Blog di Marco Castellani

Mese: Marzo 2015 Page 1 of 2

La magia di un’eclisse

Tutti insieme a guardare in alto. Ed è ancora uno spettacolo, l’eclisse. Siamo sofisticati  e pieni di gadget tecnologici, eppure – per fortuna – rimane sempre qualcosa, rimane sempre una occasione di stupirsi, che il cuore attende. Soprattutto, rimane il brivido di ritrovarsi fruitori di uno spettacolo celeste, di ritornare al dato originale, alla meraviglia per l’avventura del cielo.

Lo sappiamo: uno non è che ci pensa molto, al cielo. E’ vero, ha una immensità sopra la testa, una cosa che a ragionarci un poco, è davvero da capogiro: distese sterminate di stelle e galassie, pianeti e poi quasar e buchi neri, e ogni altra possibile occasione di meraviglia.

Ma è normale, non ci pensiamo.

Abbiamo tutti le nostre cose da fare, le nostre urgenze, le nostre priorità. Abbiamo tutti il pensiero “appena messa a posto questa o quella situazione, allora sì che mi potrò rilassare…”, di quello che girano sempre in background,  perché il nostro ego ragiona così, fa la cosa che gli è propria: rimanda eternamente.

Allora riprendersi la meraviglia di ogni giorno – delle cose piccole e grandi – può essere una delle strategie con cui intendiamo reclamiamo di nuovo il posto di guida nella nostra vita. E diciamo a noi e al mondo che la vita è adesso, come recita il titolo di una struggente canzone di Baglioni. Permettersi lo stupore di una eclissi è appena questo, probabilmente.

L'eclisse... al suo meglio (Foto di Massimo Dall'Ora)

L’eclisse… al suo meglio (Foto di Massimo Dall’Ora)

Così è confortante che il cielo, con il suo antichissimo spettacolo, sorpassa tutte le nostre difese e le nostre sofisticazioni. Grandi e piccoli, non c’è differenza. Quel giorno il piccolo bimbo dell’asilo e il professionista di mezza età, l’atleta e lo scrittore, l’infermiere e chi è in cerca di lavoro, tutti si sono sentiti coinvolti – almeno per un momento – dallo spettacolo che il cielo aveva organizzato per loro.

Tutti:  anche chi, non avendo strumenti per guardare il cielo con sicurezza, lo scorso venerdì mattina ha giustamente evitato di mettere a rischio la retina. Tutti accomunati almeno da un friccico di curiosità. Tutti bene o male stupiti che il cielo si fosse per una volta preso il ruolo di protagonista, entrando a gamba tesa tra le storie e le vicende umane.

Che poi sono cento anni che il Sole non si oscura il giorno dell’Equinozio di Primavera, mica ne potremo vedere tante di eclissi così…

Io venerdì mi trovavo per lavoro nella sede di Tor Vergata dell’ASI Science Data Center, e ho così potuto vedere due spettacoli insieme. Uno, quello dell’eclisse (grazie ad un previdente collaboratore che aveva portato gli apposito occhialetti, utile residuo di una precedente eclissi). L’altro, parimenti interessante, di tanti colleghi  – giovani e meno giovani – attraversati da un entusiasmo genuino e delicatissimo, da un desiderio di vedere e di partecipare che nessun manuale teorico sui corpi celesti o nessun livello di sofisticata erudizione potrà mai soddisfare pienamente.

Per questo non mi entusiasmano certe letture forzatamente disincantate, che mi è capitato di incontrare sul web. Non perché non abbiano anche delle ragioni, ma perché secondo me non colgono il punto. Il punto è proprio questo, che rischiamo di perdere un’altra occasione per ragionare sul cielo e sulle sue meraviglie.

Perché al di là di tutto, è questo il vero pregio di un fenomeno come l’eclisse. Che ci fa capire che il cielo c’entra con le vicende umane. Per un attimo – per un momento appena – ma lo fa: ci spiazza, ci toglie dal pigro e placido pensiero che tutto ciò che conta è ad altezza naso (o più in basso). Ci rimanda a qualcosa di immensamente più grande di noi, come sono  appunto i corpi celesti.

Mi viene in mente un verso della Bibbia, che dice

“chiamato a guardare in alto / nessuno sa sollevare lo sguardo”  (Osea 11)

In fondo anche un’eclissi è come un richiamo a guardare in alto. Ad uscire dal perimetro delle cose usuali, ad introdurre possibilità ed ingredienti nuovi nella miscela usuale che ci prepariamo, a riconsiderare la possibilità di un imprevisto, nelle nostre vite troppo programmate, e per questo -alle volte – così misteriosamente noiose a noi stessi.

Diceva Montale in Prima del viaggio che

 un imprevisto

è la sola speranza. Ma mi dicono

che è una stoltezza dirselo.

Per me l’eclissi è questo. Per quanto accuratamente anticipata, accade comunque come un imprevisto che smuove la nostra vita. E forse ci suggerisce che gli stolti sono loro, quelli che pensano l’imprevisto come una ultima stoltezza.

Perché sono loro, alla fine, che si perdono qualcosa…

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Un flirt cosmico

Aurora fotografata da Warren Justice, Whirlpool Lake, Riding Mountain National Park, Manitoba, Canada.
Strumentazione: Canon 5D 24 mm lenti fl.4.. Fonte Space Weather.com

Quante volte abbiamo osservato le splendide immagini di aurora polari? Qualcuno di noi e’ stato pure fortunato a vederle e a fotografarle.

Non avvengono solo sulla Terra. Anche su altri pianeti si formano le aurore. Su Giove, per esempio.

Hubble Space Telescope cattura questa aurora nel marzo 2007 sul’emisfero nord di Giove. Crediti: NASA/JPL/HST

Tra il 17 e il 21 marzo 2007 l’Hubble Space Telescope ne ha catturata una di grandiosa mentre stava seguendo il fly by della sonda New Horizons (avvenuto il 28 febbraio), quella sonda che quest’anno raggiungerà la sua meta finale, il sistema Plutone-Caronte. L’aurora, catturata dalla camera ultravioletta a bordo di HST denominata Advanced Camera for Survey, aveva un’estensione di centinaia di chilometri e si trovava a circa 250 chilometri al di sopra di quella che possiamo definire “superficie” del pianeta (anche se non esiste una vera e propria linea di demarcazione tra il gas dell’atmosfera e la superficie, trattandosi di un pianeta gassoso). L’aurora viene prodotta da particelle elettricamente cariche emesse da Sole vengono catturate dal campo magnetico del pianeta e interagiscono con gli atomi dell’alta atmosfera gioviana attraverso un processo del tutto simile a quello che si osserva nelle aurore terrestri, tranne per il fatto che il campo magnetico gioviano e’ di parecchi ordini di grandezza più intenso di quello terrestre.

L’aurora nell’emisfero sud del pianeta Giove in luce ultravioletta catturata dalla Advanced Camera for Survey a bordo di HST. Crediti: NASA/JPL/HST

Ma quanto più intenso?

Questa interazione tra le particelle emesse dal Sole e quelle dell’atmosfera gioviana producono delle emissioni estremamente intense. Le immagini nell’ultravioletto permettono di osservarle (ricordiamo che e’ una banda invisibile ad occhio umano). Tipicamente, raggiungono una luminosità 10-100 volte maggiore di quella registrata nelle regioni polari terrestri.

Oltre a Giove, anche su Urano sono state osservate delle aurore. Facciamo un ulteriore balzo, e andiamo a vedere che cosa succede li’.

Il primo tentativo da molto vicino per osservare le aurore su Urano si ebbe durante il flyby della sonda Voyager 2, nel 1986. Urano e’ estremamente lontano, oltre 4 miliardi di chilometri di distanza dalla Terra. Dal 1986 al 2011 Urano venne un pochino dimenticato, o meglio, non si ebbe piu’ loccasione di studiarne la sua magnetosfera con telescopi da terra e dallo spazio. Fino a quando, appunto, HST punto’ il suo potente occhio.

Si tratta di un mondo lontano ma estremamente peculiare per quanto riguarda l’orientazione del suo asse di rotazione. Mentre gli altri pianeti sono più o meno simili a delle trottole in rotazione attorno al Sole, Urano si può pensare a una trottola che e’ stata colpita su un fianco ma che mantiene ancora la sua rotazione.

Che aurore ci sono su Urano? Un pochino peculiari, come lo e’ il pianeta. Sono di breve durata, circa due minuti, e sottoforma di deboli puntini luminosi. Sulla Terra le aurore cambiano posizione e fanno cambiare di colore il nostro cielo, dal verde al viola per molte ore, a seconda della quantità di energia rilasciata durante le interrazioni tra le particelle.

Un confronto tra due immagini dell’aurora su Urano che i ricercatori hanno catturato grazie al Telescopio spaziale Hubble nel novembre 2011. Crediti: Laurent Lamy/HST/NASA.

Si fa l’ipotesi che l’aspetto delle aurore su Urano sia legato alla singolarità nella rotazione del pianeta e alle caratteristiche del suo asse magnetico. L’asse del campo magnetico e’ non solo spostato dal centro del pianeta, ma anche inclinato di 60 gradi dall’asse di rotazione, un’inclinazione estrema se confrontata con gli 11 gradi di differenza nel caso terrestre. Probabilmente, il campo magnetico di Urano e’ generato da un oceano salato al suo interno. Non si spiegherebbe altrimenti l’asse magnetico fuori centro.

Non solo. Le aurore catturate nel 2011 sono differenti da quelle osservate dal Voyager 2.Quando la sonda spaziale compì il suo flyby col pianeta, Urano era vicino al suo solstizio e il suo asse di rotazione era perciò puntato verso il Sole. In tale configurazione, l’asse magnetico formava un angolo molto grande con la direzione del flusso del vento solare, dando vita a una magnetosfera simile a quella della Terra, sebbene molto più dinamica. Grazie a questa configurazione legata al solstizio, le aurore su Urano durarono molto di più rispetto a quelle osservate da HST, e vennero osservate principalmente nella parte buia, o notturna, del pianeta, proprio come avviene sulla Terra.

Ora, pero’, torniamo sulla Terra. Vorrei raccontare qui una storia legata all’aurora. Non e’ proprio vero. Non saro’ io a raccontarla. E’ una storia che dura tre minuti. Ed e’ una storia che ha del romantico in se’. L’incontro tra Sole e Terra.

Ve la racconta Alessandra Zaino (che attualmente collabora per l’INAF-Osservatorio Astronomico di Brera) e che nei giorni scorsi ha partecipato a FameLab a Bologna. Il racconto inizia al minuto 7.40. La storia si intitola Flirt Cosmico.

E’ un incontro magico, fatto di luci, fatto di emozioni. Un po’ come l’eclissi del 20 marzo che ha richiamato 500 persone a Milano, 300 persone a Bologna, altrettante a Padova. Tutti con gli occhi a guardare un incontro che suscita fascino da millenni. Anche quello delle aurore ha un fascino tutto speciale.

Fonti – Hubble Site – Hubble Monitors Jupiter in Supporto f the New Horizons Flyby 

Altre informazioni su – Space REF – NASA’s Hubble Space Telescope Follows Jupiter’s Aurorae During New Horizons Flyby 

AGU – American Geophysical Union – Uranus Auroras Glimpsed from Earth

Un ringraziamento speciale ad Alessandra Zaino.

Sabrina

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Cinguettando dalla frontiera…

Sono stati due giorni decisamente interessanti, in alcune parti anche scoppiettanti. Mi riferisco al meeting Astrofrontiere organizzato da Stefano Borgani, Enzo Brocato, Fabrizio Fiore, Monica Tosi e Paolo Vettolani.

Due giorni per fare il punto sui problemi aperti nei vari settori, opportumanete divisi in cinque sezioni che rendono conto bene di ciò su cui la comunità astronomica sta lavorando, e sul suo forte bisogno di ripensare continuamente se stessa per rinascere nuova in ogni momento, evitando uno stato stazionario che – se cosmologicamente non è più supportato praticamente da nessuno – organizzativamente per INAF significherebbe una stasi mefitica. I settori sono questi, e come vedete c’è spazio per tutti:

  1. ASTROFISICA DELLE STRUTTURE COSMICHE BARIONICHE
  2. SISTEMA SOLARE, SISTEMI PLANETARI E ORIGINE DELLA VITA
  3. COSMOLOGIA
  4. GRAVITA` E FISICA FONDAMENTALE
  5. DISCUSSIONE GENERALE E CONCLUSIONI

Non affonterò qui la spinosa questione del precariato dentro INAF, che è stata origine di qualche dibattito anche (giustamente) vivace nelle fasi conclusive del meeting. Al proposito mi limito ad indirizzarvi al post molto interessante di Angelo Adamo che, benchè scritto prima dell’evento, fotografa egregiamente la situazione, che per molti versi (ed è il minimo che si può dire) appare decisamente problematica. Questo tweet dice già molto (disegno di Angelo Adamo)…

Vorrei invece indulgere verso un angolo di vista più originale, ragionando con voi sulla declinazione mediatica del meeting.  Astrofrontiere è stato infatti trasmesso (praticamente) in diretta sul canale streaming di INAF-TV, rendendo così possibile virtualmente a chiunque di partecipare pur non essendo fisicamente nella sala dell’Accademia del Lincei in Roma.

Parallelamente allo streaming audio/video, è stato stabilito un hashtag Twitter relativo all’evento, individuato appunto in #astrofrontiere, che ha reso possibile generare un flusso di tweet legati all’evento stesso e visualizzati in un box a destra della pagina stessa di INAF-TV.

Inizialmente un po’ dubbioso, ho potuto presto apprezzare molto la possibilità di seguire in streaming. Astrofrontiere infatti, per la sua specifica natura, si è venuto a definire come una ottima opportunità per apprendere in un tempo relativamente contenuto lo stato presente di ogni settore, le direzioni di sviluppo, i problemi aperti, le questioni irrisolte. Un solo tweet come esempio…

I vari interventi mi sono apparsi piacevolmente chiari e deliziosamente esenti da sterile specialismo (che purtroppo affligge una importante percentuale di seminari di Istituto): dunque potenzialmente fruibili per una più ampia audience, ben al di fuori del recinto dei dipendenti INAF.

Personalmente, ho potuto apprezzare molto questa carrellata su temi astronomici lontani dalla mia area di lavoro, ho capito anzi che se c’è qualcosa che manca al momento è un vero canale di comunicazione tra i vari settori: al momento è piuttosto un canale virtuale che si apre in relazione ad alcuni eventi, come questo, ma nella vita (professionale) ordinaria è spesso tragicamente strozzato.

Detto ciò, apprezzabilissimo – in linea di principio – è il flusso Twitter legato al citato hashtag. In linea di principio – ribadisco – un simile flusso garantisce la visibilità ad una pluralità di voci e opinioni, senza alcun “controllo centrale”: basta inserire la stringa #astrofrontiere nel tweet e si compare nel flusso visualizzato nella pagina di INAF-TV.

Purtroppo questa possibilità è ancora ampiamente virtuale, perché – di fatto – sono (ancora) pochi gli astronomi che pubblicano messaggi su Twitter legati all’evento. Perlopiù la diretta Twitter è stata coperta (in modo eccellente) da MEDIA INAF stessa. Felice eccezione Ronald Drimmel che ha twittato (e parlato) sulla missione GAIA (su questo torniamo dopo)

Anche qui a GruppoLocale si è cercato di coprire almeno parte dell’evento (ho trovato molto stimolante la cosa, formulare i messaggi mi aiuta e mi motiva a seguire gli interventi). Sono stato contento di riceverne anche credito, nel pomeriggio di ieri…

Quindi, anche se nella soddisfazione del credito ricevuto, un po’ di rimpianto, per come sarebbe potuto essere. Certo nessuno può obbligare un astronomo a twittare, soprattutto se pensa che sia una perdita di tempo. Forse ogni tanto lo è, eppure sarebbe stato veramente istruttivo nutrirsi di una pluralità di voci e pareri sulla timeline dell’evento.

Forse, in futuro? Chissà.

Per ultimo, in questa lettura volutamente parziale ed incompleta della storia, permettetemi una nota di soddisfazione. Essendo coinvolto in GAIA, ho apprezzato, seguendo i vari interventi, come veramente il satellite – sperso lassù nel cielo a un milione e mezzo di chilometri da noi – sia anche ben presente nella testa di tutti gli astronomi, per quello che promette di realizzare (e sta già iniziando a fare)

GAIA avrà un forte impatto su tutta l’astronomia degli anni a venire, e diventa sempre più difficile non tenerne conto… 😉

Mi fermo qui, ci sarebbe tanto tanto da dire, ma vi lascio ai filmati dell’evento tutti disponibili sul canale YouTube di INAF e alla consultazione dello streaming Twitter completo.

Per stimolare il vostro appetito, finisco con la slide relativa alle sfide che ci aspettano nel secolo presente, secondo il consiglio scientifico di INAF: il minimo che si può dire, è che c’è trippa per gatti…! 

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Il tempo della mela

Fin dall’inizio dell’avventura umana, la misura del tempo è stata fondamentale. Il tempo zero, l’istante dell’inizio dell’Universo, è sempre stato un punto privilegiato, luogo di accumulazione dell’interesse di ogni scienza ed ogni cultura, di ogni mito.

Per introdurmi ragionevolmente nell’argomento, faccio come si fa di solito, ovvero consulto wikipedia. La voce “tempo” è molto ricca, e tra l’altro recita:

La percezione del “tempo” è la presa di coscienza che la realtà di cui siamo parte si è materialmente modificata. Se osservo una formica che si muove, la diversità delle posizioni assunte, o se presto attenzione al susseguirsi dei miei pensieri o ai battiti del mio cuore, fatti fisiologici, e in ultima analisi, fisici, ciò certifica che è trascorso un “intervallo di tempo”. Si evidenzia “intervallo” a significare che il tempo è sempre una “durata” (unico sinonimo di tempo), ha un inizio e una fine.

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Capirete che è un tema in cui si può affondare ad libitum, perché è uno di quegli argomenti tanto proprio alla fisica come alla filosofia. In questo, il tempo segnala ciò che è tempo di comprendere, davvero: che non esiste una cultura “umanistica” contrapposta ad una cultura “scientifica”, ma sono semplicemente due approcci complementari, ambedue indispensabili. Anzi, sono uno. Parlare di “presa di coscienza” è legare il tempo alla profondità della cultura e del sentire umano, bel oltre il dato scientifico.

Purtroppo è accaduta una sorta di rottura di simmetria, che il compito della nostra epoca, dell’uomo del millennio appena iniziato, sarà di ricucire. Non con facili sincretismi, ma ideando un nuovo percorso, un cammino ancora inedito. Pazientemente, libera-mente, lavorando su sé stessi per poi intervenire efficace-mente sul contesto.

E’ che affondando nel tentativo di comprensione di cosa è il tempo che ci scontriamo, anche qui, con un sentimento di ultima impotenza (che mi pare un tratto squisitamente moderno), con una necessità di resa:

L’unico modo convincente di rispondere alla domanda “che cos’è il tempo” è forse quello operativo, dal punto di vista strettamente fisico-sperimentale: “il tempo è ciò che si misura con degli strumenti adatti”. Una analisi microscopica del problema tuttavia mostra come la definizione di orologio sia adatta solo a una trattazione macroscopica del problema e quindi non consenta di formulare una definizione corretta per le equazioni del moto di particelle descritte dalla meccanica quantistica.

Ed arriviamo facilmente al fatto che (permettetemi di metterla così)  il tempo esiste perché c’è l’Universo che lo giustifica,

in un certo senso l’intero Universo in evoluzione si può considerare il vero fondamento della definizione di tempo; si noti l’importanza essenziale della specifica “in evoluzione”, ossia in movimento vario, accelerato: senza movimento, senza variazione anche il tempo scompare!

Ma questo è davvero un tema enorme: affrontarlo prenderebbe una enorme quantità di tempo. Allora, per il momento vorrei volare più basso. Torniamo un attimo indietro: cosa si intende per “strumenti adatti” ?

Di orologi di diversa foggia sofisticazione ve ne sono infiniti, lo sappiamo. Vorrei adesso concentrarmi sull’ultimo arrivato: quello che dimostra il modo Apple di intendere il tempo, di misurarlo. L’Apple Watch è la declinazione del modo della mela, di come si può intendere un moderno sistema di misura del tempo. E’ il tempo della mela, dopo quel Tempo delle Mele dello scorso millennio, che fece sognare e commuovere moltissimi, tra noi non più giovanotti.

Che poi, essendo targato Apple (torno a parlare di mela al singolare), fa decinaia di altre cose, oltre che misurare il tempo. Cosa che peraltro dovrebbe fare assai bene, a leggere le specifiche: “mantiene uno scarto non superiore a 50 millesimi di secondo rispetto al tempo universale standard”.

Ma il punto non è la precisione. E nemmeno le diecimila cose che fa: ti controlla mentre fai attività fisica, mentre dormi (con chi dormi, forse…?), ti fa vedere le foto su Instagram, ti notifica email e messaggi Facebook, etc…

Il tempo, insomma, non sappiamo se sia relativo, ma certo – in questo modo – è relativizzato. E il tempo è così legato indissolubilmente al flusso erratico di notifiche e messaggi e allerte, di cui l’orologio (in questa moderna incarnazione) si fa  veicolo. Si può riprendere la frase di prima, traslandolo in versione più tecnologica, asserendo che “senza notifiche, il tempo scompare”.

Non so voi. Io sono attratto e spaventato allo stesso tempo. Attratto da cosa potrei fare con l’Apple Watch (il mio lato geek è letteralmente elettrizzato), spaventato del fatto che mi potrei così abituare ad avvertire le notifiche sulla pelle, tramite la discreta vibrazione dell’orologio, da non poterne più fare a meno. Da sviluppare una dipendenza.

Ma la cosa che mi preoccupa di più è un’altra. La dipendenza che mi terrorizza è quella dalla rete elettrica, non tanto da Internet. Fino a diciotto ore, dice. Anzi, per la precisione, dice fino a diciotto ore di autonomia. 

Sono esitante. Per adesso, l’orologio è l’unica cosa tecnologica che posso dimenticare di attaccare alla spina e ricaricare, ogni santa notte. Per ora.Ma il tempo passa. Gli orologi si aggiornano. E questi fanno appunto duecentomila cose.

Ma si scaricano.

E l’idea di arrivare a casa e attaccare tutto ai vari ricaricatori, non mi esalta.

Se poi vagassi nel deserto, in meno di un giorno si spegnerebbe tutto. Telefono, tablet, e ora perfino l’orologio. Tutto. Meno l’idea che a volte, troppa tecnologia – forse – non aiuta a vivere in maniera più umana. A viversi bene il tempo.

Forse.

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Quei movimenti del Sole

“Non c’è niente da fare. Il Sole al tramonto è sempre uno spettacolo. Dalla finestra della sua camera riesce a gustarsi tutta la lenta discesa del disco rosso, fin dietro il parco. Una cosa sublime. Piano piano il cielo passa da quell’azzurro bello ma un po’ etereo, ad un fantastico colore blu, che per giunta si fa sempre più denso e carico, fino a dissolversi piano in un nero limpidissimo… Così bello che sarebbe quasi da dipingere! Anzi, se fosse brava come nonno Aldo farebbe un bel quadro ad olio. I colori si contrastano sempre di più, le ombre si arricchiscono in profondità e tutto sembra acquistare un rilevo particolare. Tutto è più denso, quasi spumoso, compatto..”

La nostra Anita è alle prese, stavolta, con i movimenti degli astri. La Terra si muove, certo, ma anche il Sole poi non è che rimanga molto fermo. Anzi, tutt’altro. Ma questo lo scoprirà in un serrato dialogo con la sua mamma, che ha il pregio di volerle molto bene ma (come sa chi ha letto gli altri due racconti) il difetto di essere astronoma di professione. Ci sarà posto anche per un progetto di vacanza toscana e la mamma scienziata avrà qualche momento di commozione… ma non voglio rivelare altro della trama. Vi invito a leggere – e se volete, commentare – questo terzo racconto della serie. 

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Illustrazione di Ilaria Zof

I racconti sono ospitati nel blog Scientificando di Annaria Ruberto. E’ davvero un eccellente blog con orientamento didattico; va detto infatti che i racconti finora pubblicati hanno trovato ottima rispondenza nelle scuole, così mi permetto di inviare eventuali docenti che stiano leggendo a valutare la possibilità di diffonderli proprio con questa funzione. Io ne sarei certo contentissimo (ma Anita ancor più di me…) !

Ringrazio di cuore anche Ilaria Zof per il bel disegno, che tra l’altro – come potrete apprezzare – riprende in chiave graficamente accattivante e spigliata, molti elementi del racconto.

Ma ora, lascio senz’altro la parola ad Anita. Si sta facendo sera, il Sole è al tramonto… 

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Il giorno del Pi

Benché un pochino in ritardo, non voglio lasciar passare il nostro giorno del Pi senza aver scritto qualcosa al riguardo. E’ oggi infatti il Pi Day, ovvero il Giorno del pi greco, a motivo del fatto che la data 14 marzo, nel mondo anglosassone, si può scrivere come 3.14, proprio le prime cifre del celeberrimo numero.

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Questo numero di infinite cifre ci dimostra facilmente come l’infinito è presente dovunque, di come la matematica ci scappa subito di mano, non si può contenere, non si può facilmente delimitare in uno steccato “conosciuto”.

Eh no.

Uno comincia con una cosa semplice, chessò, un cerchio. Cosa c’è di più semplice? Ecco, iniziamo a giocare con le cose fondamentali di questo cerchio: la lunghezza della circonferenza, poi… cosa possiamo trovare? Ah ecco, il suo diametro. La retta che lo taglia in due, passando per il centro. Beh, viene spontaneo pensarla, giusto?

E allora, chissà in che rapporto staranno queste due quantità, dico, la circonferenza e la retta che la taglia. Sarà certo una cosa semplice: partendo da costruzioni geometriche così semplici, dove vuoi che possiamo arrivare? In fondo, ci siamo tenuti molto elementari.

Ebbene, siamo già arrivati all’infinito.

Sì, perché il rapporto tra la circonferenza e il diametro (non ve lo devo mica insegnare io, mi permetto solo di farvici ripensare) è un numero che non conosceremo mai interamente, perché ha infinite cifre (in qualsiasi “base”, ovvero con qualsiasi sistema per indicare i numeri, che si possa mai ideare). Le prime cento suonano così:

3,14159 26535 89793 23846 26433 83279 50288 41971 69399 37510 58209 74944 59230 78164 06286 20899 86280 34825 34211 7067…

E’ appunto pi grecoed è un numero che non finisce mai. Si chiama trascendente. I numeri trascendenti sono poi una particolare categoria di numeri irrazionali. Questi ultimi sono numeri che appunto, non finiscono mai, non c’è verso di capire come proseguono, e proseguono appunto all’infinito. I numeri trascendenti sono appunto un sottoinsieme di questi (non sono soluzioni di alcuna equazione polinomiale, per la precisione). Dettagli, ma insomma la faccenda rimane quella.

La faccenda è, già un semplice cerchio contiene qualcosa che ci sfugge. Già non lo possiamo capire interamente.

Non c’è bisogno di arrivare alla fisica quantistica, per capire che ci sono cose che non possiamo capire.

Così l’infinito è di casa, le più semplici costruzioni logiche si devono aprire all’irrazionale, all’imprevedibile, al non completamente conosciuto. Per far tornare i conti, lasciatemela mettere così, devono lasciare un po’ di spazio al mistero…

E ora vi lascio con un tributo a questo elusivo numeretto, ideato da una grande artista (grandissima, secondo me): Kate Bush ci canta, appunto, Pi

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Lavorare la crisi

Sono io in crisi con la religione o è la religione stessa ad essere in crisi? Bella domanda. Del resto, l’osservatore influenza il fenomeno, me lo dice la fisica. 

Ma la crisi c’è, su questo non posso barare.

Non basta ripetermi “Dio mi ama, Gesù è morto per me” perché tutto vada a posto. Luigi Giussani diceva anni fa come “Quello che manca nella Chiesa non è tanto la dizione letterale dell’annuncio, ma l’esperienza di un incontro…” e la verità di queste parole mi brucia aspra sulla pelle.

Siamo sofisticati, oggi. Non mancano certo le offerte spirituali, nell’odierno mercato globale. Né mancano variegate proposte di percorsi psicologici, le innumerevoli ginnastiche, o le offerte culturali, quelle letterarie o specificamente poetiche. Ogni proposta sul “mercato” è sovente capace di andare in grande dettaglio in quello che propone, affondare “in verticale” su un determinato e ben specifico segmento. Ma rimane come chiusa in sé stessa, slegata da tutto il resto. Quello che non trovo, è una visione forte che garantisca una unificazione armonica di tutto questo. Che sia necessaria e non appena un anelito culturale o estetico, me lo dice – assai concretamente – la mia sofferenza. C’è un vuoto, che fa male. «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?» si chiedeva realisticamente Giussani, citando Eliot. C’è una ferita da abbandono, comunque, da sanare.

Credit: Hubble: NASAESA, & D. Q. Wang (U. Mass, Amherst); Spitzer: NASAJPL, & S. Stolovy (SSC/Caltech)

Darsi Pace può essere un approccio utile per lavorare (in) questa crisi. Arriva come ipotesi di risposta ad una ricerca che avevo dovuto avviare, non certo per motivi di erudizione, bensì spinto da un malessere sempre più pungente. Il malessere che mi ha spinto, più di un anno fa, a vincere paure e resistenze e cercare aiuto da un terapeuta. Quel malessere che mi ha portato a leggere di psicologia, iniziando a comprendere che c’è molto di più dell’ambito asfittico in cui vedevo avvizzire la stessa scienza e il mio lavoro di astrofisico, e che “quello che non si vede” ha una influenza decisiva sul benessere dell’anima. Quel pungolo che mi porta a frequentare la poesia, che trovo sia ormai l’unico modo di esprimersi totalmente “non retorico”. Oppure ad interessarmi ai filosofi orientali e allo Yoga, superando le mille resistenze interne ed esterne (“ma è robba da cristiani? E’ peccato? ma non te stai a sbajà? E se poi perdi la fede? Se mi diventi buddista, induista?”).
Questa crisi mi ha portato a sentire spesso la fede come drammaticamente scollegata dai miei entusiasmi, dalle mie pulsioni: sovente – nelle pratica di vita – tradotta quasi esclusivamente in una serie di gabbie morali contro cui covava e cova (con imbarazzo e sensi di colpa) un forte ed indistinto risentimento. In questo senso, nell’approccio di Darsi Pace ho intravisto una possibilità percorribile di tenere la fede e tutto il resto, insieme, in armonia.
Nessun’altra proposta psicologico-spirituale che finora ho incontrato mostra di prendere sul serio tutto quello che il mio cuore mi indica come valido, dalla meditazione orientale ai testi di Jung, alla poesia. Nessun’altra proposta mi dice così chiaramente che se spesso non avverto la divinità come amore ma come severo giudice non è perché sono sbagliato (…e via con altri sensi di colpa!) ma è solo perché devo fare un percorso, devo guarire.
Il malessere adesso assume parvenze più lavorabili. In darsi pace ho una ipotesi di lavoro in più. Un luogo di salutare ricominciamento. Una possibilità di fare un cammino, o meglio, di integrare ed inverare il cammino spirituale che già faccio, psicologico (con la terapeuta) e culturale (nel mio lavoro di astrofisico) e artistico (nella mia vocazione per la scrittura, che mi ha sempre accompagnato, anche se non sempre l’ho voluta riconoscere). La scoperta, per me, è che questo nuovo e urgente lavoro non sostituisce niente, nemmeno le altre mie appartenenze – ecclesiali e non – ma le rende tutte più vere. Sorprendente, a viverlo.
Nell’ambito di Darsi Pace capisco che se sto male non è solo un problema mio personale, ma è legato ad un travaglio universale, cosmico. Così la domanda di partenza inizia ad ammorbidirsi, gemmano possibili traiettorie di risposta. Che differenza vedere i miei personalissimi disagi – che iniziano a diventare più morbidi – sotto questa luce!
Già, ammorbidire il disagio, lavorare la crisi, senza più scandalo. 
«Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Isaia, 30, 15)
E’ questo il motivo per cui darsi pace, ora, è diventato così importante nel mio percorso.

La foto rappresenta un’immagine astronomica del centro galattico, sede di intense trasformazioni e di un ‘travaglio cosmico’ veramente impressionante Se guardiamo al cielo, scopriamo che – a differenza di quanto si pensava un tempo – l’Universo stesso è in subbuglio e in furiosa trasformazione, non è mai stagnante: l’astronomia moderna ce lo mostra continuamente, suggerendo evocative connessioni con il palpito del cuore dell’uomo moderno. In particolare, la zona centrale della Via Lattea è un posto dove bellezza e violenza convivono fianco a fianco, intarsiato di zone dove nascono tumultuosamente nuove stelle, dove cioè il nuovo si origina in una sorta di continua nascita, mentre il vecchio viene spazzato via e fagocitato dal buco nero di grande massa, che vi si trova al centro.
Questo post è la leggera rielaborazione (con link aggiunti) di un mio contributo al sito Darsi Pace.

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Senza peso…

Sono sempre io, Phòs, il vostro fotone preferito. O insomma, spero che sia il preferito, ma non ne sono certo. D’altra parte, potrei speculare sul fatto che in realtà non è sempre facile distinguere un fotone dall’altro, non è che possiamo appiccicarci sopra delle pecette o metterci una targa. Anche perché, come vorrei dirvi oggi, noi fotoni non abbiamo niente su cui appiccicare…

E’ così, non abbiamo massa. La cosa potrebbe essere sorprendente, a pensarci bene. Cioè, se solo ci pensate un momento, potreste ancora sorprendervi. Specialmente se siete di quelli che pensano che una cosa, per esistere, deve potersi toccare. Beh, no, scordatevelo. Un fotone non si tocca. Ecco, proprio io, proprio io che vi sto parlando: io non ho massa. Lo dice proprio la fisica, non è che me lo invento io.

Non ho massa. Non peso niente. Weightless, direbbero gli inglesi. Magari come potreste sentirvi voi, chessò, nel bel mezzo di un salto. Ecco, per me è la condizione naturale. 

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Non ho massa. Eppure, esisto.

Cioè, esistono un sacco di cose che non si possono toccare. Esistono, semplicemente. E io sono una di queste. Siamo così concreti che se – metti caso – sparissimo in un istante, voi piombereste nel buio più totale. Non potreste vedere proprio un bel niente.

Comunque, io vi conosco. Conosco i vostri ragionamenti, beh non ha massa, esagerato.. sarà un modo di dire.. magari vuol dire soltanto che pesa poco, pochissimo, quasi niente… 

E invece no, non quasi niente. Proprio niente.

Non è che sia quasi uguale, no. Fa tutta la differenza del mondo.

Anzi, dell’universo.

Photo Credit: Phillip Ritz via Compfight cc

Ora vi dico. Però per farvi capire devo dirvi qualcosa di più riguardo al mio lavoro. Io, in qualità di fotone, sono il mediatore della forza elettromagnetica. Parole grosse, lo so… ma il significato è semplice. La forza elettromagnetica è una delle quattro forze fondamentali dell’universo. Sono solo quattro, in fondo è molto semplice. Le altre sono la forza gravitazionale, la forza forte e la forza debole. Le ultime due lasciatele perdere, per ora, perché diventano importanti a livello di fenomeni atomici. Nell’universo la forza elettromagnetica e quella gravitazionale spiegano praticamente tutto.

Ed eccoci al punto: sono forze che si estendono all’infinito. Che intendo? Che la Terra è attirava dal Sole, ad esempio, anche se è lontanissima da lui. Non c’è problema di lontananza: due corpi con massa si attirano sempre e comunque. E così la forza elettromagnetica, che attira tra loro particelle cariche positivamente e cariche negativamente. Non c’è problema quanto siano lontane, la forza elettromagnetica li attira, in maniera inversamente proporzionale alla distanza tra loro, elevata al quadrato.

Dunque anche se la distanza va verso l’infinito, c’è sempre un’attrazione tra – diciamo – un elettrone e un positrone (tipo un elettrone, però carico positivamente), calcolabile. Fossero pure ai margini estremi dell’universo.

Questo però solo perché noi fotoni (e qui torniamo a bomba) non abbiamo massa.

Seguitemi, cerco di farvela un po’ facile, a costo di abbandonare per un attimo un po’ di rigore scientifico (lo potrete sempre recuperare, poi). Prima di tutto, considerate che secondo la fisica moderna, la massa è energia (e qui già qualche dubbio sul fatto che una cosa per esistere deve avere massa, deve “esserci” magari vi potrebbe venire). Sì, la massa è una qualità particolare di energia. I fisici lo sanno già da un bel po’.

La legge che regola tutto è quella di Einstein. Dividendo o moltiplicando per la velocità delle luce al quadrato, si passa da massa ad energia, avanti e indietro. Stessa roba, solo un termine costante di mezzo.

C’è poi l’altra regola, l’unica altra che vi chiedo di digerire, che è il principio di indeterminazione di Heisemberg. Suona spaventoso, lo so, ma è semplice. Sapete che nello spazio quantistico, particelle si creano in continuazione. Lo spazio vuoto non è vuoto: è come in perpetua ebollizione. E il principio di Heisemberg regola questa spinosa faccenda. In pratica dice che tanto più è grande l’energia di una particella che spunta fuori, tanto meno può vivere (e dunque tanta meno strada può fare, nel suo tempo di vita). In termini più precisi, l’energia moltiplicato il tempo di vita, è una costante.

Se una particella ha massa, ha dunque una energia minima: quella legata alla sua massa.

E’ qui che io vinco alla grande. Non avendo massa, posso avere energia piccola a piacere. Dunque posso vivere quanto voglio, senza violare il principio di Heisemberg (se l’energia è molto piccola, il tempo di vita può essere molto grande). E posso andare lontanissimo. Lontanissimissimo. Davvero. Se volete una trattazione un po’ più rigorosa (con qualche formuletta scritta giù per bene) di quello che vi sto raccontando, potete magari iniziare da La storia delle particelle nel Big Bang.

Comunque. Se avessi massa come i miei amici, le particelle mediatrici delle interazioni forti e deboli, il mio raggio di azione sarebbe molto molto più limitato. E infatti loro fuori dall’atomo.. puff! Non si vedono proprio!

Questo vi dovrebbe dire qualcosa a proposito della massa del mio amico gravitone… quello che i fisici pensano regoli la forza gravitazionale. Che ne dite, cosa pensate per questo? Può avere massa? O è come me, in fondo? Splendidamente senza peso…?

Questa è la terza parte delle avventure di Phòs. Se vi siete persi qualche puntata del vostro fotone preferito, sappiate che le trovate sempre tutte qui. 

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