Sono stato tre giorni al Meeting di Rimini, da lunedì a mercoledì. Tre giorni scarsi, a dire la verità. Però sufficienti. Decisamente sufficienti per riempire gli occhi e il cuore (gli occhi, e quindi il cuore) di cose belle.

Di cose che fanno respirare.

Non so come fare – ora vediamo – ma soprattutto nel parlare di questo vorrei evitare la ricerca delle frasi belle, scansare per una volta la tentazione della  retorica, la costruzione edificante, la levigatezza del dettato. Non mi soddisferebbe. Non vorrei cadere in questo: “dimostrare” e convincere che il Meeting è una bella cosa, una bella iniziativa, che vale la pena andarci. Non mi interessa particolarmente, ora. Nemmeno mi interessa fare una esposizione sistematica ed ordinata di quanto ho visto (una piccola parte di quanto è accaduto e sta ancora accadendo): preferisco dare due schizzi di colore, cercare una immagine, una sensazione. Parlare del mio meeting. Altrove si troveranno certo tutti i debiti resoconti, più meditati e meno soggettivi.

Piscine

Un momento di pausa tra un incontro ed una mostra, alle piscine

Ulteriore premessa. Non ho voglia, non ho tempo ed interesse, per argomentare con chi ha un suo pensiero bello e fatto del Meeting senza esserci andato. Vorrete perdonare la mia vena blandamente intollerante, ma mi sembra proprio troppo, lo dico dolcemente ed amichevolmente, pensare di poter derivare un pensiero maturo sul Meeting dalla lettura esclusiva del proprio giornale, l’ascolto del telegiornale preferito. Non mi pare un approccio conoscitivo adeguato all’oggetto.

Ora dirai che bisogna starci, eh. Diranno subito “i miei piccoli lettori” Sì lo dico, bisogna starci. 

Andare a vedere. Respirare l’aria.

Sopratutto guardare. Guardare i ragazzi e le ragazze che lo costruiscono, lo lavorano, lo faticano. 

Che poi, nel dubbio, per me è più facile e piacevole osservare le seconde, tendenzialmente. Ma c’è qualcosa di più, della eventuale attrattiva fisica (cosa di cui a volte si dubita, in fondo).

Ma guarda. Fosse solo questo (non è poco, per carità), potremmo restare a casa. Magari fare un giro al parco, o in centro (meglio, se si vuole contrarre gente). No, no. Altro.

Poi uno è così, in realtà uno non decide niente. Pensa di pianificare la sua vita, tutto intento ai suoi calcoli, quando invece al massimo fa ridere i polli. O meglio, fa sorridere gli angeli, che sanno come davvero va il mondo.

Grazie al cielo non si può pianificare nulla.

Tanto meglio. Così uno è guidato, se si lascia guidare, o se si distrae e si perde nei suoi schemi in maniera appena sufficiente a far sì che molli la presa. Pure per sbaglio, pure per un istante, pure per una sospensione momentanea del ragionare. Come quando prendi una cunetta in macchina, la prendi troppo veloce e per un momento lo stomaco ti arriva in gola.

Così succede che i contrasti acuiscano lo stupore. Se parti basso poi l’altezza la percepisci di più. 

Infatti parto basso. Lunedì a pranzo, il momento peggiore è proprio l’arrivo. La selva dei dubbi che premono il cervello. Ma perché sono qui: ma tanto io il meeting lo conosco ormai. Perché stare fuori casa anche solo tre giorni, adesso. Adesso che il mio lavoro è in famiglia, lì c’è da esserci, c’è da fare: lo sappiamo. E questi amici ancora  – per certi versi – nuovi, quanto davvero posso aprirmi con loro? Devo rimanere chiuso, con tutta la fatica che comporta? Non mi va di fare fatica. Non mi va. Voglio andare a casa.

Ecco, lo ammetto. Vorrei stare a casa.

Perché sono venuto? Qual era la scommessa? Ora non la vedo.

La mostra di Millet inizia ad addolcire qualcosa nel cuore indurito, fisso nel suo schema, determinato nel suo proposito di contaminazione appena parziale – finestre sottili attraverso cui passa poca luce, giusto il minimo indispensabile. Però qui ti fregano perché passa il colore. Allora su allarga il cuore, e entra anche Van Gogh di soppiatto, Van Gogh che – scopro – copiava Millet e lo adorava. E la guida appassionata ti infetta, ti infetta della sua passione, senza avvertirti (il tuo cinismo abituale non funziona come vaccino, perde colpi). E quei quadri che illustrano così soavemente il valore profondo del lavoro umile: sono un inno nascosto alla vita. Questo non vale. E’ stupendamente disdicevole.

Bella signora che mi lusinghi citando a memoria le mie canzoni

il tuo divano è troppo stretto perché io mi faccia delle illusioni

Qui tutto ti lusinga, se appena  ti lasci tentare, magari il “divano” non è sempre così stretto come canta Fossati in Chi guarda Genova (che posso fare, è entrato di forza, stava passando nelle cuffie mentre scrivevo, poi mi piace troppo questo verso). Così ancora intontito per tutta l’attività intorno, tu che ancora trattieni qualcosa di casa e non sai bene se sei qui per piena ragione, se puoi lasciar correre il cuore: non lo sai ancora. Sei solo un po’ più colorato per colpa di Millet. Appena uno schizzo di colore che stempera il tuo bianco e nero dell’ultimo periodo. E vabbé.

Con questo tiepido colore addosso, vai al salone dove c’è l’incontro con Aleksandr Filolenko (ma chi è, questo tipo? Che ci potrà mai dire, in fondo, l’ennesimo intervento filosofico?). Diciamolo pure, ci vai solo per fare la brava persona ragionevole, quella che va all’incontro principale della giornata, quello che spiega il titolo del meeting. Senza altra ragione che questa, che poi anche gli amici tuoi ci vanno.

Accidenti, quanto uno non capisce fino a che non ci sbatte il naso.

Arriva questo Filonenko: sì sembra ben piazzato, simpatico d’accordo. Un volto curioso, serio e divertito insieme. La Guarnieri lo presenta. Però, fisico nucleare e filosofo. Mica male. Ma anche questo stupore rischia di smorzarsi. Inizia a parlare dell’Ucraina e tu pensi certo bel tema, molto attuale, ci mancherebbe, anche doveroso, etc… ma pensi pure – tra te e te – che allora puoi anche mezzo ascoltare e mezzo assopirti. Invece stai per sentire una delle cose più significative degli ultimi tempi.

Un momento. Che vuol dire significative

Che per te significano, che mettono in movimento quelle corde che fanno respirare, che muovono il cuore indurito. Questo è significativo, il resto chissenefrega. Non c’è tempo per il resto, il resto ha stufato. Quello che intenerisce, commuove, stupisce: questo mi interessa. Il resto può occuparsene chi non si ricorda che non è immortale. Che deve scegliere. Che un giorno il suo essere fisicamente qui si dissolverà. Chi non si ricorda di dover morire può evitare di mettere le cose in ordine di priorità.

Che vita, però. Che vita già morta senza la morte. Poveretto.

Ma torniamo al punto. Il punto è che la gioia sta facendo un giro lungo e sta per arrivarti addosso, ospite imprevista, dama inattesa. L’intervento di Filonenko, iniziato apparentemente sottile e focalizzato, ora si allarga a ventaglio, assume diversi colori e riempie il campo come la ruota di un pavone. Cavolo, come si allarga. Invece di una frequenza singola si amplia a spettro e inizia a vibrare su diversi autostati, su mille colori contigui. Non capisco ancora adesso come sia stato possibile. Parla della situazione politica dell’Ucraina e improvvisamente – senza avermi preliminarmente avvisato – parla della situazione spirituale ed esistenziale dell’uomo, della mia, cioè parla dell’unica cosa che mi interessa, in pratica. E mi dà una prospettiva. Rimango sbigottito. Ad un certo punto – ecco – sta parlando a me della mia personale situazione psicologica, delle mie fatiche e dei miei disagi  interiori e di come affrontarli. Niente altro mi interessa di più. 

Così allargato il parlare procede e mi ha investito e sono dentro, la stanchezza passa e le antenne si allineano, cerco di cogliere.

Sono così rapito che mi incanto ad osservare l’interprete, la traduttrice. Mi appago del gioco di sguardi e di intesa con Filonenko, osservo come lei esiti, riprenda, scivoli sulla frase, si metta di taglio quando è perplessa, si sistemi i capelli mentre pensa. Poi magari ride e rimane colpita lei stessa, si trattiene e poi si lascia afferrare dalla frase, che le addolcisce il viso, le illumina gli occhi. La sua femminilità inconsapevole dona un tocco di morbidezza ulteriore alle parole, già morbide ed accoglienti. Che poi lei,  forse le parole già le sa, ma la parola la colpisce lo stesso, è evidente, e attraverso di lei, attraverso il suo viso, il suo corpo, l’enfasi con cui restituisce il senso, colpiscono me. 

Mi precipito ad estrarre il tablet dalla borsa e cerco di trattenere qualcosa, se non le parole esatte, una imperfetta ricostruzione, un’ombra che però trattiene la bellezza.

Spesso chiediamo a Dio di essere invulnerabili, dovremmo chiedere di essere fragili, vulnerabili. La Sua potenza si manifesta nella debolezza. È quello che hanno scoperto in Ucraina questa estate. Occorre sconfiggere la paura. La prima definizione della liberta è libertà dalla paura. Chiedere di essere vulnerabili. Il coraggio è una virtù cristiana. Ma è il coraggio della debolezza, della mendicanza. Della vulnerabilità. Possiamo fare opposizione alle circostanze, oppure possiamo cedere, ma san Paolo propone una terza via, il vantarsi delle tribolazioni.. Sapere che in ogni tempesta c’è Cristo, indica la possibilità di vittoria sulla paura. Ed è la pazienza. Attraverso questo cammino la vulnerabilità si trasforma in speranza, ma la cosa più importante è la pazienza. Con la pazienza possiamo trasformare la violenza in pace.La pace di Cristo, che possiamo chiedere essendo disponibili a questo lavoro sulla pazienza…

La chiusa è memorabile.

Il primo compito dell’uomo della periferia è  tornare ad educarsi alla compassione. Ed è educarsi alla capacità di far festa. 

In fondo l’unico problema è la gioia, e l’unica cosa di cui val la pena parlare è la compassione (per questo è bella la poesia, perché ci educa alla compassione). Non chi ha ragione, ma quello che ci serve per vivere. La ragione e il torto sono così antichi, così pesanti, così “uno-punto-zero” che non mette conto soffermarci più. Non in un tentativo di sintesi poetica, perlomeno. Un tentativo, imperfettissimo e zoppicante. Ma poetico nel senso di parlare di ciò che avviene nel cuore.  Di ciò che non divide e non definisce.

Così abbraccio vuol dire gioia, in Ukraino, dice Filolnnko. 

 

E tutta l’attualità pesante - se acquista una chiave interpretativa - non dico che scompare, non si censura nulla d’accordo, ma è come levarsi un peso dal cuore, questo sì. Basta un volto, basta un minuto e poco più. Sì, rimane tutto, ma io torno a respirare un po’ di più. Poi, fate voi. A me questo abbraccio tra Julian Carron e Aleksandr Filonenko mi conforta tanto, mi dice tanto di come posso fidarmi della realtà. Ecco, un abbraccio e non tante parole. O magari anche parole, ma come quelle di Filonenko, parole speciali che sono già un abbraccio. Parole con della carità inclusa dentro, in dosi elevate.

O le parole di Carron, e soprattutto il volto. Che uno dice, perbacco ma non è tutto marcio qui. Si può sperare, si può ancora nutrire entusiasmo, positività. 

Così ci sarebbe tanto da raccontare (e lo potremo pur fare), un turbinìo di cose bellissime e di incontri, persone e “momenti di persone” (penso appena all’incontro con il poeta Davide Rondoni, con il filosofo Massimo Borghesi… e poi Jannacci, Guareschi, Peguy, visti con partecipazione e amore) - ma in fondo, mi viene un sospetto: in fondo, è come se tutto sia una conseguenza. Che derivi tutto dall’abbraccio, da quell'abbraccio di mercoledì. Che questo abbia generato tutto, anche ciò che è successo prima. Che questo sia il fondamento, o un indizio del fondamento di tutto, su cui tutto può fiorire.

Anche il ritrovarsi la sera, al tavolo del ristorante, un bicchierino e gli amici vecchi e nuovi, e ora ci si scambia opinioni e idee senza barriere, ora finalmente c’è appena l’umano che vien fuori. E viene fuori anche con persone appena intraviste, con le quali parli come se conoscessi da sempre. L'umano. Quello che sempre cerchi, che sempre fa star bene.

Questo abbraccio. Il quale deriva da un’altra cosa, non è cosa che ci possiamo inventare con la nostra buona volontà. C’è appena una sovrabbondanza da riconoscere.

Grazie al cielo.

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