“Per uscire dalla crisi non basta una correzione alla finanza” dice un interessante articolo apparso sul sito PiccoleNote.it. E’ piuttosto emblematico ai miei occhi, perché già stabilisce un ponte, un collegamento. Una ipotesi di relazione. Con qualcosa che vive al di fuori dei meccanismi economici-finanziari.

Già stabilisce, in poche parole, come l’universo dell’economia non sia chiuso in se stesso ed in sé completo, autoreferenziale. Che in esso trovi le regole e che possa interamente giocare la partita per il risanamento senza scomodare altri ambiti, non è più dato per scontato.

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C’è la percezione ormai diffusa che questo non sia vero. Che cioènon basti mettere insieme – magari con accortezza e bravura – dati dalle pagine Affari & Finanza dei vari giornali, per far tornare i conti. Che framework del tutto distanti possano giocare un ruolo. Anzi, che possano essere (ri)scoperti come attori indispensabili e fermenti ineludibili, per questo compito.

E non è banale, tale acquisizione. Almeno secondo quanto vedo, quanto sento.

E’ una cosa dell’aria.

E’ questione dell’aria che respiri, non so se hai presente. Tu non è che devi argomentare qualcosa, decidere qualcosa di particolare. Ragionare su un insieme di problemi, di relazioni, di priorità. C’è qualcosa che respiri nell’aria, che informa le cose e i rapporti tra le persone, suggerisce in maniera sottilmente ipnotica una scala di valori. Qualcosa che cambia nel tempo, e magari nemmeno te ne accorgi. Non te ne accorgi e segui. Perché seguire il flusso è la cosa che ti fa fare meno fatica. Segui pensando di essere originale, addirittura. Invece immetti solo una tua debole modulazione su un segnale portante, che viene fuori da te, e tende prepotentemente a pilotarti. 

E’ una tendenza messianica deviata, se dovessi proprio dire cos’è. Un anelito di assoluto, che per una tensione di impazienza, cerca di declinarsi in una modalità interamente conosciuta e conoscibile. Interamente razionalistica. L’inganno può durare un tempo limitato, comunque. Cosicché sottilmente sfuma, ad un certo punto, ed ecco che subentra un’altra cosa: sorge un altro miraggio, un altro orizzonte, un’altra fraintesa percezione di salvezza.

Se affondo la memoria del mio poco più di mezzo secolo di vita, arrivo fino agli anni ’60 e ’70. L’aria era allora  davvero satura di questa vibrante aspettativa di rivoluzione. Era quello il nuovo, era quello che sembrava rilucere di promesse. Le cose che non andavano erano semplicemente contro la rivoluzione. Era difficile scappare da questo sistema di pensiero, che innervava profondamente la cultura la scuola, i libri di testo (anche più della politica realmente esperita). 

Poi, è cambiato. Il vento è cambiato. La tanto attesa rivoluzione del popolo – sanguinosamente smentita dagli eventi – ha smesso di essere la salvezza per gli uomini colti e gli intellettuali, ed è rimasta opzione valida (nella sua forma originale) appena per qualche nostalgico affezionato. Comunque sia, ormai fuori dal mainstream. 

Un altro idolo si affacciava ormai alla coscienza collettiva.

E ad un tratto era lei, l’economia. Era il reale. Il resto erano orpelli, sovrastrutture. L’economia era il nucleo. Era lì dove avvenivano le cose: il resto erano – appena – bei discorsi. 

E se l’economia si ammala, il problema in questo quadro è del tutto economico. E’ qualcosa che rivela una malattia all’interno e dunque – secondo tale logica – si deve poter risolvere parimenti dall’interno. Muovendo priorità, definendo procedure, architettando vie di soluzioni. Senza andare al di fuori, espandere. Rendendo il modello inossidabile e completamente blindato all’imprevisto.

Dice Luigi Giussani che “l’attesa dell’imprevisto è la nota dominante di tutta la storia della coscienza umana.” Se questo è vero, la rimozione della categoria di imprevisto (in questo caso, dalle analisi politiche ed economiche) – come ogni rimozione psicologica – non è senza conseguenze.

Notate come, fino alla fine, l’idolo tende comunque ad autoorganizzarsi. Un tempo, davanti alle rivoluzioni finite nel sangue, si diceva che erano state rivoluzioni sbagliate. Ovvero non si cercava al di fuori del paradigma. Semplicemente, si diceva che il paradigma era stato applicato male, era stato tradito. 

Con la piccola imbarazzante evidenza (per uno che appena ragioni) che il paradigma diventa così totalmente non falsificabile. Può resistere a qualsiasi evidenza storica. A qualsiasi devastazione, qualsiasi quantità di sangue versato, di libertà tolte, di diritti umani violati. 

Questo gioco si realizza anche per l’economia, come possiamo facilmente vedere. Persiste la tentazione di cercare all’interno del gioco dell’economia stessa gli strumenti correttivi che comunque, per convergenza universale, si rendono necessari.  

L’articolo citato in apertura è interessante perché denuncia una industria malata di finanziarizzazione. Ancora più interessante la nota a margine, dove leggo 

… resta il dubbio se sia possibile che la risposta a questa situazione globale possa venire da un ambito, quello economico, che ha manifestato  in questi anni tutti i suoi limiti strutturali, che tra l’altro hanno impedito a quasi tutti gli “esperti” del settore di allarmare il mondo sui rischi prodotti dalle derive economiche degli anni pre-crisi (e oltre).

 Qui la necessità di allargare lo sguardo viene introdotta nel discorso – sia pure a livello di ipotesi –  come elemento cardine. 

Non c’è nulla di sbagliato nell’economia (come nell’anelito all’uguaglianza, peraltro). E’ che vanno trattati, azzardo, non dimenticando altri fattori. Altrimenti diventano parzialità impazzite di un tutto la cui organicità corre il grave rischio di disperdersi sempre di più.

Leggo dal libro di Marco Guzzi, “La nuova umanità”

Dovremmo comprendere che in realtà è la carenza di idee adeguate alla sfide del tempo che rende, per esempio, la nostra Europa cos’ stagnate e depressa anche da un punto di vista economico. La fecondità e l’autentico sviluppo economico, infatti, quello cioè che non distrugge ma arricchisce l’umanità corrispondendo a tutta la complessità dei suoi bisogni, dipende e discende dalla vitalità inventiva e creativa dei popoli, non la produce

Dunque bisogna guardare più alto. Unificare e non parzializzare. Ricongiungere e non segmentare, dividere e distinguere in una fuga infinita di saperi impazziti nella loro stessa parzialità. L’economia da sola non si spiega, non si comprende: rimanda ad altro. 

C’è un uomo nuovo da creare, una nuova umanità, appunto.

Siamo appena sulla soglia. Eppure da qui, dal formarsi di persone con questa consapevolezza, può forse (ri)partire tutto…  

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