non si censura nulla d’accordo, ma è come levarsi un peso dal cuore, questo sì. Basta un volto, basta un minuto e poco più. Sì, rimane tutto, ma io torno a respirare un po’ di più. Poi, fate voi. A me questo abbraccio tra Julian Carron e Aleksandr Filonenko mi conforta tanto, mi dice tanto di come posso fidarmi della realtà. Ecco, un abbraccio e non tante parole. O magari anche parole, ma come quelle di Filonenko, parole speciali che sono già un abbraccio. Parole con della carità inclusa dentro, in dosi elevate.

O le parole di Carron, e soprattutto il volto. Che uno dice, perbacco ma non è tutto marcio qui. Si può sperare, si può ancora nutrire entusiasmo, positività. 

Così ci sarebbe tanto da raccontare (e lo potremo pur fare), un turbinìo di cose bellissime e di incontri, persone e “momenti di persone” (penso appena all’incontro con il poeta Davide Rondoni, con il filosofo Massimo Borghesi… e poi Jannacci, Guareschi, Peguy, visti con partecipazione e amore) - ma in fondo, mi viene un sospetto: in fondo, è come se tutto sia una conseguenza. Che derivi tutto dall’abbraccio, da quell'abbraccio di mercoledì. Che questo abbia generato tutto, anche ciò che è successo prima. Che questo sia il fondamento, o un indizio del fondamento di tutto, su cui tutto può fiorire.

Anche il ritrovarsi la sera, al tavolo del ristorante, un bicchierino e gli amici vecchi e nuovi, e ora ci si scambia opinioni e idee senza barriere, ora finalmente c’è appena l’umano che vien fuori. E viene fuori anche con persone appena intraviste, con le quali parli come se conoscessi da sempre. L'umano. Quello che sempre cerchi, che sempre fa star bene.

Questo abbraccio. Il quale deriva da un’altra cosa, non è cosa che ci possiamo inventare con la nostra buona volontà. C’è appena una sovrabbondanza da riconoscere.

Grazie al cielo.

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E ora dove atterriamo…

Ok, ragazzi, e ora dove vogliamo atterrare? Questo è ciò che si staranno certamente chiedendo ad ESA, riguardo al modulo Philae. E’ la decisione principale da prendere, intanto che la sonda Rosetta continua a gironzolare intorno alla Cometa 67P. Una decisione alla fine deve essere presa, perché alla fine di novembre si prevede che Philae scenda a “terra” per fare i suoi esperimenti (aiutato da un paio di “rampini” per evitare di scappare via).

In un certo senso, c’è già da essere più che soddisfatti. Aver raggiunto la cometa, all’inizio di questo mese, è stata sicuramente una grande impresa. Il termine di un viaggio che durava da dieci anni. Un viaggio che ha reso necessaria l’ibernazione degli strumenti scientifici, poi risvegliati con pieno successo a metà del mese di maggio, in preparazione dell’arrivo alla cometa.

Insomma, una impresa emozionante. Anche per chi non è – diciamo – addetto ai lavori.

Ora che siamo arrivati, però, le immagini che ci manda la sonda (straordinarie, di per sé, considerando il grado di dettaglio), non sembrano poter tranquillizzare troppo gli scienziati. Guardate l’immagine ravvicinata della cometa, così come ce la può presentare adesso Rosetta con i suoi occhi. Eh beh. Non sembrano esserci molti posti dove il terreno si presenti sufficientemente liscio. 

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L’immagine compare su APOD del 19 agosto, Crediti: ESA / Rosetta / MPS for OSIRIS Team; MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA

Guardando bene, però, forse un posto si trova.

E’ proprio a metà dell’immagine, in quella specie di incavo, un po’ butterato ma comunque abbastanza omogeneo, se confrontato con il resto. Potrebbe essere il luogo più idoneo per l’atterraggio di Philae. Dopotutto, non possiamo aspettarci grandi piste di atterraggio, se consideriamo che stiamo ragionando  di un gigantesco “sasso” di circa 3,5 x 4 chilometri di estensione (anche se del peso di più di tremila miliardi di chili…).

 Il viaggio di Rosetta ci ha già regalato diverse emozioni: nel 2008 ha sorvolato l’asteroide 2867 Steins, nel 2010 ha poi incontrato 21 Lutetia, che è l’asteroide più grande di cui si siano potute avere osservazioni ravvicinate. Dopodiché, come dicevamo, è stato messo “a nanna” in modo da garantire la sopravvivenza degli strumenti anche a distanze molto elevate dal Sole (con temperature non proprio miti…). Ora è ben sveglio e ci regala immagini fantastiche della 67P.

E Rosetta promette di tenerci ancora con il fiato sospeso: almeno fino a novembre, per la procedura di atterraggio di Philiae. Una cosa di una certa complessità, considerando che si tratta di agganciarsi a questo grosso sasso lontano “appena” 405 milioni di chilometri. Insomma, tenetevi liberi, sarà una cosa che varrà la pena seguire! 

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Dallo stallo, al pieno volo

Ci voleva probabilmente questo. Rimanere fermi in autostrada. Un suocero, un cane, la moglie, due figlie (non in ordine di importanza). Tra Valle del Salto e Tornimparte, per la precisione. Nemmeno questo, nemmeno riuscire ad arrivare al casello, portarsi fuori dall’autostrada.

Per la cronaca, alla partenza tutto a posto. Però l’aghetto della temperatura dell’acqua, dopo un po’, inizia a muoversi spiacevolmente verso le alte temperature. Strano. Sarà il traffico. Allontanandosi da Roma le macchine si sgranano, si cammina più spediti. Bene. Mi aspetto che la temperatura si riallinei a valori più tranquillizzanti. E invece no. Che strano. Mi fermo e rabbocco acqua. Il benzinaio mi rassicura, mi dice di farla raffreddare un po’ e ripartire. Così va tranquillo fin dove deve arrivare.

Prendete nota. Non è sempre bene fidarsi di chi ti rassicura.

Infatti si riparte ma è soltanto, come si suol dire, l’inizio della fine. La situazione precipita, l’acqua bolle come in un pentolone per la pasta (ma la pasta non c’è, il sugo nemmeno), la spia dell’olio si accende pure lei, tanto per fare compagnia e partecipare alla festa.

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Photo Credit: Rossco ( Image Focus Australia ) via Compfight cc 

Ok, non proprio così, ma quasi… 😉

Siamo in caduta libera ormai. Tocca fare del nostro meglio, subito.

Falling, falling… 

Five miles out

Just hold your heading true

Got to get your finest out

Climbing Climbing

Mike Oldfield, Five Miles Out

Ok, calma. Tra poco siamo al casello. Si esce, ci si ferma, e si ragiona sul da farsi. Dieci chilometri, cinque… l’acqua scalda sempre più. Sudo freddo. Siamo al collasso. Un beeeep beeeep mai sentito prima a bordo, segnala che l’automobile – o la sua parte elettronica – giudica inaccettabile proseguire in queste condizioni, e spegne tutto.

Faccio appena in tempo a mettermi in corsia d’emergenza.

Vi risparmio il seguito. Carro attrezzi, officina, prospettiva di costi esorbitanti, rientro tramite pronto (e generoso) soccorso del cognato. D’altra parte, è una cosa che capita a molti. Peraltro, non è questo che mi preme di raccontare.

E’ quello che è capitato dopo. Il giorno dopo.

E’ domenica. Mi ritrovo inaspettatamente a casa (quando avrei dovuto essere in montagna). Mi ritrovo inaspettatamente senza un programma di cose da fare. Se il mio umore già  il giorno prima non era dei migliori (per varie vicende), quel giorno è a pezzi. Quello che mi preoccupa di più è che non ho nemmeno un fondo di voglia di reagire. Sai quando ti ritrovi a pensare ci mancava solo questa e se uno ti dicesse ma che altro c’è che va male? tu sei pieno di eccezioni e rimproveri verso questo e quello ma in fondo sai che è il tuo atteggiamento che è sbagliato. Dopotutto il guasto ad una macchina non è la fine del mondo. E non si è fatto male nessuno.

D’accordo. Ma sono a terra, comunque. A torto o ragione è così. Lungi dal volare alto, sono a terra.

Volare alto. Volare. 

Got to get your finest out …

Mi ricordo che c’è un progetto pronto al 99% dentro al MacBook. Al 99%, proprio il momento in cui è più difficile completare, c’è sempre il demonietto bizzarro che ti dice ma non ti esporre, non vale la pena, perché rischiare, se poi non piace… 

Chi scrive lo sa. Chi è artista in qualsiasi modo lo sa. La maledetta paura di esporsi, di svelarsi, di sentirsi dire appena un non mi piace.

Che poi è strano. Almeno per me. Mille mi piace molto non riescono a temperare lo sbigottimento doloroso che provo davanti ad un solo non mi piace. Orgoglio? Probabilmente. Sta di fatto, come ho detto anche alla psicologa varie volte, i complimenti li prendo e metto via, li depotenzio abilmente, con qualche pretesto (mi vuole bene, lo dice per compiacermi, etc…), le critiche – legittimissime, per carità – mi colpiscono e mi affondano come quei cacciatorpedinieri a battaglia navale: non so se avete presente, una volte indovinate due caselle, il resto è inesorabile, come l’inabissarsi.

Ma sto divagando. C’è quel progetto fermo in dirittura d’arrivo. Mancherebbe pochissimo, verificare il file, la copertina, fare il volume e farsi mandare la prova di stampa. Ci siamo, Marco, ci siamo. Non puoi mollare ora. Non puoi abbandonare. E’ solo orgoglio, abbandonare.

Riconoscere i limiti di ciò che facciamo, senza abbandonare stizziti il gioco, significa maturare. Questa è la vera umiltà: tornare ogni giorno sull’opera, perfezionarla, invece di disperarsi perché non è già perfetta.

Marco Guzzi

Allora, inizio.

Mi rimetto all’opera. Dove manca la convinzione, c’è la paura. La paura del senso di nonsenso che arriverebbe inesorabilmente nel rinunciare. Che poi va così. Superata la paura, fatto quel fatidico salto, poi le cose si riallineano. Stai facendo quello che ti piace, Marco, quello a cui ti senti chiamato, e questo sistema tante cose. Sì, perché non ti opponi al flusso, non fai inutile resistenza. 

Smetti di pensare, di sollevare eccezioni. Fai quello che devi. E la ricompensa psicologica è immediata. 

Ti senti meglio. Davvero meglio (e non hai assunto psicofarmaci, come valore aggiunto).

Non sei più in panne. Puoi ripartire. Piano, senza strappi, senza esagerare. Ma riparti.

Vedi, stai viaggiando. Piano piano potrai pensare anche di alzarti in volo. In pieno volo. 

E ti accorgi che lavori tutta la mattinata. E non ti pesa. Così il volume di poesia è pronto. Fatto, sistemato il testo. Trovata la copertina. Ordinato.

Pieno Volo

La domenica è salva, io mi sento un po’ meglio. 

La verità è così sfacciatamente semplice, che io non la voglio mai vedere (perché ci sguazziamo così bene nelle complicazioni?). Se non scrivo non sto bene. Punto. Lo so e non lo voglio sapere. Fosse per me, per la mia endemica insicurezza, scriverei solo dopo avere avuto certificazioni in carta bollata che sono proprio bravo. Non procederei senza le debite autorizzazioni, gli indispensabili permessi. Con il nulla osta di un qualche autorevole comitato. 

Ma è così, c’è poco da ricamare. Non posso decidere.  Devo saltare. 

Così per quella domenica è come se fossi passato vicino ad un abisso di desolazione, e l’avessi scansato per un pelo. Non male come risultato.

E non è tutto qui. Perché dopo qualche giorno, quando inaspettato arriva il pacchettino con il libro, è una soddisfazione profonda dolce e indescrivibile. Toccarlo, aprirlo, leggere. Vedere che sono riuscito a dire quello che volevo dire, riconoscere che (almeno in qualche parte) sì, ci sono riuscito. Quello che rischiava di rimanere per sempre dentro di me è affiorato, ha preso dimora sulla pagina. E non ha perso i suoi colori, ancora li trattiene. 

Questo è commovente, è delizioso, è un bagno di fiducia. Questo fa gioire il cuore.

Così ora è a voi, se vorrete. Io sono sollevato. E’ come se avessi fatto una strada difficilissima e avessi corso il rischio di fermarmi mille volte. Con tutte le spie accese. E il motore in panne, che sbuffa e fuma. Ma è anche come se, quasi miracolosamente, fossi riuscito a ripartire. Prima a camminare, poi a correre. A volte, per qualche attimo almeno, a spiccare il volo. A trovarmi, appunto, in pieno volo.

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Vedi i tuoi più illustri colleghi…

Vedi i tuoi più illustri colleghi scienziati, che magari hanno fatto anche delle scoperte grandiose, nei quali a poco a poco quella fiamma nell’occhio si spegne, e che cosa resta? Cosa resta di quell’infinito per cui a diciannove anni ci si sentiva fatti? E allora mi è venuto da dire a quei ragazzi, di getto: «Voi dovete scappare da quelli che vi dicono così: “Adesso alla vostra età si dice che si vive per l’infinito, ma poi vedrete, a quaranta, cinquanta, sessant’anni, perderete questa illusione”, non dovete seguirli perché invece quel desiderio di totalità è la verità di noi, è quello per cui noi siamo fatti, è quello che ci tiene vivi, sempre, a venticinque, a trenta, a cinquanta, a ottant’anni, perché questa fiamma, questa tensione, questa attesa della totalità è l’attesa che l’infinito intercetti la mia strada ora, nel punto in cui sono ora, di poterne fare esperienza ora»

Davide Prosperi, in “Come si fa a vivere” http://goo.gl/zcbwMn

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Rosetta arriva a destinazione

 

Il nucleo della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko ripreso dallo spettrometro a bordo della sonda Rosetta dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) il 3 agosto 2014. Crediti e copyrighy – ESA/Rosetta/MPS for OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA.

Il nucleo della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko ripreso dallo spettrometro a bordo della sonda Rosetta dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) il 3 agosto 2014. Crediti e copyrighy – ESA/Rosetta/MPS for OSIRIS Team MPS/UPD/LAM/IAA/SSO/INTA/UPM/DASP/IDA.

Dieci anni sono passati da quando la sonda Rosetta dell’Agenzia Spaziale Europea è stata lanciata per un rendezvous spaziale davvero intrigante: entrare in orbita attorno ad una cometa e sganciare una sonda sul suo nucleo per studiarne le proprietà chimico-fisiche.

Oggi Rosetta si può dire arrivata a destinazione. Dopo quattro spinte gravitazionali con la Terra, Marte e altre due con la Terra, e due incontri ravvicinati con l’asteroide Steins (2008) e l’asteroide Lutetia (2010), entrambi appartenenti alla Fascia degli Asteroidi, la sonda dell’ESA ha avuto il rendezvous con il suo principale target: la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. Ben riuscito, tra l’altro. Le manovre di avvicinamento e, successivamente nei prossimi gioni, di messa in orbita attorno alla cometa sono in parte automatizzate e in parte seguite da terra e sono iniziate nel maggio scorso. Se anche solo una di queste fosse fallita, la sonda non avrebbe mai incontrato la cometa.

Al momento la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko e Rosetta si trovano a una distanza di 405 milioni di chilometri dalla Terra, circa a metà strada tra l’orbita di Giove e quella di Marte, e si sta avvicinando nella regione più interna del nostro Sistema Solare ad una velocità di 55 000 chilometri all’ora. Sono velocità spaventosamente alte se pensiamo che la velocità media di un’automobile in un centro abitato è 1000 volte più piccola.

Un dettaglio della superficie del nucleo ottenuta dalla camera OSIRIS a bordo di Rosetta. Crediti ESA. Fonte: https://www.flickr.com/photos/europeanspaceagency/14843737445/in/set-72157638315605535/

Un dettaglio della superficie del nucleo ottenuta dalla camera OSIRIS a bordo di Rosetta. Crediti ESA. Fonte: https://www.flickr.com/photos/europeanspaceagency/14843737445/in/set-72157638315605535/

Rosetta è a circa 100 chilometri dalla superficie della cometa, ma si avvicinerà ancora di più. Nel corso delle prossime sei settimane descriverà due traiettorie triangolari precedendo la cometa, la prima ad una distanza di 100 chilometri, la seconda arrivando fino a 50 chilometri dalla sua superficie. Nello stesso tempo gli strumenti a bordo di Rosetta forniranno uno studio dettagliato del nucleo della cometa, analizzando la superficie per mapparla in grande dettaglio in modo da poter determinare il sito di atterraggio più favorevole per Philae. E’ anche probabile che si possa andare ancor più vicino al nucleo: se l’attività della cometa lo permetterà, Rosetta potrà descrivere un’orbita di tipo circolare a 30 chilometri di distanza dal nucleo o anche più vicino.

La cometa descrive un’orbita ellittica con un periodo orbitale di 6,5 anni, orbita che nel punto di massima distanza dal Sole si trova al di là dell’orbita di Giove.

Lo spettrometro ad immagine OSIRIS installato sulla sonda Rosetta dovrà mappare la cometa per individuare un sito adatto all’atterraggio del lander Philae nel novembre 2014. Si tratterà di una grande evento nella storia umana: per la prima volta un robot si depositerà sul nucleo cometario e rimarrà ancorato per studiarne le proprietà fisiche e chimiche che legano i processi di sublimazione del gas cometario, la polvere, la composizione del nucleo e tutti i processi fondamentali che hanno luogo man mano che la cometa si avvicina al Sole, passa nel suo punto di minimo distanza con la stella e se ne allontana.

Nei giorni scorsi Rosetta aveva anche compiuto una misura della temperatura della cometa trovandola troppo calda per ipotizzare un nucleo ricoperto di ghiacci. L’ipotesi, dunque, è che debba avere una crosta scura e rocciosa. Questo risultato è stato ottenuto dallo spettrometro VIRTIS tra il 13 e il 21 luglio scorsi quando Rosetta si è avvicinata alla cometa da una distanza di 15000 chilometri fino a circa 5000 chilometri. A questa distanza, grazie ad un sensore in grado di raccogliere la luce infrarossa emessa dall’intera cometa, è stato possibile ricavare la temperatura superficiale media che si aggira intorno a -70 gradi centigradi. In particolare, tale misura è avvenuta quando la cometa si trovava a 555 milioni di chilometri dal Sole, oltre tre volte la distanza della Terra dal Sole, il che comporta un valore di radiazione solare circa un decimo di quella che arriva sulla Terra.

Sebbene -70 gradi centigradi sia un valore piuttosto basso per le temperature quali siamo abituati noi sulla Terra, in realtà è non lo è per gli oggetti del nostro Sistema Solare, e in particolare è un valore più alto di quella che ci si aspettava, circa 20-30 gradi centigradi in più del valore di temperatura prevista per un oggetto cometario a una tale distanza se si suppone essere completamente coperta di ghiaccio.

Il risultato è estremamente importante dato che è possibile fare delle previsioni sulla composizione e le proprietà fisiche della superficie della cometa. Le misure della temperatura infatti portano a confermare che la maggior parte della superficie del nucleo cometario sia ricco di polvere.

E l’avventura è appena iniziata.

Le ultime spettacolari immagini di Rosetta le trovate qui.

Link utili:

ESA – Rosetta arrives at comet destination

ESA – Google+

Avamposto42-articolo di Stefano Sandrelli: Un funghetto per Rosetta

Altre informazioni:

ESA – How Rosetta Arrives at a Comet 

19 gennaio 2014 – Sveglia, sveglia, Rosetta!

20 gennaio 2014 Rosetta si è svegliata! 

20 maggio 2014 – Una cometa attiva per Rosetta 

Sabrina 

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La tempesta perfetta. Su Saturno

Correva l’anno 2012 e la sonda Cassini iniziava a buttare l’occhio (si far per dire) sull’estremo nord della superficie di Saturno. Una regione interessantissima, come possiamo vedere. In realtà l’occhio era costituito, per l’occasione, dalla camera a largo campo, quella che ha registrato questa splendida immagine in falsi colori del polo nord del pianeta.

immagine polo nord di Saturno

Crediti: Cassini Imaging Team, SSI, JPL, ESA, NASA

Decisamente enorme per gli standard terrestri, la tempesta che occupa la zona intorno al polo si estende per circa 2000 chilometri di ampiezza. Una tempesta di tutto rispetto, se solo consideriamo che che formazioni nuvolose che ne lambiscono i confini si muovono alla rispettabile velocità di 500 chilometri all’ora (immaginate soltanto la sorpresa a veder nuvole terrestri così veloci).

Dentro la parte esagonale, che ben si vede in figura, ci sono ulteriori vortici atmosferici. Due parole sul cosiddetto “esagono di Saturno” vanno certamente spese. Diciamo subito che non è affatto chiaro come tale peculiare struttura di nuvole si sia potuta creare. Tantomeno non si sa quando l’abbia fatto, e soprattutto come riesca a ritenere questa struttura così regolare, o fino a quando lo potrà fare. E’ stata scoperta durante il passaggio ravvicinato effettuato dalle gloriose Voyager, nel lontano 1980.

Data la quantità di cosa che non si sanno, una cosa è comunque certa: che occuperà la mente e gli sforzi degli studiosi per parecchio tempo… 🙂

Bellissimi il contrasto di colore con la parte più interna degli anelli, visibile in alto a destra nella foto. Un vero tocco d’arte, per una immagine – davvero – da esposizione.

Adattata ed espansa da APOD 6.8.2014

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La Terra, com’era

In nessun posto si era al sicuro, in nessun posto sulla Terra. O almeno, questo è ciò che si aveva qualche miliardo di anni fa, durante l’eone Adeano: il periodo che iniziò circa 4600 milioni di anni fa, terminando poi intorno ai 4000 milioni di anni fa, con il passaggio all’Archeano. Non deve essere stato un periodo facile: il Sistema Solare all’epoca assomigliava più ad una pericolosa galleria di tiro per grandi rocce e pezzi di ghiaccio vaganti, che ad un ambiente tranquillo, potenziale culla per il fiorire di forme viventi.

La pioggia continua di devastazione a cui era soggetto il nostro pianeta, oltre a cancellare impietosamente tutta la storia geologica più antica dalla superficie del nostro pianeta, aveva creato un ambiente desolato, senza ancora alcun segnale della distribuzione delle terre così come noi oggi la conosciamo. Chiaro che in tale situazione era molto difficile per ogni forma di vita puntare alla semplice sopravvivenza, fatta magari eccezione soltanto per i più “intrepidi”, come i batteri capaci di sopravvivere alle temperature più elevate.

HadeanEarth swri 960

Crediti immagine:  Simone Marchi (SwRI), SSERVINASA

La situazione era veramente dura. Perfino gli oceani che si fossero formati in questo periodo, sarebbero evaporati dopo impatti particolarmente pesanti, per poi magari riformarsi di nuovo. Insomma un ambiente inquieto, in perenne mutamento. Decisamente diverso da quello a cui siamo abituati. L’illustrazione che appare su APOD di oggi mostra come sarebbe potuta sembrare la Terra durante questa epoca: notate le diffuse evidenze di impatto sparse su tutta la superficie, e le striature luminose di lava calda, visibili anche di notte. 

Soltanto dopo un miliardo di anni, in un Sistema Solare decisamente più tranquillo, si sarebbe formato il primo supercontinente

Così, in questa maniera turbolenta ed inquieta, una storia iniziava, una storia di un pianeta come tanti, forse, ma che avrebbe ospitato una forma di vita in grado di interrogarsi sul destino ed il significato dello stesso Universo nel quale viveva. Prima, però, c’era bisogno di una lunga preparazione. 

E’ così: dopotutto, la fretta è una invenzione tutta nostra. Non serve, per l’Universo.

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