La verità, quella verità per cui si muore a Bruxelles o si vive in politica da corrotti cercando di arraffare quanto più possibile, quella verità per cui vediamo ogni giorno ondate di migranti sulle nostre coste o ai nostri confini, è molto semplice: dentro di noi c’è un grido che solo se viene fuori, solo se il cuore lo esprime in tutta la sua imponenza, può davvero essere abbracciato, amato e voluto.

 e per una volta sento le parole che esigono che si esca, che si esca dal parlare tanto per parlare, dalla terribile e temibile dinamica per cui il parlare – in fondo – non fa che propagare sé stesso. Il parlare tanto per parlare convinti che non cambi nulla, è il vero inferno, è il posto dove non accade nulla, non accade nulla che già non si sappia, che già non si conosca. 
Qui invece la parola scava e ricerca una consapevolezza nuova, ci interpella perché si faccia un percorso, si inizi e si riprenda un cammino. Il cammino verso noi stessi, esattamente. D’altra parte una storia di fede è sempre un cammino verso la scoperta di sé, il disvelamento di sé. 
Ed ogni cammino interessante è un cammino di cura, è un percorso verso la Cura.
Quel grido, appunto, è un cardine della cura, di ogni cura. Qui c’è la vera rivoluzione. Quel grido che così spesso nella vita cerchiamo di soffocare, di normalizzare, deve invece venire fuori, deve esprimersi. Deve occupare tempo e spazio, riprendere una sua integra dignità. Deve esistere. 
lo sono il mio grido e il mio grido deve esistere.
D’altra parte cosa vuole il grido, se non esprimersi? Cosa vuole il bambino ferito dentro di noi, se non farsi ascoltare, una buona volta? Se non sentire che la sua immensa paura non è più condannata o nascosta, ma amorevolmente accolta? Solo così, una volta tranquillizzato, inizierà a dialogare con noi, a mostrarci anche dei giochi, ad interessarsi ed incuriosirsi. E torneremo a respirare, a darci pace. Attraverso il dolore, inevitabile in certa misura, arriveremo ad essere più umani…

 … il dolore ci mette in ginocchio e ci apre la possibilità che il misterioso desiderio che ci abita emerga, esploda e — infine — possa essere ascoltato. Non c’è risposta senza domanda.

C’è tutto un mondo a rovescio, c’è il modo di rovesciare il nostro mondo troppo spesso male-detto, male interpretato. C’è il modo di rovesciare il mondo per il quale il dolore non è (appena) una iattura, ma una possibilità. Perché riguarda eminentemente il grido, la possibilità di una risposta.  La risposta a quella ferita aperta, per cui il primo passo, il primo fondamentale passo, è riconoscerla. E’ mostrarla, perché riprende vita la speranza, la speranza di tutte le speranze: la speranza che la ferita venga sanata. 
E siccome la ferità in fondo in fondo si alimenta di questo, della paura di morire, la speranza di risanamento non può che sovvertire questo, affermare assai scomodamente questo, riprendere la dolce speranza di non morire mai. Ovvero di morire ma non morire. 

Il grido infatti è questo, alla fine: fa che io non muoia, che io non scompaia. 
La risposta può germogliare nel cuore, quando uno meno se lo aspetta, quando uno non spera più. Perché la risposta è un imprevisto, è esterna al nostro sistema di pensiero. 
E’ un avvenimento, non un pensiero. 
Non è un capire, la risposta. Ma un essere presi per mano.

Essere accolti. Noi, con il nostro grido.

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