No, non è affatto immediato realizzare sempre e comunque di essere un astrofisico. Ci sono situazioni e momenti privilegiati, dove ti accorgi che la parola ha un suo determinato effetto. Se vogliamo magari dirlo in maniera scherzosa, dove comprendi che te la puoi vendere bene.
Così è accaduto nella scorsa settimana, e quello che è accaduto mi ha versato nel cuore una buona dose di stupore e — ultimamente — anche di gratitudine.
Tovagliolino di un pranzo a Trevi, scherzosamente istoriato da Andrea Bellaroto
Perché gratitudine? Perché da questa posizione privilegiata — certo a volte scomoda ma indubbiamente privilegiata (i.e., quella di un astrofisico cui la scienza va un po’ stretta se non si ibrida e non si confronta continuamente ed accanitamente con le altre branche del sapere umano)— capisco che si riesce a vedere bene, si riesce a vedere molto.
E non sto parlando appena della posizione o della luminosità delle stelle.
Intendo, dell’animo umano nonché dell’umanissimo desiderio di conoscere e di sapere. E leggere l’uomo attraverso le stelle (calmi, niente a che vedere con l’astrologia) ho scoperto nel tempo che rappresenta una modalità particolare, una posizione probabilmente anomala ma veramente privilegiata, per arrivare esattamente lì, al cuore dell’umano. Il centro vero e pulsante dell’Universo, se vogliamo.
E’ come se, in un certo senso, si dovesse andare lontanissimo, spingersi in alto fino a domandarsi cose anche un po’ scomode, come cos’è tutto quello che c’è intorno a noi, qual è la natura dello scenario in cui siamo immersi. E arrivando così in alto, ecco, si compie un giro, si connettono gli universi, si attraversano di schianto — per qualche ancora sconosciuta legge di natura — misteriosi ed elusivi buchi neri, per sbucare infine dalla parte più interna di tutte, nel centro esatto del cuore dell’uomo.
Perché il cuore dell’uomo sia così legato alle stelle, così in connessione con le stelle, questo non lo so. Ma lo vedo, lo avverto: è così. E più vado avanti, più capisco che è esattamente così. E che forse è il vero ed unico motivo per cui uno come me — con una forte passione per la letteratura e lo scrivere— abbia intrapreso questa carriera di studi così “scientifica”.
Sì, anche nel mio cuore per certi versi si chiude un cerchio. I conti cominciano a tornare — ed iniziano curiosamente a tornare proprio quando mi apro ad altri saperi oltre la matematica, oltre il regno delle scienze esatte.
Così ho attraversato i miei giorni di permanenza ad una settimana di seminari ed incontri decisamente interessante tenutosi a Trevi, L’insurrezione della nuova umanità (sull’incontro e sulle mie impressioni esterne al focus di questo pezzo potete leggerne sul sito Darsi Pace).
Ed ecco, quella frase buttata lì quasi per caso all’atto della mia presentazione, io sono un astrofisico, sì è presto rivelata un formidabile generatore di incontri, colloqui, conversazioni. Un catalizzatore indomito e potente di aperture, spunti, approfondimenti, domande, confronti. Fatti della pasta più preziosa che si può trovare in circolazione, fatti di vera umanità.
Vi avverto: sull’essere astrofisico in mezzo a tanta umanità in ricerca, potrei riempire un libro. Da chi mi raccontava dello stupore dei “suoi” soldati in Afghanistan davanti al cielo stellato, a chi mi domandava dei destini ultimi del cosmo, a chi voleva sapere cosa la scienza ci dice dei multiversi e delle proiezioni olografiche con le quali secondo alcuni modelli matematici si immagina l’universo, a discussioni su quel che dicono persone come la Giuliana Conforto, a tante tante altre ricche occasioni di dialogo.
Alla fine mi sono convinto che sì, c’è bisogno di più astrofisici in giro. Tanto che mi verrebbe da dire, conviene disperderne qualcuno un po’ in ogni ambiente (va bene anche uno per chilometro quadro, come prima stima).

C’è una grande fame di senso, di significato, avvertibile ormai a tutti i livelli.

Questo è abbastanza evidente per quasi tutti (ed è il motivo fondante, tra l’altro, di iniziative come quella di Trevi). Ma il fatto bello e forse non ampiamente meditato, è che questa domanda del chi siamo si incontra e si ibrida quasi inevitabilmente con la domanda del dove siamo. Dove siamo a vasta scala — ovvero cosa è tutto quello che esiste intorno a me.
E non per gioco, o per passatempo intellettuale: perché mi serve per capire cosa c’è dentro di me.

Non c’è niente da fare: devo (anche) capire dove sono per capire profondamente chi sono.

In fin dei conti è stato sempre così, fin dai tempi più antichi. Le stelle — lo sappiano o meno— hanno sempre avuto a che vedere con noi, con il nostro stesso destino. E se oggi giustamente rigettiamo l’astrologia come tentativo credibile di connessione tra l’infinitamente grande e il nostro piccolo, ci tocca comunque di fare il salto, di inventare ed abitare un nuovo modo di collegarci agli astri.
Voglio dire: se finalmente all’astrologia non ci crediamo più, al di là della curiosità o del folklore (e senza dimenticare comunque che per molto tempo è stata intimamente legata all’astronomia stessa, in maniera difficilmente rescindibile), forse vuol dire che da adesso in poi l’astronomia stessa si deve far parte di quella carica di umanità che comunque è parte vitale del nostro vivere e della nostra connessione con il cosmo.
L’astronomia, l’astrofisica si prestano assai bene a fare da cornice ad un nuovo modo di concepire la scienza nel suo insieme, ad una AltraScienza dove tutte le discipline possano non più contrapporsi ma accomodarsi l’una vicino all’altra, in modo dialogico e non conflittuale (quel modo che è stato il perno vivo dell’esperimento di Trevi).
L’astronomia, che scopre sempre di più di abitare un universo misteriosamente relazionale e compartecipe in qualche misura di quel che accade al suo interno, può e deve iniziare ora la paziente tessitura di un quadro nuovo della struttura del cosmo. Nel quale l’uomo, finalmente, può riprendere il posto che gli spetta: quel punto privilegiato in cui l’universo stesso si ricomprende e si abbraccia, in una misteriosa profondissima connessione con tutto.

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