Fin dall’inizio dell’avventura umana, la misura del tempo è stata fondamentale. Il tempo zero, l’istante dell’inizio dell’Universo, è sempre stato un punto privilegiato, luogo di accumulazione dell’interesse di ogni scienza ed ogni cultura, di ogni mito.

Per introdurmi ragionevolmente nell’argomento, faccio come si fa di solito, ovvero consulto wikipedia. La voce “tempo” è molto ricca, e tra l’altro recita:

La percezione del “tempo” è la presa di coscienza che la realtà di cui siamo parte si è materialmente modificata. Se osservo una formica che si muove, la diversità delle posizioni assunte, o se presto attenzione al susseguirsi dei miei pensieri o ai battiti del mio cuore, fatti fisiologici, e in ultima analisi, fisici, ciò certifica che è trascorso un “intervallo di tempo”. Si evidenzia “intervallo” a significare che il tempo è sempre una “durata” (unico sinonimo di tempo), ha un inizio e una fine.

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Capirete che è un tema in cui si può affondare ad libitum, perché è uno di quegli argomenti tanto proprio alla fisica come alla filosofia. In questo, il tempo segnala ciò che è tempo di comprendere, davvero: che non esiste una cultura “umanistica” contrapposta ad una cultura “scientifica”, ma sono semplicemente due approcci complementari, ambedue indispensabili. Anzi, sono uno. Parlare di “presa di coscienza” è legare il tempo alla profondità della cultura e del sentire umano, bel oltre il dato scientifico.

Purtroppo è accaduta una sorta di rottura di simmetria, che il compito della nostra epoca, dell’uomo del millennio appena iniziato, sarà di ricucire. Non con facili sincretismi, ma ideando un nuovo percorso, un cammino ancora inedito. Pazientemente, libera-mente, lavorando su sé stessi per poi intervenire efficace-mente sul contesto.

E’ che affondando nel tentativo di comprensione di cosa è il tempo che ci scontriamo, anche qui, con un sentimento di ultima impotenza (che mi pare un tratto squisitamente moderno), con una necessità di resa:

L’unico modo convincente di rispondere alla domanda “che cos’è il tempo” è forse quello operativo, dal punto di vista strettamente fisico-sperimentale: “il tempo è ciò che si misura con degli strumenti adatti”. Una analisi microscopica del problema tuttavia mostra come la definizione di orologio sia adatta solo a una trattazione macroscopica del problema e quindi non consenta di formulare una definizione corretta per le equazioni del moto di particelle descritte dalla meccanica quantistica.

Ed arriviamo facilmente al fatto che (permettetemi di metterla così)  il tempo esiste perché c’è l’Universo che lo giustifica,

in un certo senso l’intero Universo in evoluzione si può considerare il vero fondamento della definizione di tempo; si noti l’importanza essenziale della specifica “in evoluzione”, ossia in movimento vario, accelerato: senza movimento, senza variazione anche il tempo scompare!

Ma questo è davvero un tema enorme: affrontarlo prenderebbe una enorme quantità di tempo. Allora, per il momento vorrei volare più basso. Torniamo un attimo indietro: cosa si intende per “strumenti adatti” ?

Di orologi di diversa foggia sofisticazione ve ne sono infiniti, lo sappiamo. Vorrei adesso concentrarmi sull’ultimo arrivato: quello che dimostra il modo Apple di intendere il tempo, di misurarlo. L’Apple Watch è la declinazione del modo della mela, di come si può intendere un moderno sistema di misura del tempo. E’ il tempo della mela, dopo quel Tempo delle Mele dello scorso millennio, che fece sognare e commuovere moltissimi, tra noi non più giovanotti.

Che poi, essendo targato Apple (torno a parlare di mela al singolare), fa decinaia di altre cose, oltre che misurare il tempo. Cosa che peraltro dovrebbe fare assai bene, a leggere le specifiche: “mantiene uno scarto non superiore a 50 millesimi di secondo rispetto al tempo universale standard”.

Ma il punto non è la precisione. E nemmeno le diecimila cose che fa: ti controlla mentre fai attività fisica, mentre dormi (con chi dormi, forse…?), ti fa vedere le foto su Instagram, ti notifica email e messaggi Facebook, etc…

Il tempo, insomma, non sappiamo se sia relativo, ma certo – in questo modo – è relativizzato. E il tempo è così legato indissolubilmente al flusso erratico di notifiche e messaggi e allerte, di cui l’orologio (in questa moderna incarnazione) si fa  veicolo. Si può riprendere la frase di prima, traslandolo in versione più tecnologica, asserendo che “senza notifiche, il tempo scompare”.

Non so voi. Io sono attratto e spaventato allo stesso tempo. Attratto da cosa potrei fare con l’Apple Watch (il mio lato geek è letteralmente elettrizzato), spaventato del fatto che mi potrei così abituare ad avvertire le notifiche sulla pelle, tramite la discreta vibrazione dell’orologio, da non poterne più fare a meno. Da sviluppare una dipendenza.

Ma la cosa che mi preoccupa di più è un’altra. La dipendenza che mi terrorizza è quella dalla rete elettrica, non tanto da Internet. Fino a diciotto ore, dice. Anzi, per la precisione, dice fino a diciotto ore di autonomia. 

Sono esitante. Per adesso, l’orologio è l’unica cosa tecnologica che posso dimenticare di attaccare alla spina e ricaricare, ogni santa notte. Per ora.Ma il tempo passa. Gli orologi si aggiornano. E questi fanno appunto duecentomila cose.

Ma si scaricano.

E l’idea di arrivare a casa e attaccare tutto ai vari ricaricatori, non mi esalta.

Se poi vagassi nel deserto, in meno di un giorno si spegnerebbe tutto. Telefono, tablet, e ora perfino l’orologio. Tutto. Meno l’idea che a volte, troppa tecnologia – forse – non aiuta a vivere in maniera più umana. A viversi bene il tempo.

Forse.

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