E’ una parola importante, capisco bene che non può non figurare in questo mio personale dizionario, in perpetua formazione. E’ importante ma raramente ci penso – come se ci fossero sempre cose più decisive, più urgenti, da analizzare. Come se la priorità fosse sempre altrove. Meglio, come se la parola stessa racchiudesse un non so che, un sogno semplicemente troppo bello per essere una cosa reale, una cosa da adulti. 

In questa percezione del mondo, un bambino certamente si consola, si può e si deve consolare. Un adulto più o meno deve cavarsela da solo (o al massimo entrare in terapia), perché si suppone abbia maturato gli strumenti interni per affrontare i momenti difficili.

Il mondo peraltro è strano, è certamente molto più bizzarro degli schemi mentali che ci possiamo fare, che ci facciamo. E’ anche qualcosa che viene percepito in modalità molto differenti, a seconda dello stati psicologici e sociali in cui ci troviamo, che stiamo attraversando, come individui e come comunità. Potrebbe  anche essere, dunque, che ci stiamo nascondendo l’unica cosa reale, l’unica cosa di cui occuparci seriamente, e serenamente.
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Abbiamo bisogno di consolazione. O almeno, io ho questo bisogno di consolazione, anzi di una infinita consolazione. Sempre, in ogni momento. A volte il senso di mancanza di questa infinita consolazione stringe il cuore in una morsa in cui quasi non riesco a respirare.
Bene, direi.

Bene, perché già ammetterlo è l’inizio di una liberazione possibile. E’ dismettere l’atteggiamento dell’Ercolino sempre in piedi, è ritrovare – quasi come pietra preziosa – la propria fragilità e iniziare a dialogarci, provare ad abbracciarla. Sentirsi incompleti e non provarne scandalo, è il primo passo verso una riconciliazione con sé e con le cose.

Bene, perché capisco che non posso vivere senza cercarla, questa consolazione. Che non ho davvero altri modelli di vita praticabili (o almeno, in più di mezzo secolo, non li ho mai trovati) che esulino dal cercare, dal domandare, questa infinita consolazione. Per dirla con le parole di Marco Guzzi,

Non abbiamo bisogno di molto altro,

ma solo di infinita consolazione.

Noi esseri umani abbiamo sempre bisogno

di consolazione, anzi di un’infinita consolazione.

Abbiamo sempre bisogno di essere consolati,

confortati nella nostra sofferenza

strutturale, nella nostra fragilità, nella precaria

giornata terrena.

Non abbiamo bisogno di molto altro,

ma solo di infinita consolazione:

tutto perciò dovrebbe essere finalizzato

a questo scopo: il lavoro, la sapienza,

ogni forma di compassione e di amore,

siano modi per consolare, per dire

all’essere umano: tu hai un grande valore,

non temere, non sei solo, e questa scarpata

ripida e dolorosa

ti sta portando

sempre più prossimo alla gioia, a tutto ciò

cui aneli, spesso senza nemmeno saperlo.

Marco Guzzi

Questa necessità di consolazione, che avverto oggi in maniera straordinariamente concreta e pressante, non può essere più relegata dunque a istanza psicologica individuale. Non è solo questo, non è più una spiegazione sufficiente. Riconosco che i tempi si stanno facendo stretti: tanto in senso personale quanto in senso sociale.  Diceva assai profeticamente Don Giussani, qualche anno fa, che

 il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”. Il mondo di oggi è riportato al livello della miseria evangelica; al tempo di Gesù il problema era come fare a vivere e non chi avesse ragione; questo era il problema degli scribi e dei farisei.

E’ proprio così, secondo me. Ma quanto invece sembra periferico, nelle conversazioni che incontro, che attraverso! Sembra l’ultima cosa, la più indicibile, la più inconfessabile. Perfino in questi giorni che precedono il referendum, qualcosa ancora  ci trasporta, ci devia, e nei discorsi pro o contro la riforma costituzionale, prevale la logica degli schieramenti, l’affezione ad una parte, a volte quasi pregiudiziale. O l’avversione verso uno o l’altro dei personaggi dell’agone politico. Tutte posizioni probabilmente insufficienti, che mancano il bersaglio – che perdono l’occasione.
Dunque quel che sembra periferico diviene qui essenzialmente centrale.  E di importanza politica, prima di tutto. Ha detto infatti il presidente Mattarella, che il nostro Paese «ha bisogno di rinnovato entusiasmo, di fraternità, di curiosità per l’altro, di voglia di futuro, del coraggio di misurarsi con le nuove sfide che abbiamo di fronte (…) in un tempo di cambiamenti epocali. (…) Senza farci vincere dalle paure».
Ecco che il circolo si chiude, i nodi tornano al pettine. La dimensione sociale abbraccia – ancora una volta – quella intima, personale. Quell’accenno conclusivo al non lasciarci vincere dalle paure riporta questa condizione a cardine necessario per un corretto e produttivo agire politico. 

Del resto è abbastanza evidente: come fa un essere dominato dalle sua paure non affrontate, ad intervenire costruttivamente nell’agone sociale? Non si muoverà in base alle sue problematiche irrisolte, piuttosto?

Dunque non è più lecito – sopratutto dopo la morte delle grandi utopie sociali – tenere separato l’ambito politico da quello personale. O peggio, aspettarsi la salvezza dall’intervento anche generoso verso le condizioni esterne. Anche risolvessimo – per assurdo – problemi enormi come la fame, la povertà, rimarrebbe sempre qualcosa. Rimarrebbe un bisogno enorme di consolazione, di conforto dalle paure.

 
Ma io non mi lascio vincere dalle paure, nella misura in cui decido di lavorarle, mi metto in cammino, e per il fatto stesso di camminare, mi dispongo nella condizione migliore per accogliere quelle consolazione che può, forse può arrivare. Può arrivare, se rilasso le barriere, se mi lascio contaminare dall’esterno, se abbraccio questo dialogo disarmato con le mie parti scomode o con l’interlocutore esterno che – per tante ragioni mie e sue – mi può apparire “scomodo”.

Perché in fondo è abbastanza la stessa cosa. No, anzi, è proprio la stessa.

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