Ieri sera siamo andati a teatro. 
Siamo andati a vedere Medea, al Ghione, con Barbara de Rossi
Intanto. Lei brava, bravissima, nella parte. 
Così recita il sito del Ghione, al proposito dello spettacolo:

La Medea di Anouilh ha una struttura drammaturgica molto forte e caratteristiche specifiche ed originali che la rendono unica ed è stato questo ad affascinarmi. In pochi testi come in questo ho trovato la perfezione della drammaturgia unirsi alla costruzione di personaggi teatrali dalla potenza tragica strepitosa e ad un’indagine psicologica straordinaria. La mia regia, di matrice classica ma attenta sempre al lato simbolico e immaginifico di un testo, seguirà la via dello scavo psicologico nei personaggi e nei loro rapporti dolorosi e dolenti e seguirà la via, indicata da Anouilh, che mirabilmente rende sentimenti e rapporti sempre più assoluti e universali, nella loro più scoperta quanto complessa umanità.

Sulla qualità della recitazione e sulle scelte stilistiche rimando volentieri al post sul sito La Platea. Noto, al proposito, quanto sia davvero curioso come sia io che mia moglie – da perfetti profani di cose teatrali – abbiamo comunque più o meno commentato allo stesso modo del sito, uscendo dal teatro.
Per quanto riguarda il testo di Jean Anouilh (sì, faccio il culturale ma è  appena da ieri che so l’esistenza di una persona di tal nome): è anche un testo un po’ pesante, in alcuni momenti, inutile negarlo. Richiede attenzione concentrata, non proprio semplice arrivati a sera di una giornata di lavoro. Però bello. E bello sopratutto – per me – quando ad un certo punto mi si è accesa una spia nel cervello, quando ho trovato una (mia?) chiave interpretativa di ciò che mi stava accadendo davanti, dell’evento al quale stavo assistendo.

Medea, particolare (Henri Klagmann)

Vorrei di seguito parlare solo di questa modalità di lettura che mi ha intrigato, ben consapevole che questa non esaurisce assolutamente i diversi modi di entrare nel testo, le diverse modalità di lettura e di interpretazione. Tutt’altro! E’ appena il mio modo, quello che mi si è offerto spontaneamente, come occasione per un mio viaggio personale dentro il dramma di Medea, come possibilità offertami per portare via qualcosa per me, da quello che vedevo ed ascoltavo.

Ed è questo: che l’amore di Medea (e di Giasone, sia pur con diverse sfumature psicologiche) è pazzo, è intrinsecamente violento e potenzialmente omicida, quando pretende di essere totalizzante, quando viene investito, da parte dei protagonisti, dall’esigenza terribile di essere la chiave per la felicità e la realizzazione umana. Non una cosa tra le tante, una cosa da collocare in un contesto più vasto, ma la cosa. 
Ecco che allora, investito da questo compito impossibile, l’amore stesso si avvelena, per il fatto stesso – a mio avviso – d’esser spinto su di un registro che non può assumere, che non può mantenere se non per pochi illusori istanti. Ecco che iniziano tutte le disgrazie, parte implacabile la catena di sciagure. Ecco che un amore così snaturato esige sacrifici, anche sacrifici umani, in questo caso (e non solo). Tutto viene inopinatamente ed inevitabilmente offerto a questo altare muto, a questo idolo che non risponde se non lasciando che si generi altra inutile violenza e strazio. In questo senso – perlomeno, io lo avverto – è un messaggio estremamente attuale ed estremamente pregnante. E’ una cosa attualissima ed un pericolo concreto, un pericolo ed una tentazione con i quali fare i conti ogni giorno, ogni minuto.
Mettere la speranza di realizzazione in un rapporto, affidare a questo stesso la riuscita umana, è una tentazione fortissima ed è anche un fortissimo pericolo. 
Così, con questa intuizione, mi si è dischiusa improvvisamente e luminosamente la comprensione vera, concreta, di questa tragedia. Perché poi non c’è niente da fare, una cosa la capisci solo quando influenza te, la tua vita, in un dato momento – quando ti tocca concretamente, tocca una cosa che ti interessa: illumina una zona che vuoi davvero capire, capire meglio. 
E a contraltare a Medea e a Giasone, condotti alla violenza nel tentativo di sacrificarsi alla totalità menzognera del loro ideale (in questo caso sessuale, ma qualche anno fa sarebbe stato politico: è lo stesso), mi pare che faccia da efficace e luminoso contraltare la figura della nutrice di Medea stessa. Con il suo reiterato ma io voglio vivere che oppone caparbiamente ai propositi suicidi/omicidi della protagonista, segna un possibile ritorno alla semplice e luminosa bellezza della piccole cose (la minestra calda, il goccetto prima di dormire… fino alla sua scansione dettagliata e quasi commovente di una giornata “normale”, fatta in modo delicato e partecipe), della molteplicità dei valori e del fatto che la vita deve essere composita, per fiorire. E’ il riconoscimento di un orizzonte più vasto, e risanato e risanante. Che se a volte sembra pur eclissarsi di fonte al fervore violento della passione di Medea e Giasone, palesandosi come scelta debole, disarmata, però poi riaffiora sempre, come segno di un substrato costante, davvero sommesso ma davvero invincibile.
In questo senso, mi appare semplicemente stupenda la chiusa del dramma (attenzione, spoiler…). Segnatamente, lo scambio di parole conclusivo che avviene tra la nutrice e il messaggero. Poche battute su una cosa normale, perfino banale: sul raccolto di quest’anno. Alla nutrice che si informa (ma Medea l’avrebbe mai chiesto? E Giasone? No, troppo presi nella loro pretesa di trovare la felicità secondo la loro strada!), il messaggero risponde, pacato, che ci sarà pane per tutti, quest’anno. Non ci possiamo lamentare.
Ecco, da qui ripartire. Adesso e ogni giorno, ogni mattina.

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