Mentre sto per uscire dal casello, noto la fila dall’altro lato. Come a volte accade all’ingresso Telepass, una macchina ha problemi ed ha bloccato la fila. Un coro di clacson splendidamente  strutturato e denso, armoniosamente compatto, arriva spavaldo e perentorio alle mie orecchie. Proprio mentre sarebbero occupate ad ascoltare la splendida versione di Blood of Eden di Peter Gabriel interpretata in modo attrattivamente personale da Regina Spektor, nel disco – ruvido, imperfetto, tenero, bellissimo – And I’ll scratch yours, .

Ebbene, per qualche motivo il contrasto così eclatante tra lo struggimento per la ricerca di una profonda armonia – che è poi l’oggetto della canzone – e la rabbia veicolata dalla nota strutturata dei clacson sovrapposti mi colpisce, come evidenza solare. Mi fa balzar fuori da quella sorta di fastidioso inganno in cui abito per la maggior parte del tempo. Quello che mi dice che tutti sono felici e soddisfatti a parte me. Che solo io ho momenti di frustrazione, insoddisfazione, di misteriosa tensione, di dubbi esistenziali, laddove quasi tutti (ammetto solo piccole eccezioni) continuano tranquilli e paciosi nel lavoro dell’essere appagati dal loro stile di vita, senza più perplessità o problemi, salvo palesi avvenimenti esterni che arrivino a perturbare tale stato (lavoro, salute, etc).

Walking on water 209779 640

Siamo come bimbi in cammino, dopotutto…

Eh già, perché qualcosa non mi torna. Stavolta, lo devo ammettere. Se siamo tutti contenti e soddisfatti (a parte me, sempre in cerca di qualcosa che a volte non so neanche definire) come mai ci arrabbiamo tanto facilmente?

I saw the darkness in my heart

I saw the signs of my undoing

Forse non sono così solo nella mia condizione. E pensarlo mi fa bene. Non sarà – mi dico – che già il fatto di ammettere che uno possa stare così così, riconoscerlo senza drammi, già questo aiuta a vivere meglio? Se non essere sempre felici non è un problema, magari ti rilassi e intanto questo fa bene.

Siamo d’accordo, poi lo struggimento di certe parole non ti aiuta, nell’acquietarti. Regina le canta in maniera molto diversa da Peter, quelle parole, ma attraverso la sua ugola acquistano una limpidezza nuova, una evidenza quasi lancinante…

In the blood of Eden lie the woman and the man

With the man in the woman and the woman in the man

In the blood of Eden lie the woman and the man

We wanted the the union oh the union of the woman, the woman and the man

E così lo struggimento rimane e avverto anzi uno scarto formidabile tra quello che avviene intorno e quello che ora Regina sta cantando. E non posso farne a meno, mi domando come mai. Chi dei due stia sbagliando. O quelli in fila al casello – fatta da tanta gente come me – o lei che canta di una armonia così dolce, che sembra quasi una armonia perduta. Irraggiungibile, forse. Che non riusciamo più ad afferrare… 

My grip is surely slipping

I think I’ve lost my hold

Yes, I think I’ve lost my hold

I cannot get insurance anymore

Allora? Allora mi accorgo semplicemente che non riesco a tenere insieme le cose, non riesco a salvarne una o l’altra. Non riesco a decidere chi ha ragione, e chi invece me la sta raccontando. 

A meno che …

… a meno che non possa riuscire a salvarle entrambe. A salvare l’impazienza dell’uomo, la mia impazienza, guardandola con un nuovo, rinnovato moto di simpatia. Facendomi prendere dall’affetto per l’umano e per tutte le sue manifestazioni, che poi – in fondo in fondo – sono proprio le mie. Ecco, finalmente. Perlomeno capisco quello che ci vuole. Lo sguardo affettuoso sopra tutte le tensioni e le imperfezioni, che sono completamente le mie.

Cioè, invece di tentare di essere al di sopra di tutte queste cose – tipo, le gente che suona il clacson e  la gente impaziente e incoerente e che va avanti piena di errori e difetti… riconoscere di esserci dentro, di esserci dentro fino al collo. E dunque, intanto, smettere di agitarsi per uscirne fuori. E iniziare, invece,  a guardare questa cosa – questa dolente fragile coloratissima umanità che ho dentro ed intorno – con calore e con simpatia. Con affetto.

Oggi, più che mai forse nella storia, la certezza di cui l’uomo ha bisogno non è appena una comprensione intellettuale, dogmatica delle cose, ma (…) una conoscenza affettiva della realtà (Davide Prosperi, in “Non sono quando non ci sei”, Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di CL)

Perché l’umano è veramente una cosa grande, una cosa meravigliosa. Le nostre imperfezioni sono gemme. Sono gemme perché siamo voluti bene, che è l’unica ipotesi ragionevole, che è l’unica cosa che conta. Perfino l’incoerenza può sfavillare, se siamo voluti bene.

Perché poi, appena me ne accorgo, anche il dolore per questa misteriosa rottura di simmetria, penetra nella canzone e ne informa di sé la melodia, le parole

Is that a dagger or a crucifix I see

You hold so tightly in your hand

And all the while the distance grows between you and me

I do not understand

Che a volte la distanza cresca tra te e me, nonostante tutto lo sforzo che noi persone civili possiamo produrre, personalmente lo prendo come la sconfitta esistenziale di Cartesio (mi perdoni l’esimio filosofo).

Battuto, non serve nemmeno la moviola in campo: è plateale, la sconfitta.

Cioè che basti indagare e quantificare a sufficienza le cose (immergere tutto in un bel sistema di assi cartesiani, appunto) per fare chiarezza, sistemare le cose come se fosse semplicemente un problema di sapere di più (la sottile tentazione della manualistica, potremmo dire). Essere analitici, scientifici. Mentre invece di ottenere chiarezza – paradossalmente – va a finire che le incomprensioni crescono, le distanze esplodono. Mi ricorda qualcosa come la Torre di Babele. E quello che è peggio, cadiamo nell’errore di ridurre questo a fatto privato, a chiederci cosa non va…

Un grandissimo errore della cultura del nostro tempo, fonte di un notevole aggravio della sofferenza individuale, consiste proprio nella privatizzazione delle problematiche esistenziali, nella loro riduzione psicologistica a fatti privati appunto, privati del loro sfondo umano, che è sempre universale, ampio, comune e condiviso, come il tessuto delle nostri carni, fatto del filo delle medesime sostanze di cui sono fatti la terra, i cieli, e le stelle. (Marco Guzzi, Lettera ai miei figli sulla bellezza del matrimonio)

Smarrito lo sfondo globale, è ancora più facile perdere chiarezza… 

I do not understand…

Così il non capisco guadagna strada e la mancanza di una connessione emotiva lacera dolorosamente ogni tentativo di ricomposizione. Il non capisco cerca una soddisfazione razionale quando una strada per la risposta viene da altro, sospetto, da qualcosa di inedito, come una nuova tenerezza.  Più che necessaria in questo tempo.

E’ un’opzione, in ultima analisi. Un’opzione del cuore. Da questo dipende la mia percezione, di una violenza o una tenerezza. Intorno a me, sul tuo volto. Nelle tue stesse mani. Se sei qui per farmi del male o per amare. Per una lista di torti e ragioni che ultimamente mi inchioda, o per una tenerezza. Dipende ciò che vedo, da come lo vedo, perché delle mille possibili rifrangenze interpretative della realtà, mi riviene addosso quella che risponde al mio atteggiamento del cuore.

L’osservatore non è mai neutro, è sempre coinvolto. La fisica l’ha scoperto relativamente da poco, la saggezza umana lo sa da sempre.

Cosa tieni in mano: una lama, o un crocifisso. O meglio, cosa vedo (I see) nella tua mano?

Is that a dagger of a crucifix I see

E guardare con affetto allo stato di devastazione emotiva che a volte sento dentro di me, iniziare a guardare proprio con tanta tenerezza allo iato tra quello che sono e quello che correi essere, è veramente una conversione piacevole e necessaria, un lavoro che rende di nuovo la vita interessante.

Sì, è un lavoro, che può essere lungo, che chiede pazienza. Che chiede di riconoscere ed accogliere la propria ferita, risalendo – meglio se con un aiuto esterno, psicologico, spirituale – al punto in cui il dolore è più forte. Al punto in cui siamo stati davvero feriti. Scavando pazientemente fino a ritrovare quel punto infiammato, riconoscerlo, accoglierlo, e avviare un risanamento. Mettersi in cammino.

La vera rivoluzione è apprendere la tenerezza (prima di tutto verso noi stessi).

Così torno a giocare e mi piace la musica e Regina canta di qualcosa di cui finalmente posso concedermi la tenerezza, la tenerezza che ogni momento potenzialmente porta con se, se solo accetto di essere in cammino (troppo rivoluzionario questo pensiero, dovrò accontenterai di capirlo piano piano, semmai). E così riesco a salvare tutto quello che accade, la canzone e l’accordi di clacson multipli.

Che poi – ve lo posso confidare – per un istante hanno suonato quasi in armonia con le note della canzone, creando un effetto incredibile ed inaspettato. Davvero, ve lo assicuro: come se melodia e rumore si fossero accordati in un unico momento di perfetta consonanza.

Vorrà pur dire qualcosa.

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