Il bello delle playlist moderne è che ci metti un attimo, davvero un attimo. Prima era questione di realizzarti la tua compilation su cassetta. Piccolo inciso: si parla delle musicassette, quelle nate nel mio stesso anno e ora praticamente defunte — mentre io ancora me la cavo, grazie al cielo.
Ma la compilation su cassetta era una cosa lunga. Dovevi raccogliere tutti i dischi, mettere su un pezzo dopo l’altro, registrare, mettere in pausa, cambiare disco, ricominciare. Stare magari attento a combinare i brani in modo di avvicinarti abbastanza alla fine del lato A della cassetta, altrimenti ti toccava poi avvolgere fino in fondo il nastro residuo prima di andare al lato B, in fase di riproduzione.
Vabbè. Tipicamente accadeva che l’ultimo brano del lato A andava esattamente cinque secondi oltre la fine del nastro. Cosa che rendeva il compilatore relativamente nervoso e perfino intrattabile, per un certo numero di minuti (variabili a seconda dell’indole e dello stato psicofisico del soggetto).
In ogni modo. La cassetta poi così faticosamente prodotta, era finalmente adeguata all’ascolto in automobile, o da amici, o dappertutto.
Eh? No, niente cellulare con cuffiette bluetooth, da indossare mentre corri al parco (maglietta e pantaloncini tecnici antisudore). Il cellulare non esisteva. E il bluetooth esisteva nella stessa misura del cellulare, peraltro. E la maglietta e i pantaloncini non erano poi, anche nel migliore dei casi, così tecnici come adesso.
Correre sì, potevi sempre correre. Ma la musica la facevi scorrere mentalmente nella testa, era l’unico modo.
Ora ci si mette davvero un attimo. Ogni sito di streaming musicale ha il suo sistema, ma è sempre abbastanza semplice. Io mi sono affezionato a Play Music, il servizio musicale di Google (dopo l’abbandono forzato di Rdio e un passaggio di alcuni mesi su Deezer). E quando trovo un brano che mi piace particolarmente (o quando lo ritrovo, ripescando antiche cose dalla memoria e andandole a cercare) lo flaggo con il pollice in sù. Ed entra nella playlist automatica di tutti i brani che ho gradito.
Ah, ho preventivamente istruito l’app di Play Music a scaricare sul telefono (quando trova il wireless) i brani di questa playlist. Così me li trovo tutti pronti per l’ascolto, vi sia o non vi sia connessione.
Vabbè, ma questi sono dettagli tecnici.
L’essenziale è che posso aggiungere togliere brani dalla mia playlist in maniera estremamente veloce. Così che mi è venuta voglia di andare a caccia di alcune antiche canzoni che mi piacevano, e poi sono state magari piano piano ricoperte dalla polvere del tempo, dal cambiamento delle mode e degli stili. Dal nuovo che avanza e che a volte non sarà migliore, ma è più scintillante, questo sì.
Nella mia rivisitazione mnemonica degli anni ottanta, mi sono imbattuto ad un certo punto in un disco dei Police, che non ho mai amato troppo (l’ho comprato sulla fiducia, Ghost in the Machine era il disco del mese della mia amata StereoPlay, e io i suoi dischi del mese li prendevo molto sul serio), ma che conteneva comunque un paio di canzoni folgoranti (almeno per l’epoca).
Una è proprio Invisible Sun.

Ora, la prima cosa che mi colpisce oggi, è che io per anni e anni ho ignorato bellamente l’argomento reale della canzone. Totalmente. Non immaginavo assolutamente che parlasse delle tensioni dell’Irlanda del Nord. Probabilmente, non ho nemmeno mai visto il video prima di oggi.
Però mi piaceva da matti. Era diversa dalle altre canzoni. Fin dalle prime note aveva quest’aria potente e decisa, che imponeva da subito un ascolto attento. Lo sentivi subito. Si sente ancora adesso. Una serietà che esorbitava largamente dalla spensieratezza melodica e un po’ oziosa di tante canzonette (anche di quello stesso disco, ahimé).
Ed era come se un messaggio passasse, comunque. Anche se quel ragazzo non capiva bene il testo, questo messaggio passava. Ugualmente.
E mi colpisce adesso. Come il quadro di riferimento delle nostre preoccupazioni sociali sia cambiato del tutto. Il focus non è sul terrorismo in Irlanda, di matrice politica, ma sul terrorismo internazionale di matrice (diciamo così) religiosa.
Ma le cose non sono poi così diverse. Non sono diverse come ci fa credere il sistema di telecomunicazioni, per cui il nuovo è sempre il criterio di riferimento, in una perpetua fuga dal presente. Non sono così diverse.
Il cuore dell’uomo, per esempio (cosa alla quale puntano direttamente le canzoni), è sempre quello. E rimane così attuale, attualissimo, lo sbocco in positivo della canzone, un vero colpo di genio che risolve nella speranza la tensione palpabile che attraversa il testo e la musica.

There has to be an invisible sun
It gives its heat to everyone
There has to be an invisible sun
That gives us hope when the whole day’s done

Ci deve essere un sole invisibile, che dona calore ad ognuno (attenzione, non dice genericamente everybody, ma l’accento — e non solo per questioni di metrica — è esattamente su everyone, ognuno).
Ci deve essere un sole che ora (magari) non vedo, una stella che mi dà speranza quando il giorno si chiude.

Loading