Tu fallo lo stesso / e fallo adesso. Mi rimangono in mente queste parole, scavano dentro. Mi allargano una evidenza di quello che conta, che è sempre e intanto fare ordine all’interno di me stesso.
C’è un campo che posso dissodare, sul quale posso lavorare, Ed è quello che si affaccia sul panorama interno a me stesso. Ogni cosa, ogni dissesto che arriva all’esterno, alla fine, mi chiama a questo lavoro. Ogni terremoto esteriore, mi indica con più pressione, più urgenza, questo lavoro interno.

Che inizia da una cosa semplice e trascurata come la postura. Colpevolmente trascurata, anche da tanta nostra spiritualità disincarnata. Nessuna vera spiritualità è disincarnata.

Così facendo ordine nella postura mando un segnale agli strati interni. Eccomi, sto al mio lavoro.


A volte non si capisce, non si comprende proprio. Tu fallo lo stesso. A volte il lavoro su di sé sembra l’ultima cosa che ci può interessare, l’ultima cosa di cui ci dobbiamo occupare. Eppure un disordine interno si propaga invariabilmente verso ciò che è fuori. Così un maggiore ordine interno (ordine, che non è necessariamente una coerenza di comportamento, ma una tensione verso l’integrità, l’unità della persona) si effonde in modo benefico verso l’esterno.
Che poi fuori o dentro – diciamolo – è un po’ uno schema vecchio, una distinzione troppo netta, troppo rigida.


Anima est quodammodo omnia, diceva Aristotele.

Tutto è connesso, tutto è collegato.

Non importa, non importa nulla da dove parto, non importa nulla in che condizioni mi trovo. Accettando di fare questo lavoro su di me, faccio luce nel mondo.

Non per mio merito, no. Solo, perché accetto il compito di cui sono stato investito. Cedo a questo compito. E questo cambia tutto.

Sempre, e di nuovo.

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