Se adesso parlo del film Lo chiamavano Jeeg Robot – badate bene – non è per tentare una recensione. D’altra parte, c’è chi lo fa già molto bene. E’ invece occasione per prendere spunto e ragionare su delle suggestioni, dei frammenti luminosi. Attraversare con la mente e il cuore delle immagini, dei suoni, dei volti. Dei sorrisi, dei corpi.

Non spendo parole sulla trama, questa d’altra parte si può agevolmente reperire in rete. Non le spendo non perché non sia importante, ma direi male delle cose e ruberei invece spazio a quello che davvero voglio dire.

Enzo ed Alessia, in una sequenza del film…

Mi spiazza, intanto. Già dai primi istanti capisco che non può scorrere via senza lasciami un graffio, una ferita. Molto crudo per diversi aspetti. Sarò io che non sono abituato a certe scene così forti, ma faccio fatica a digerire il primo tempo. Le immagini decisamente non mi accarezzano.

E’ appena una azzardata analogia, ma in un certo senso mi rimanda a Delitto e Castigo, per quella parte di desolazione e violenza che si espande, si espande fino a farti sentire una stretta al cuore, farti intendere che è tutto, che è tutto quello che esiste. E che comunque, se pur esiste altro, qui ed ora, se pure esistesse: ebbene, in questo universo, in questa borgata romana, non entra, non detta regole, non istruisce il reale. E’ come se fosse altrove, distante, disperso. Ultimamente, dunque, è come se non esistesse. Lo sai bene, ormai: quello che non avverti, in fondo, per te non esiste. E’ un puro nome, vuoto.

A volte sembra che devi arrivare in fondo, completamente in fondo. Che devi lasciare ogni riserva residua, ogni spazio mentale per dire ma tanto cambierà. Abbandonare ogni tua strategia per cambiare. Devi arrivare ad accogliere quello che succede, esattamente come succede. Sembra a volte che solo lì, solo davanti ad una tua resa completa, possano accadere quegli imprevisti che ti rimettono in gioco.

Sì è un film crudo, sicuramente. Ma questo registro espressivo, si scopre piano piano, non è gratuito, non è fine a se stesso. Perché il contrasto è più vero, poi, te lo senti addosso. Il contrasto con la bellezza e la dolcezza che poi fioriscono, sbocciano (come avviene nell’ultima parte del romanzo di Dostoevskij attraverso la presenza carnale di Sonja). Ma no, non appena il contrasto. Perché non si procede per contrasti, ma per compenetrazioni. Ecco se dovessi descrivere il punto infuocato del film, direi questo: la bellezza che fiorisce dove non ti aspetti.
Ma ancora, non è appena questo. E’ molto di più. Che la bellezza, la dolcezza, arrivi in una situazione di estrema violenza e totale disincanto, materialismo arruffato e totale, pornografia e disperazione, uno se lo può anche aspettare. Può contemplarne la possibilità, diciamo. Ma metti caso invece che la bellezza e la dolcezza non piombino intatte ed inossidabili dall’esterno, al suono limpido e trionfale di un hollywoodianamente salvifico arrivano i nostri. A questo siamo abituati, è roba vista. E’ consona al nostro modo pigro di pensare.

No, quello che mi colpisce dentro, davvero, è accorgermi di una bellezza che fiorisce dentro alla miseria e al degrado. Che non arriva da fuori, in una improbabile (ed ultimamente irritante) esportazione della virtù impermeabile a ciò che incontra ed ansiosa soltanto di redimere. Invece, una bellezza che sposa completamente, accoglie integralmente lo spaziotempo in cui si trova, vive e si sviluppa e brilla in quell’esatto sistema di rapporti. Non ha l’ansia di redimere il marcio, perché nel marcio fiorisce: non perché ami il marcio (anche non si fa problema di questo), ma è perché lì ha la sua funzione d’essere (diceva del resto il grande Fabrizio de André, che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior).

Così seguo Enzo, questo ladruncolo di Tor Bella Monaca, nella sua vita di espedienti e di miseria morale e materiale. Lo seguo, lo spio nella miseria della sua vita quotidiana, fino a che mi viene addosso la sensazione che niente la possa cambiare. E io, così infarcito di pensieri borghesi e di trito buon senso, sarei tentato di lasciar perdere, di non guardare più, di pensare ad altri, ad altro. A darlo per perso. Siamo tutti d’accordo, noi gente per bene, Enzo è perso. 

Però il cuore non è contento. Dire Enzo è perso non lo fa contento. Lo rende pratico, calcolatore, pieno di buon senso (e come non può essere perso, non lo vedi? Perché impiegarci tempo? Ma lo vedi che fa?). Perché non c’è niente da fare – il cuore è contento solo se gli viene spiaccicata davanti la notizia che nessuno è mai perso, nessuno mai. Fino all’ultimo.

Come grida al mondo il cuore di Papa Francesco, tra l’altro. Esattamente così. Dice cose enormi così, e io poi le riduco continuamente alla mia piccola misura. Davvero, sarebbe da prendermi a schiaffi. Ma intendetemi: con gioia, non con rancore. Sì, prendermi a schiaffi (non troppo forte, ovviamente…) con gioia, ridendo come un pazzo, perché vuol dire che mi sto finalmente svegliando.

Così l’amore, inaspettato, inatteso: insomma è quello il canale. Che riversa grazia, dolcezza, che innesta un cambiamento. Siamo seri, nessun discorso, nessuna predica o nessun atteggiamento da crocerossina, nessuna ansia redentrice sarebbero serviti, in quel misero comprensorio di Tor Bella Monaca. E’ l’amore che apre un canale, lo apre quando e dove dice lui.

L’amore è davvero capace di cambiare una persona. Ci sono certi superpoteri in ballo (per la cronaca, pare che fare il bagno nel Tevere non faccia sempre così male, anche se vi invito a non provare). Ma il vero superpotere è l’amore di Alessia. Anche qui, una che all’inizio non gli avresti dato un euro. Una così disturbata e sfortunata nella vita che sono tentato, anche qui, di darla per persa.

Sono tentato, sì, perché il mio modo di ragionare è orribilmente convenzionale. E’ il modo di chi non si aspetta nulla, anche se sostiene tanto spesso il contrario. Dunque è un modo orrendamente volgare, della vera volgarità profonda. Non sono volgari i DVD di film porno che si accumulano nell’appartamento fatiscente di Enzo, suo apparente unico svago. Quella è l’espressione di un grido, semmai. E’ molto più volgare il sentimento borghese di non aspettarsi nulla. Questa è la vera , suprema volgarità. E mi dispiace di essere così spesso volgare, così spesso sporco. Ma sono contento di quanto me ne accorgo, di quanto occasioni come questa me ne fanno accorgere. Perché respiro, respiro di nuovo.

L’amore di Alessia, un amore gratuito, innesta un cambiamento. L’amore cambia, non un discorso. Un amore sbagliato, se volete: che nasce nei posti sbagliati, che si alimenta in modo – se volete – approssimativo e rozzo (significativa che l’unico amplesso venga consumato in fretta e in un posto decisamente poco poetico come un centro commerciale). Ma all’amore questo non importa nulla, non gliene può fregà de meno (per dirla alla romana, tanto per fedeltà alla location).

L’amore di Alessia, la sua morbidezza, il suo stesso seno che viene incorniciato in molte sequenze (vabbé, io ci ho fatto caso, lo ammetto…) come silenzioso ma tenace contraltare alla violenza efferata di diverse scene, come vera bellezza disarmata, rimando ultimo ad una possibile promessa di dolcezza, di accoglienza totale… Ecco cosa compie il miracolo, ecco cosa rende Enzo capace di cose che non avrebbe mai pensato di poter fare. E soprattutto, non avrebbe mai pensato di voler fare. 

Perché l’amore sboccia dove vuole, e quando vuole. E ognuno può essere salvato, e può a sua volta salvare, se preso in braccio da questo amore. Ognuno, sempre. Sì fa fatica capirlo davvero, perché capirlo vuol dire, in fondo, rinunciare al nostro delirio di progettualità e alla nostra ipertrofia del giudizio (sugli altri, e su noi stessi).

Vuol dire solo questo, arrendersi a questo Amore. 

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