Blog di Marco Castellani

Mese: Marzo 2016 Page 1 of 2

Lo chiamavano Jeeg Robot

Se adesso parlo del film Lo chiamavano Jeeg Robot – badate bene – non è per tentare una recensione. D’altra parte, c’è chi lo fa già molto bene. E’ invece occasione per prendere spunto e ragionare su delle suggestioni, dei frammenti luminosi. Attraversare con la mente e il cuore delle immagini, dei suoni, dei volti. Dei sorrisi, dei corpi.

Non spendo parole sulla trama, questa d’altra parte si può agevolmente reperire in rete. Non le spendo non perché non sia importante, ma direi male delle cose e ruberei invece spazio a quello che davvero voglio dire.

Enzo ed Alessia, in una sequenza del film…

Mi spiazza, intanto. Già dai primi istanti capisco che non può scorrere via senza lasciami un graffio, una ferita. Molto crudo per diversi aspetti. Sarò io che non sono abituato a certe scene così forti, ma faccio fatica a digerire il primo tempo. Le immagini decisamente non mi accarezzano.

E’ appena una azzardata analogia, ma in un certo senso mi rimanda a Delitto e Castigo, per quella parte di desolazione e violenza che si espande, si espande fino a farti sentire una stretta al cuore, farti intendere che è tutto, che è tutto quello che esiste. E che comunque, se pur esiste altro, qui ed ora, se pure esistesse: ebbene, in questo universo, in questa borgata romana, non entra, non detta regole, non istruisce il reale. E’ come se fosse altrove, distante, disperso. Ultimamente, dunque, è come se non esistesse. Lo sai bene, ormai: quello che non avverti, in fondo, per te non esiste. E’ un puro nome, vuoto.

A volte sembra che devi arrivare in fondo, completamente in fondo. Che devi lasciare ogni riserva residua, ogni spazio mentale per dire ma tanto cambierà. Abbandonare ogni tua strategia per cambiare. Devi arrivare ad accogliere quello che succede, esattamente come succede. Sembra a volte che solo lì, solo davanti ad una tua resa completa, possano accadere quegli imprevisti che ti rimettono in gioco.

Sì è un film crudo, sicuramente. Ma questo registro espressivo, si scopre piano piano, non è gratuito, non è fine a se stesso. Perché il contrasto è più vero, poi, te lo senti addosso. Il contrasto con la bellezza e la dolcezza che poi fioriscono, sbocciano (come avviene nell’ultima parte del romanzo di Dostoevskij attraverso la presenza carnale di Sonja). Ma no, non appena il contrasto. Perché non si procede per contrasti, ma per compenetrazioni. Ecco se dovessi descrivere il punto infuocato del film, direi questo: la bellezza che fiorisce dove non ti aspetti.
Ma ancora, non è appena questo. E’ molto di più. Che la bellezza, la dolcezza, arrivi in una situazione di estrema violenza e totale disincanto, materialismo arruffato e totale, pornografia e disperazione, uno se lo può anche aspettare. Può contemplarne la possibilità, diciamo. Ma metti caso invece che la bellezza e la dolcezza non piombino intatte ed inossidabili dall’esterno, al suono limpido e trionfale di un hollywoodianamente salvifico arrivano i nostri. A questo siamo abituati, è roba vista. E’ consona al nostro modo pigro di pensare.

No, quello che mi colpisce dentro, davvero, è accorgermi di una bellezza che fiorisce dentro alla miseria e al degrado. Che non arriva da fuori, in una improbabile (ed ultimamente irritante) esportazione della virtù impermeabile a ciò che incontra ed ansiosa soltanto di redimere. Invece, una bellezza che sposa completamente, accoglie integralmente lo spaziotempo in cui si trova, vive e si sviluppa e brilla in quell’esatto sistema di rapporti. Non ha l’ansia di redimere il marcio, perché nel marcio fiorisce: non perché ami il marcio (anche non si fa problema di questo), ma è perché lì ha la sua funzione d’essere (diceva del resto il grande Fabrizio de André, che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior).

Così seguo Enzo, questo ladruncolo di Tor Bella Monaca, nella sua vita di espedienti e di miseria morale e materiale. Lo seguo, lo spio nella miseria della sua vita quotidiana, fino a che mi viene addosso la sensazione che niente la possa cambiare. E io, così infarcito di pensieri borghesi e di trito buon senso, sarei tentato di lasciar perdere, di non guardare più, di pensare ad altri, ad altro. A darlo per perso. Siamo tutti d’accordo, noi gente per bene, Enzo è perso. 

Però il cuore non è contento. Dire Enzo è perso non lo fa contento. Lo rende pratico, calcolatore, pieno di buon senso (e come non può essere perso, non lo vedi? Perché impiegarci tempo? Ma lo vedi che fa?). Perché non c’è niente da fare – il cuore è contento solo se gli viene spiaccicata davanti la notizia che nessuno è mai perso, nessuno mai. Fino all’ultimo.

Come grida al mondo il cuore di Papa Francesco, tra l’altro. Esattamente così. Dice cose enormi così, e io poi le riduco continuamente alla mia piccola misura. Davvero, sarebbe da prendermi a schiaffi. Ma intendetemi: con gioia, non con rancore. Sì, prendermi a schiaffi (non troppo forte, ovviamente…) con gioia, ridendo come un pazzo, perché vuol dire che mi sto finalmente svegliando.

Così l’amore, inaspettato, inatteso: insomma è quello il canale. Che riversa grazia, dolcezza, che innesta un cambiamento. Siamo seri, nessun discorso, nessuna predica o nessun atteggiamento da crocerossina, nessuna ansia redentrice sarebbero serviti, in quel misero comprensorio di Tor Bella Monaca. E’ l’amore che apre un canale, lo apre quando e dove dice lui.

L’amore è davvero capace di cambiare una persona. Ci sono certi superpoteri in ballo (per la cronaca, pare che fare il bagno nel Tevere non faccia sempre così male, anche se vi invito a non provare). Ma il vero superpotere è l’amore di Alessia. Anche qui, una che all’inizio non gli avresti dato un euro. Una così disturbata e sfortunata nella vita che sono tentato, anche qui, di darla per persa.

Sono tentato, sì, perché il mio modo di ragionare è orribilmente convenzionale. E’ il modo di chi non si aspetta nulla, anche se sostiene tanto spesso il contrario. Dunque è un modo orrendamente volgare, della vera volgarità profonda. Non sono volgari i DVD di film porno che si accumulano nell’appartamento fatiscente di Enzo, suo apparente unico svago. Quella è l’espressione di un grido, semmai. E’ molto più volgare il sentimento borghese di non aspettarsi nulla. Questa è la vera , suprema volgarità. E mi dispiace di essere così spesso volgare, così spesso sporco. Ma sono contento di quanto me ne accorgo, di quanto occasioni come questa me ne fanno accorgere. Perché respiro, respiro di nuovo.

L’amore di Alessia, un amore gratuito, innesta un cambiamento. L’amore cambia, non un discorso. Un amore sbagliato, se volete: che nasce nei posti sbagliati, che si alimenta in modo – se volete – approssimativo e rozzo (significativa che l’unico amplesso venga consumato in fretta e in un posto decisamente poco poetico come un centro commerciale). Ma all’amore questo non importa nulla, non gliene può fregà de meno (per dirla alla romana, tanto per fedeltà alla location).

L’amore di Alessia, la sua morbidezza, il suo stesso seno che viene incorniciato in molte sequenze (vabbé, io ci ho fatto caso, lo ammetto…) come silenzioso ma tenace contraltare alla violenza efferata di diverse scene, come vera bellezza disarmata, rimando ultimo ad una possibile promessa di dolcezza, di accoglienza totale… Ecco cosa compie il miracolo, ecco cosa rende Enzo capace di cose che non avrebbe mai pensato di poter fare. E soprattutto, non avrebbe mai pensato di voler fare. 

Perché l’amore sboccia dove vuole, e quando vuole. E ognuno può essere salvato, e può a sua volta salvare, se preso in braccio da questo amore. Ognuno, sempre. Sì fa fatica capirlo davvero, perché capirlo vuol dire, in fondo, rinunciare al nostro delirio di progettualità e alla nostra ipertrofia del giudizio (sugli altri, e su noi stessi).

Vuol dire solo questo, arrendersi a questo Amore. 

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Resurrezione

Non possiamo negarlo. Chi crede e chi non crede sono accomunati da molte più cose di quanto comunemente si pensi. Tra queste direi che c’è una grande voglia di resurrezione. Una resurrezione che non riguardi solo il nostro destino ultimo, ma una resurrezione che si innesti potente e tonificante nella vita di ogni giorno. 
 
Intendiamoci, però. Una resurrezione seria, è una resurrezione che implica e anzi comporta la vera possibilità di ripartire, davvero. Partire freschi, nuovi. 
 
 
Una resurrezione interessante è, peraltro, quella che implica una liberazione. Liberazione da tutti i legacci che frenano la nostra creatività, legacci che in vario modo sono una derivazione dalla paura. Ecco, così sentiamo forte un anelito di resurrezione, quasi ogni giorno. Come ci ricorda Anselm Grun,

La trasformazione della paure è il primo aspetto della resurrezione 

Ebbene, la Pasqua ci dice che in forza di una sola Resurrezione, ogni altra resurrezione è possibile. Che l’ultima parola sui nostri casi non è mai detta, non è mai nell’orbita del nostro ragionamento, del nostro fare e del nostro comprendere. Può essere invece un frutto imprevisto del nostro arrendersi, del nostro cedere.
 
Un momento: non si pensi qui ad un discorso valido esclusivamente dentro ambiti religiosi. Non mi interessa metter giù un discorso di quelli che si fanno tra credenti. No, affatto. E’ un discorso più ampiamente psichico,  come mostra efficacemente una frase di Raffaele Morelli,

Quanto più entriamo in un altro regno della mente, tanto più si attivano le forze della nostra rinascita. Bisogna uscire dal cerchio dei ragionamenti, dai pensieri sulle cause e le colpe, per diventare capaci di abbandonarci…

E’ dunque a mio avviso un anelito assolutamente trasversale a credenti e non credenti (o diversamente credenti), questo di una vera resurrezione. Le cui implicazioni psicologiche sono fin troppo evidenti: per citare ancora Anselm Grun,

Risurrezione è liberarsi dalle catene (psichiche) e vivere senza blocchi (interiori)

Che poi queste nostre resurrezioni di cui abbiamo a volte un fortissimo bisogno, si appoggino e si innestino in una Resurrezione (quella Pasqua cardine delle feste cristiane, che celebriamo oggi) la quale  sovverte in modo salutare l’implacabile impalcatura cartesiana del pensiero “che pensa sé stesso” senza aspettarsi alcuna sorpresa – che questo sia vero, è certo cosa che implica un salto, un rischio, un atto di fede. D’altra parte, non si evade da una gabbia senza accettare dei rischi, non si intraprende un viaggio come quello del significato (da qualsiasi parte possa portare) avendo in anticipo tutti i dati, conoscendo già tutto il percorso.  
 
Il viaggio per il significato è intrinsecamente iniziatico, ovvero un viaggio che si chiarisce  soltanto percorrendolo. E questo è già un rischio per un pensiero che vuole sapere tutto in anticipo, per un pensiero che vuole vanificare l’esperienza, come fattore che tendenzialmente sfugge al suo controllo.
 
E la Resurrezione è qualcosa di profondamente unitivo, anche. Nel senso che – a prescindere da quanto pensiamo di credere o di non credere – è qualcosa che non può non essere il più profondo desiderio di ogni essere umano. Potremo anche decidere di considerarla una favola, ma non possiamo sfuggire al fatto che comunque è la cosa in assoluto più desiderabile che possiamo pensare.
 
E nell’assenso dinamico alla verità di questo, il pensiero curiosamente si riallinea e si riequilibra. E la liberazione dalle catene sembra una cosa già più possibile. Tanto che a volte – con grande sorpresa! – se ne assaggia perfino un anticipo, un anticipo di gusto.
 
Buona Pasqua.

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Grido

La verità, quella verità per cui si muore a Bruxelles o si vive in politica da corrotti cercando di arraffare quanto più possibile, quella verità per cui vediamo ogni giorno ondate di migranti sulle nostre coste o ai nostri confini, è molto semplice: dentro di noi c’è un grido che solo se viene fuori, solo se il cuore lo esprime in tutta la sua imponenza, può davvero essere abbracciato, amato e voluto.

 e per una volta sento le parole che esigono che si esca, che si esca dal parlare tanto per parlare, dalla terribile e temibile dinamica per cui il parlare – in fondo – non fa che propagare sé stesso. Il parlare tanto per parlare convinti che non cambi nulla, è il vero inferno, è il posto dove non accade nulla, non accade nulla che già non si sappia, che già non si conosca. 
Qui invece la parola scava e ricerca una consapevolezza nuova, ci interpella perché si faccia un percorso, si inizi e si riprenda un cammino. Il cammino verso noi stessi, esattamente. D’altra parte una storia di fede è sempre un cammino verso la scoperta di sé, il disvelamento di sé. 
Ed ogni cammino interessante è un cammino di cura, è un percorso verso la Cura.
Quel grido, appunto, è un cardine della cura, di ogni cura. Qui c’è la vera rivoluzione. Quel grido che così spesso nella vita cerchiamo di soffocare, di normalizzare, deve invece venire fuori, deve esprimersi. Deve occupare tempo e spazio, riprendere una sua integra dignità. Deve esistere. 
lo sono il mio grido e il mio grido deve esistere.
D’altra parte cosa vuole il grido, se non esprimersi? Cosa vuole il bambino ferito dentro di noi, se non farsi ascoltare, una buona volta? Se non sentire che la sua immensa paura non è più condannata o nascosta, ma amorevolmente accolta? Solo così, una volta tranquillizzato, inizierà a dialogare con noi, a mostrarci anche dei giochi, ad interessarsi ed incuriosirsi. E torneremo a respirare, a darci pace. Attraverso il dolore, inevitabile in certa misura, arriveremo ad essere più umani…

 … il dolore ci mette in ginocchio e ci apre la possibilità che il misterioso desiderio che ci abita emerga, esploda e — infine — possa essere ascoltato. Non c’è risposta senza domanda.

C’è tutto un mondo a rovescio, c’è il modo di rovesciare il nostro mondo troppo spesso male-detto, male interpretato. C’è il modo di rovesciare il mondo per il quale il dolore non è (appena) una iattura, ma una possibilità. Perché riguarda eminentemente il grido, la possibilità di una risposta.  La risposta a quella ferita aperta, per cui il primo passo, il primo fondamentale passo, è riconoscerla. E’ mostrarla, perché riprende vita la speranza, la speranza di tutte le speranze: la speranza che la ferita venga sanata. 
E siccome la ferità in fondo in fondo si alimenta di questo, della paura di morire, la speranza di risanamento non può che sovvertire questo, affermare assai scomodamente questo, riprendere la dolce speranza di non morire mai. Ovvero di morire ma non morire. 

Il grido infatti è questo, alla fine: fa che io non muoia, che io non scompaia. 
La risposta può germogliare nel cuore, quando uno meno se lo aspetta, quando uno non spera più. Perché la risposta è un imprevisto, è esterna al nostro sistema di pensiero. 
E’ un avvenimento, non un pensiero. 
Non è un capire, la risposta. Ma un essere presi per mano.

Essere accolti. Noi, con il nostro grido.

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In cerca di un modello…

Lo abbiamo visto più volte, lo abbiamo toccato con mano anche nell’evento recente della rilevazione delle onde gravitazionali, di cui si è ampiamente parlato: la gente ha fame di informazione scientifica. in particolare, per l’ambito più prettamente astronomico, ha fame di una informazione che la aiuti a comprendere l’Universo, a capire cioè la natura e la forma dell’ambiente all’interno del quale – in senso più globale – è stata chiamata a vivere.

Se ci pensiamo, è una cosa assolutamente naturale. In ogni tempo e in ogni epoca le persone hanno posseduto un proprio modello di universo, uno schema comprensibile dove poter collocare idealmente il proprio percorso di vita. Poco importa, da questo punto di vista, se il modello a cui si riferivano risulti – alla luce della moderna cosmologia – decisamente inattuale, palesemente falsificabile. Certo, potremmo legittimamente sorridere ripensando al modello a guscio di tartaruga dell‘antica mitologia cinese: del resto, oggi quasi nessuno penserebbe più di poter vivere davvero sul dorso di una tartaruga gigante. O anche, che il Sole derivi, come formazione, dall’occhio destro del gigante Pangu.

Un modello fisico dell'universo ci trasporta dal mito alla scienza. Con che conseguenze?

Un modello fisico dell’universo ci trasporta dall’immagine mitica alla scienza empirica. Con quali conseguenze?

Però il punto non riposa tanto nella moderna facilità nel falsificare il modello stesso. Il punto è che un modello qualsiasi è – per la mente – molto meglio di nessun modello. Un modello di universo è uno schema che rende il cosmo pensabile, prima di tutto. Affrontabile dall’intelletto umano. Il cosmo, filtrato e concretizzato dal modello stesso, esce ipso facto dal novero vaporoso e intangibile delle cose che non si possono dire, diventa pronunciabile. Il modello così si innesta in un percorso ove potrà essere perfezionato, integrato, perfino sostituito con un altro, in una scala che probabilmente – almeno finché esiste la specie umana – non vedrà mai l’ultimo gradino.

Si potrebbe dire, in altri termini, che l’universo è fatto per essere pensato. Per essere pensato è necessario un modello, qualcosa che sia – come dicevamo – lavorabile dalla mente. Del resto, nell’approccio scientifico in senso più vasto, il modello è proprio l’interfaccia necessaria ed insostituibile attraverso la quale possiamo (ri)appropriarci del reale, in senso squisitamente misurabile: possiamo ricondurlo nell’ambito di ciò che comprendiamo. Possiamo pensare un modello come ad una rete di rapporti logici stesa sopra la realtà, che ci guida e ci aiuta nel percorso della sua progressiva comprensione.

Il punto è che – per la prima volta nella storia umana – è come se non avessimo alcun modello di Universo. Per essere più precisi: è chiaro che ce lo abbiamo, in realtà. E’ che non è più patrimonio delle persone comuni, in sostanza. E questo, proprio quando tale modello è così definito ed articolato come non lo è stato mai. Di più, con Einstein il modello cosmologico è entrato a pieno titolo nell’ambito dell’empirismo scientifico, aderendo ai suoi canoni e sposando la sua impostazione ideale, il suo schema di pensiero.

Con questo ha abbandonato definitivamente il territorio del mito, territorio che è stato suo per molti secoli. E’ stato un passaggio certamente necessario, portatore di una grandissima quantità di ricadute pratiche e teoriche. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che insieme ai benefici questo ha portato anche alcuni problemi. Problemi che vanno esaminati: non certo per tornare indietro o per discutere sterilmente la linea di sviluppo della scienza, ma per tentare un recupero di alcuni aspetti del sapere che riportino, in prospettiva, verso una scienza meno tecnicistica ma più organica al sistema umano dei saperi.

Il primo e il più grave dei problemi è stato – come si accennava – il progressivo scollamento dal senso comune delle persone. I modelli mitici di Universo erano – ad un primo livello – tutti facilmente comprensibili, erano assimilabili dalla gran parte delle persone. Erano proprio elaborati per essere comprensibili. Ripeto, non si tratta in questa sede di discutere quanto fossero improbabili (agli occhi moderni), non è questo il punto. Si tratta di vedere quanto, con la loro comunicabilità, potessero facilmente entrare in circolo nelle persone, formare una base di ragionamento e di esperienza comune, costituire un framework entro cui, idealmente, la vita delle persone poteva innestarsi, crescere, prosperare.

Ecco, questo forse si è perso, nell’epoca moderna. L’uomo di oggi, che non sia uno scienziato, guarda con sfiducia e sospetto alla possibilità di comprendere ancora la natura intima del cosmo. Di poter dire una parola sull’universo. Perché di fatto, tale natura – sposando necessariamente un formalismo matematico complesso – è diventato un appannaggio esclusivo di alcuni iniziati, ai quali solo sembra ormai riservata la possibilità di sapere davvero come questo Universo realmente sia.

C’è dunque un urgente bisogno di trasmettere al pubblico più vasto una nozione ragionevole di come pensiamo sia adesso l’universo. C’è bisogno, come primo approccio, di mettere da parte il rigore delle formule matematiche – sempre indispensabile a chiunque voglia incamminarsi verso un serio lavoro di conoscenza e verifica – per sporcarsi le mani con una descrizione in forma di racconto che riprenda il fascino degli antichi miti, rivestendolo di conoscenza moderna.

Descrizione raccontata che sarà sempre e invariabilmente perfettibile, e sanamente incompleta. Da diffondere e raccogliere con grande umiltà e accorta consapevolezza del limite intrinseco di questa processo di traduzione in parole, di declinazione in racconto di ciò che per sua natura si esprime compitamente attraverso il mezzo dell’espressività matematica, chiave di accesso indispensabile per operare pienamente con il modello di riferimento.

Un procedimento sempre sanamente rischioso perché – ad uno sguardo superficiale – assai facilmente assimilabile a tante pulsioni new age che pure tentano di sopperire ad un bisogno reale, quello della comprensibilità del mondo e del nostro ruolo all’interno di esso. Tentazioni che non intendiamo qui demonizzare, ma registrare appunto come evidenza sempre più stringente della necessità di un percorso serio e meditato, da svolgersi con competenza ed accortezza. Un percorso che porti la scienza ad essere ancora raccontabile. 

Perché il racconto, la magica concatenazione di parole che gode di un potere di seduzione antico e potente, è per l’uomo la forma suprema di conoscenza ed insieme di fiducia nella struttura del reale, struttura  che sia ancora comprensibile, ed in fondo, ancora amica.

L’evento delle onde gravitazionali ha messo tutti di fronte al fatto che la gente vuole sapere. Vuole sapere dell’Universo, vuole capire cosa si muove anche nei fenomeni più lontani dalla vita comune, come lo scontro e la fusione di buchi neri giganteschi, che genera queste elusive increspature del tessuto spaziotemporale. Vuole capire e partecipare al destino del cosmo.

E’ dunque una sfida attualissima. Ed è una sfida che noi scienziati non dobbiamo lasciar cadere.

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Medea, o della violenza d’ogni utopia…

Ieri sera siamo andati a teatro. 
Siamo andati a vedere Medea, al Ghione, con Barbara de Rossi
Intanto. Lei brava, bravissima, nella parte. 
Così recita il sito del Ghione, al proposito dello spettacolo:

La Medea di Anouilh ha una struttura drammaturgica molto forte e caratteristiche specifiche ed originali che la rendono unica ed è stato questo ad affascinarmi. In pochi testi come in questo ho trovato la perfezione della drammaturgia unirsi alla costruzione di personaggi teatrali dalla potenza tragica strepitosa e ad un’indagine psicologica straordinaria. La mia regia, di matrice classica ma attenta sempre al lato simbolico e immaginifico di un testo, seguirà la via dello scavo psicologico nei personaggi e nei loro rapporti dolorosi e dolenti e seguirà la via, indicata da Anouilh, che mirabilmente rende sentimenti e rapporti sempre più assoluti e universali, nella loro più scoperta quanto complessa umanità.

Sulla qualità della recitazione e sulle scelte stilistiche rimando volentieri al post sul sito La Platea. Noto, al proposito, quanto sia davvero curioso come sia io che mia moglie – da perfetti profani di cose teatrali – abbiamo comunque più o meno commentato allo stesso modo del sito, uscendo dal teatro.
Per quanto riguarda il testo di Jean Anouilh (sì, faccio il culturale ma è  appena da ieri che so l’esistenza di una persona di tal nome): è anche un testo un po’ pesante, in alcuni momenti, inutile negarlo. Richiede attenzione concentrata, non proprio semplice arrivati a sera di una giornata di lavoro. Però bello. E bello sopratutto – per me – quando ad un certo punto mi si è accesa una spia nel cervello, quando ho trovato una (mia?) chiave interpretativa di ciò che mi stava accadendo davanti, dell’evento al quale stavo assistendo.

Medea, particolare (Henri Klagmann)

Vorrei di seguito parlare solo di questa modalità di lettura che mi ha intrigato, ben consapevole che questa non esaurisce assolutamente i diversi modi di entrare nel testo, le diverse modalità di lettura e di interpretazione. Tutt’altro! E’ appena il mio modo, quello che mi si è offerto spontaneamente, come occasione per un mio viaggio personale dentro il dramma di Medea, come possibilità offertami per portare via qualcosa per me, da quello che vedevo ed ascoltavo.

Ed è questo: che l’amore di Medea (e di Giasone, sia pur con diverse sfumature psicologiche) è pazzo, è intrinsecamente violento e potenzialmente omicida, quando pretende di essere totalizzante, quando viene investito, da parte dei protagonisti, dall’esigenza terribile di essere la chiave per la felicità e la realizzazione umana. Non una cosa tra le tante, una cosa da collocare in un contesto più vasto, ma la cosa. 
Ecco che allora, investito da questo compito impossibile, l’amore stesso si avvelena, per il fatto stesso – a mio avviso – d’esser spinto su di un registro che non può assumere, che non può mantenere se non per pochi illusori istanti. Ecco che iniziano tutte le disgrazie, parte implacabile la catena di sciagure. Ecco che un amore così snaturato esige sacrifici, anche sacrifici umani, in questo caso (e non solo). Tutto viene inopinatamente ed inevitabilmente offerto a questo altare muto, a questo idolo che non risponde se non lasciando che si generi altra inutile violenza e strazio. In questo senso – perlomeno, io lo avverto – è un messaggio estremamente attuale ed estremamente pregnante. E’ una cosa attualissima ed un pericolo concreto, un pericolo ed una tentazione con i quali fare i conti ogni giorno, ogni minuto.
Mettere la speranza di realizzazione in un rapporto, affidare a questo stesso la riuscita umana, è una tentazione fortissima ed è anche un fortissimo pericolo. 
Così, con questa intuizione, mi si è dischiusa improvvisamente e luminosamente la comprensione vera, concreta, di questa tragedia. Perché poi non c’è niente da fare, una cosa la capisci solo quando influenza te, la tua vita, in un dato momento – quando ti tocca concretamente, tocca una cosa che ti interessa: illumina una zona che vuoi davvero capire, capire meglio. 
E a contraltare a Medea e a Giasone, condotti alla violenza nel tentativo di sacrificarsi alla totalità menzognera del loro ideale (in questo caso sessuale, ma qualche anno fa sarebbe stato politico: è lo stesso), mi pare che faccia da efficace e luminoso contraltare la figura della nutrice di Medea stessa. Con il suo reiterato ma io voglio vivere che oppone caparbiamente ai propositi suicidi/omicidi della protagonista, segna un possibile ritorno alla semplice e luminosa bellezza della piccole cose (la minestra calda, il goccetto prima di dormire… fino alla sua scansione dettagliata e quasi commovente di una giornata “normale”, fatta in modo delicato e partecipe), della molteplicità dei valori e del fatto che la vita deve essere composita, per fiorire. E’ il riconoscimento di un orizzonte più vasto, e risanato e risanante. Che se a volte sembra pur eclissarsi di fonte al fervore violento della passione di Medea e Giasone, palesandosi come scelta debole, disarmata, però poi riaffiora sempre, come segno di un substrato costante, davvero sommesso ma davvero invincibile.
In questo senso, mi appare semplicemente stupenda la chiusa del dramma (attenzione, spoiler…). Segnatamente, lo scambio di parole conclusivo che avviene tra la nutrice e il messaggero. Poche battute su una cosa normale, perfino banale: sul raccolto di quest’anno. Alla nutrice che si informa (ma Medea l’avrebbe mai chiesto? E Giasone? No, troppo presi nella loro pretesa di trovare la felicità secondo la loro strada!), il messaggero risponde, pacato, che ci sarà pane per tutti, quest’anno. Non ci possiamo lamentare.
Ecco, da qui ripartire. Adesso e ogni giorno, ogni mattina.

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GruppoLocale su Telegram

Potremmo metterla così, dopotutto: da bravi scienziati, ci piace sperimentare. Ed in particolare ci piace molto sperimentare varie possibili declinazioni tecniche della nostra idea, che è segnatamente quella di coltivare lo studio del cielo sotto i più diversi aspetti (scientifico, certamente, ma anche artistico e culturale), sempre per ricercare un momento di sintesi creativa di cui, a nostro avviso, si avverte sempre di più la urgente necessità. E’ infatti proprio questo l’intento che ci anima, e insieme la specifica impronta che speriamo di poter imprimere, nel nostro piccolo, nel panorama dell’informazione sulla Rete.

Una declinazione tecnica che si sta ritagliando un profilo sempre più definito e interessante è senz’altro quella di Telegram, il programma di messaggistica “alternativo” al più noto WhatsUp. Di fatto, le possibilità di Telegram si sono rapidamente evolute fino a delineare un prodotto di indubbio interesse, tale infatti da calamitare l’attenzione anche di quotidiani importanti.

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Photo Credit: Desiree Catani via Compfight cc

Al di là della curiosità stessa per i nuovi modi di comunicazione, in perpetuo e rapido mutamento, a noi interessa appena proseguire ed estendere il nostro modo di guardare al cielo e alle stelle nelle modalità tecniche di volta in volta ritenute più appropriate. Per questo, un pochino incuriositi dalla progessiva diffusione di questo mezzo, abbiamo deciso di aprire un canale ed un gruppo Telegram: il canale permette di ricevere le notizie più importanti o curiose, laddove il gruppo è un ambito di discussione e di confronto, sempre (auspicabilmente) incentrato sui temi del sito.

Sono appena due esperimenti, allo stato attuale: in particolare il canale – in un tempo relativamente breve – ha superato le ottanta persone iscritte, e possiamo considerarlo un buon risultato. Il gruppo è certo troppo giovane per essere valutato, dunque vedremo nel tempo come si sviluppa.

Pertanto invitiamo gli utilizzatori di Telegram a supportare con la loro adesione, se credono, la nostra presenza su questo segmento di Internet. Al di là dello specifico dato tecnico, ci piace ribadirlo, a noi preme sempre e soltanto questo: approfondire e diffondere una modalità nuova (e al tempo stesso antichissima) di guardare al cielo, una modalità che non separi ma integri, che non distingua ma unisca. In fondo, proprio come fa il cielo stesso, che in un enorme abbraccio comprende ed accoglie tutto il variegato e pulsante universo dell’umana avventura.

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Mancanza

Così disperso in quello che manca, da non vedere quello che c’è. Perché sono puntato sulla mancanza, forse per una ferita antica. Sì, quella ferita. Che ancora mi chiede di tornare in aiuto al me stesso di allora, di stipulare una nuova inedita amicizia. Quella per cui veramente diventi possibile darsi pace, per guarire e fiorire in una nuova stagione della vita. Del cuore.
A volte la mancanza si fa così sentire che faccio fatica a respirare. Fermo la realtà come in un fotogramma sospeso, e sento acutamente quello che, appunto, non c’è. Sento la mancanza di un istante di compassione in grado di attraversare – come un’onda benefica – tutto me, di legare tutto insieme, nuovamente.

Photo Credit: vale ♡ via Compfight cc
Non c’è, a volte non c’è proprio altro.
Non c’è nulla che non sia la compassione, in grado di legare tutto insieme e di attraversare tutto. C’è un insieme di cose che – se non ammorbidite così – ben presto si innestano accanite in una lotta senza quartiere, una mutua ostilità che rischia proprio di far perdere la pace. 
Non riesco a pensare alla possibilità di pace senza la misericordia. Non mi viene possibile. E’ chiaro che essendo tutto pieno di una mancanza, a volte così mancanza che straborda nel suo mancare, non c’è in fondo altra possibilità per rilassare i muscoli, per trovare un piano dove appoggiare la mente.
Ci vuole proprio qualcosa, una struttura, un luogo al quale tornare, per confutare perennemente le storture di una errata percezione di me stesso, io sono così e non sono a posto… Una struttura, un luogo, dove viene sussurrato pacificamente tu sei così e vai benissimo. Credimi, ti prego. Tu sei così e mi piaci, mi piaci tanto.

Dice bene Eugenio Borgna, non a caso (dico io), professore emerito di psichiatria:

«A differenza della ragione fredda e astratta, il cuore imbattendosi nella realtà, ascoltandola, ci consente di coglierne il significato profondo fino però a percepire una mancanza struggente: la mancanza di infinito. E in questo ne sente tutta l’essenza dolorosa e straziata. Una mancanza che Leopardi, Pascal e lo stesso don Giussani hanno descritto come qualcosa di strutturale dell’uomo» 

Ecco qui. Io non sento proprio di aver bisogno di particolari prescrizioni o proibizioni, non cerco affannosamente riparo in una casistica morale strutturata e dettagliata. Al limite, la normativa mi lascia un po’ freddo, un po’ preoccupato per la mia perenne – quasi strutturale –  inadempienza. Sento invece di aver molto, molto bisogno di sentire questa voce rassicurante, dentro di me… tu sei così e accidenti, mi piaci, mi piaci tanto.

Se ascolto questo tu mi piaci (che a volte – per grazia celeste – si intravede come spuma brillante sotto l’ordito del reale) comincio a far pace con me stesso, almeno un po’. Poi forse l’ipotesi di cambiare, in qualche modo imprevisto, può innestarsi naturalmente perché uno da subito comincia a respirare in modo diverso, a guardarsi in modo diverso, a guardare le persone in modo diverso. Nel complesso, ha meno affanno di afferrare qualcosa da portare via dal freddo, perché il freddo ha fatto un passo indietro, o almeno mezzo passo indietro.

Si può timidamente iniziare a coltivare l’idea di una qualche forma di bellezza che affiora qui e là. Transitoria e momentanea, se volete, ma anche irresistibilmente affiorante. Visibile.

E’ anche – e soprattutto – una cosa di respiro. Magari si può iniziare a respirare un po’ meglio, magari si inizia a rilassare l’elastico tra quello che uno vorrebbe essere e quello che è, perché non è poi così decisivo il fatto che uno metta tutto a posto, subito. Se perfino come è, impresentabile come è, viene amato, ecco, uno comincia a dire ok, va bene, posso iniziare a rilassarmi. 

Certo un amore senza condizioni è un flusso benefico dove uno inizia a tranquillizzarsi, a distendere le gambe, a rilassare gli arti troppo spesso contratti, nell’inseguimento inutile di certi modelli di comportamento. Messo così in ordine, inizia un po’ anche a guardarsi intorno, a guardare davvero. Tanto la faccenda fondamentale è a posto, uno è amato. Così sente meno la mancanza, almeno, non la sente proprio sempre. E l’allarme rimane, certo: ma si smorza un po’. E appena si smorza si vedono un po’ meglio le cose, si sentono meglio. 
I sapori.
I colori.
Gli odori.
Il tocco di una persona.
Gli istanti mezzi accennati.
I giorni lustri del ricordo.
Un parlare sommesso
Qualcosa che va avanti ed è
sottilmente grandissimo e 
tu ne fai parte –
come per un dono
proprio per un dono – 
ne fai parte

Cambia il livello di gioco, è diversa la partita. La mancanza non devi più sforzarti di riempirla. Ma poi: non riusciresti mai, lascia stare. Quel che puoi fare è cedere, allentare le rigidità, renderti materia plasmabile, non fare opposizione. L’idea di mettersi a guisa di spettatore di sé stessi, vedere se viene ripianata – almeno ogni tanto – senza tuo sforzo è veramente intrigante.

Forse il senso di mancanza è lo stimolo più persuasivo a dismettere la pretesa sempre riaffiorante di angosciosa, irriflessiva autosufficienza. E finalmente lasciarsi fare, lasciarsi plasmare, lasciarsi amare.

Non per dire, ma mi consola parecchio capire che questo atto del cedere è qualcosa di sempre possibile, perché in fondo ha a che vedere con il nostro atteggiamento e non con la nostra capacità .

Qualcosa che potrebbe perfino, chessò, rimettere un po’ tutto in ballo.

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Ascoltando lo Spazio Tempo

La prova che lo spazio-tempo possa essere curvato stimola la fantasia degli addetti ai lavori, come abbiamo documentato anche in questo sito. Finalmente l’Universo può essere ascoltato attraverso nuovi strumenti aprendo l’orizzonte a spazi di conoscenza inaspettati. Ma quali gli scenari e le implicazioni che derivano dalla registrazione del segnale generato dalla fusione di due buchi neri? Come impiegare le onde gravitazionali? E a quale scopo? Sono domande queste che mi sono sentito rivolgere – e a piena ragione – in questi ultimi giorni, nello scenario elettrizzante e piacevolmente convulso seguito alla tanto agognata rilevazione delle onde medesime, ad un secolo esatto dalla loro predizione teorica.

Se ne parlerà Venerdì 11 marzo, alle ore 17:00, presso il SAPERmercato di Frascati, durante l’evento Ascoltando lo Spazio-Tempo dedicato alle onde gravitazionali e alle loro possibili applicazioni.

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L’incontro, organizzato dall’Associazione Frascati Scienza è parte degli eventi di lancio della Notte Europea dei Ricercatori 2016, progetto promosso dalla Commissione Europea, coordinato e realizzato da Frascati Scienza.

Ospite d’eccezione, Paola Puppo, ricercatrice dell’INFN di Roma, membro della collaborazione internazionale LIGO-Virgo che ha annunciato la scoperta delle onde gravitazionali rivelate dagli interferometri statunitensi LIGO. In particolare, la Dott.ssa Puppo fa parte del team che si occupa delle sofisticate sospensioni degli specchi dell’interferometro Virgo di Cascina (Pisa), che ne attenuano le vibrazioni sismiche e termiche. È questo un punto di forza delle antenne gravitazionali che ha permesso di raggiungere sensibilità tali da captare il flebile segnale dell’onda gravitazionale proveniente dalla ‘danza’ finale di due buchi neri che si uniscono fino a formare un unico buco nero di massa più grande.

Ma oltre la scoperta, che dimostra accora una volta la validità della più bella teoria mai pensata dall’uomo, e alla magnificenza della tecnologia che ha permesso di raggiungere la sensibilità necessaria alla scoperta, cosa ci riservano le onde gravitazionali nel futuro?

L’incontro si svolgerà presso il SAPERmercato, ex mercato coperto di Frascati, una vera e propria installazione urbana della scienza e della conoscenza. Una realtà che è nata durante l’ultima edizione della Notte Europea dei Ricercatori e che rappresenta un sistema innovativo per diffondere contenuti scientifici ai cittadini, il ‘Saper Comune’ in un luogo inconsueto per la scienza.

Qui potete scaricare la locandina dell’evento.

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