Ed eccomi qui, reduce da una interessante mattinata che, qui in Osservatorio, è stata integralmente dedicata alle onde gravitazionali, con una declinazione che ha compreso una parte più strettamente divulgativa, sviluppata con l’intento di poter essere offerta a tutti (anche al personale amministrativo, che è giusto e doveroso venga coinvolto in qualcosa che è strettamente connesso al loro operare quotidiano), e una scansione di alcuni seminari specifici, dedicati a vari aspetti di questo – possiamo ben dire – nuovo filone di ricerca. 

Non è questa la sede per una disamina dettagliata dei vari interventi, e dunque me ne asterrò, evitando anche di menzionare i nomi dei vari – e pur capaci – relatori. Questo perché il mio intento è altro rispetto ad una mera cronaca, ed è segnatamente quello di trasmettere il senso di eccitazione e di coinvolgimento a largo spettro, che ho potuto percepire in questa mattinata. E che, ripensandoci, posso articolare nel modo seguente.

Prima di tutto, un senso di eccitante mistero. Non è vero che la scienza è noiosa perché si conosce già tutto (vabbé, magari voi non lo pensate, ma io da più giovane invece lo pensavo eccome). E’ vero invece il contrario: la scienza è intrigante perché, nel complesso, è un territorio quasi vergine di esplorazione e scoperta. E le cose che non si sanno sono moltissime. 

Anche in questo caso. Anche in questo caso, cioè, siamo di fronte ad una miscela di ingradienti, miscela che sembra quasi calibrata ad arte per rendere l’impasto complessivo veramente saporito. C’è sicuramente la rilevazione di queste onde (non esattamente scoperta, è stato puntualizzato stamattina, perché segnali indiretti dell’esistenza di queste onde ce ne avevamo già). Questo è un fatto assodato che dà, potremmo dire, il gusto forte al nostro piatto.

Un approccio "nuovo" per un campo nuovo...

Un approccio “rinnovato” per un campo di indagine tutto nuovo…

C’è poi però anche quel sapore particolare, quel gusto che non puoi dire bene, perché ti sfugge… Sì, il gusto di qualcosa di non prevedibile, di non classificabile. Qualcosa che ti sorprende, perché non la conosci. Esatto. C’è il gusto delle cose che ancora non sappiamo, e possiamo sperare di conoscere. Che si declina in una serie di considerazioni, apparentemente, elementari. Si parte dalla localizzazione stessa della sorgente che ha emesso queste onde, sicuramente migliorabile quando altri rilevatori entreranno in funzione (per questioni elementari di “triangolazione cosmica”).

Si prosegue (perché l’appetito vien mangiando…) con lo studio del fenomeno in salsa – come si dice oggi tra noi scienziati -squisitamente multimessenger, ovvero dell’analisi delle implicazioni di tale accadimento su un ampio intervallo di fenomeni celesti a varie lunghezze d’onda, investigati a loro volta da diversi satelliti che risultano già a spasso per il cosmo. Questo è un campo veramente eccitante, perché mette insieme – finalmente – una serie di competenze e tecnologie che sono andate un po’ specializzandosi nel tempo, e magari separandosi, per un obiettivo comune e che richiede un forte senso e capacità di integrazione.

Si è visto assai bene stamattina: dalle teorie di evoluzione stellare (perché le stelle esplodono in supernova, generando i famosi buchi neri? Ancora oggi, non abbiamo modelli affidabili…) alle teorie sull’universo a grande scala (quanti eventi di questo tipo attendersi, in quali galassie?), questa ricerca abbraccia tutto e tutti, in modo naturale, non forzato.

Detto in altri termini (e questo mi sembra il messaggio forte che trasporta implicitamente l’onda), la richiesta che ci viene sempre più pressante dallo studio del cielo (… dal cielo stesso, potremmo azzardare a dire), è che per compiere ulteriori progressi bisogna che abbracciamo la iperspecializzazione moderna superandola allo stesso tempo in una nuova sintesi, che appaia sia concettuale che strettamente operativa. Questo stamattina lo si è visto bene, lo si è proprio assaggiato, per un mini-convegno che riuniva in maniera assolutamente naturale teorici ed osservativi, cosmologi ed evoluzionisti stellari, costruttori di teorie e costruttori di satelliti.

Tutti insieme in un compito, quello di dare vita alla nuova astrofisica gravitazionale, che – in pieno accordo con i tempi stessi della sua “apertura” – richiede un ancora inedito approccio relazionale alla disciplina stessa. Un approccio che – sin dalla necessità di una ampia, rapida e trasparente comunicazione degli eventi di questo tipo, perché vengano seguiti dal maggior numero di strumenti – superi le contrapposizioni e le rivalità tra singoli ricercatori e tra gruppi, e si appoggi ad una realistica e possibile collaborazione, che sia transnazionale e anche al di là di troppe e spesso aride iperspecializzazioni, come si sono andate formando nel tempo.

Questa onda ci sta sospingendo cioè verso un modo più maturo di essere scienziati. Un modo inevitabilmente più relazionale. Sembra che ci stia dicendo se non abbracciate questo nuovo approccio, non mi comprenderete appieno. 

Buffo, in un certo senso. Perché come la relatività è stata l’ultima grande opera di un uomo solo (che è arrivato fino alla previsione esatta di questi fenomeni, poi riscontrati dopo esattamente un secolo), così per abbracciare compiutamente le conseguenze ultime di tale teoria, per esplorare questa nuova finestra osservativa, dobbiamo essere in tanti, e dobbiamo necessariamente e fattivamente abituarci a collaborare.

Magari direte che esagero, ma a me piace pensarla così: che questa onda, dopo averci suggerito – o appena permesso di pensare – un modello di universo forse più amichevole e certamente più interessante, ci stia anche indicando un modello di approccio sicuramente più evoluto, più umanamente significativo. 

A noi cogliere il messaggio: a noi, dunque, cavalcare l’onda. 

Insieme.

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