Blog di Marco Castellani

Mese: Aprile 2017

Una storia particolare

Ragioniamo troppo, ragioniamo troppo. O almeno, io ragiono troppo. Sono sempre lì a pensare che i miei problemi possano avere una soluzione mentale, possano essere dipanati in una analisi minuziosa che scenda implacabile su ogni particolare, su ogni snodo, fino a dipanare la matassa.
In certi casi, grazie al cielo, mi accorgo che non funziona così. Che le coordinate operative di questo universo sono altre. Mi accorgo che la soluzione dei problemi non è mentale, ma è esperienziale per lo più. O se vogliamo, è iniziatica. Proprio nel senso che i problemi si snodano dentro un percorso.

Ogni storia diventa leggibile dentro una sola Storia…  
Questa è un po’ la sfida, per la nostra mentalità moderna. Tendiamo a pensare di poter far nostro intellettualmente quel che vogliamo, evitandoci una esperienza, se possibile. Diciamo fammi capire per far nostra l’idea, magari evitando la verifica esperienziale.
Eppure non è mai stato così, non è mai avvenuto così. Siamo qui per scoprire i perché attraverso le esperienze, non attraverso le pagine di wikipedia. Siamo cioè chiamati ad essere di nuovo protagonisti.
Il mondo moderno sembra davvero cospirare affinché noi ci si possa cullare nell’idea di traversare il mondo da spettatori, attraversarlo come in punta di piedi, senza sporcarsi le mani, magari. Stando da questa parte del teleschermo, mentre le cose accadono dall’altra. Una polarità semplicistica, che ora mostra tutto il suo limite, in maniera impietosa.
Abbracciare la vita, ricercarne appassionatamente un significato, è ipso facto rivendicare un ruolo da protagonista. Non c’è scampo, non c’è guittezza. E’ un po’ quello che efficacemente riassume la celebre frase di San Giovanni Crisostomo,

l’uomo che prega ha le mani sul timone della storia.

Seguendo una storia, una storia particolare, nella tentata fedeltà ad una trama di incontri, siamo finalmente liberi dal dualismo attivo-passivo, perché il seguire è un atto apparentemente passivo che in realtà ribalta il gioco, e si trasforma in un atto che ci radica alla terra e ci permette di agire in essa, e non solo di formulare concetti ed intrattenerci dialetticamente in essi.
E non è nemmeno solo questo, anche se questo è già tantissimo.
E’ infatti prima di tutto una questione conoscitiva. Diceva una famosa canzone, di qualche anno fa, che

da che punto guardi il mondo, tutto dipende

C’è un infatti un mito moderno del quale ho iniziato a sospettare, del quale ormai non mi fido più. L’ho esplorato, mi ha stancato, mi ha deluso. E’ semplicemente falso.

E’ falso che si possa davvero conoscere il mondo svincolandosi da una appartenenza, da una adesione.
E’ proprio l’opposto. Senza una storia particolare, senza una appartenenza, non si capisce il mondo. Serve un’ipotesi da gettare al di fuori, una ipotesi di ordinamento, di intimo coordinamento, perché il flusso di informazioni che ci raggiunte e ci sollecita continuamente, si componga in un insieme di senso. Altrimenti non si comprendono le stelle, la natura, l’amore, gli affetti, i difetti.
Ovvero. Il mondo non è uno scenario oggettivo separabile da chi lo osserva.
Non è un insieme di dati da registrare e comporre, per ottenere il senso. Anzi così si ottiene solo un mondo senza senso, più pungente quanto più il dato vuol essere preciso, completo, scientifico. Del resto, non è difficile leggere un senso di disperazione radicale dietro l’imponente flusso informativo tipico del mondo moderno.
Perché tutto questo? In altre parole, che me ne faccio di questo grado di dettaglio così esasperato, di questa analiticità estrema, se il mio occhio non comprende più quello che sta guardando? Se ha perso di vista la struttura di senso che tiene tutto collegato?
Il senso del mondo riverbera dal senso più profondo che abbiamo in noi stessi. E questo dipende totalmente da quel principio di ordine ed intellegibilità al quale ci affidiamo.
Affidiamo, sì. Perché questo è il punto cardine, il tratto fondamentale. Anche, lo spartiacque intorno al quale si dividono gli animi, si rivelano le posizioni del cuore.
Perché alla radice di tutto, della possibilità di intellegibilità del mondo, c’è inequivocabilmente un affidarsi, un atto di fede. C’è qualcosa che non può essere matematicamente dimostrato, che richiede una adesione per fiducia ovvero secondo parametri non quantitativi, ma derivati da un insieme di esperienze e di valutazioni, di aperture, di squarci e di suggestioni. Un punto di snodo, una elastica salutare sospensione dal ragionamento dialettico.
Snodo che deriva in ultima analisi da quella misteriosa trama di corrispondenze che si istaura tra il proprio cuore e il reale, il mondo fisico. Ovvero, da una esperienza, da una storia particolare e personale.
Scrive Marco Guzzi in Fede e Rivoluzione, che

… ogni ricerca della verità, tenetelo bene in mente, anche quella più scientifica, presuppone sempre un atto, più o meno consapevole, di affidamento a convinzioni indimostrate, a parole già dette e ricevute, ascoltate e credute, e quindi un atto, appunto, di fede

La percezione della realtà deriva da questo atto di fede, si sia un cattolico, un rivoluzionario boliviano o un monaco buddista.
Da questa storia, dunque. Da quello che un bel giorno abbiamo percepito come la verità. A cui tornare e ritornare, ogni volta come fosse la prima.

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Adesso (e sempre)

Tutto deve avvenire ora, nel presente. Siamo tutti molto stanchi. Siamo molto stanchi di promesse e speranze buttate in avanti, quasi dette pro forma (anche nelle chiese), come un ennesimo gioco al quale non crediamo.
Tutto deve avvenire adesso. Basta in realtà un semino di resurrezione dai miei guai, dai miei crucci, dai miei problemi. Basta un accenno di speranza che mi dice tu ne vieni fuori. Piccolissimo, per carità. Ma deve essere dato ora.
Non abbiamo voglia, non abbiamo più voglia di aspettare, di prenderci in giro.
Scrive Marco Guzzi oggi su Facebook, che

la risurrezione accade
ora, oppure
per me non è mai accaduta.

Ci sto. Se oggi ho un motivo di uscire dalle mie recriminazioni circolari, ho cioè un inizio, una (ri)presa di percorso che mi conduca fuori dal circolo vizioso di mormorazioni, che occupa tante volte il teatro della mente, allora posso rilassarmi.
Sarà lungo quanto volete, sarà il lavoro di una vita, ma posso rilassarmi ora.
Altrimenti la tentazione è di ricadere nella tremenda frase di Kafka, Esiste un punto d’arrivo, ma nessuna via, dentro la quale spesso inconsapevolmente ci muoviamo.
No, non ci sto: esiste una via.
Esiste un cammino per ritornare amici del nostro cuore, e possiamo ricomprenderlo proprio oggi, perché nuova speranza venga a versarsi nel nostro animo, agganciandoci così a quel moto di resurrezione che è una delle dinamiche potenti (anche se nascoste, luminosa sottotraccia quotidiana) della storia, è una possibilità permanente che possiamo prendere e lasciare mille volte (non conta quanto). Oggi voglio agganciarmi a questa resurrezione, contro le mille, diecimila morti che rimangono da sanare nel mio cuore.
Ma no, non contro. Oltre, al di là.
C’è un cammino per “darsi pace”— ce ne sono mille.
La tristezza viene quando rinunciamo. L’allegria, quella allegria misteriosa e tenace, viene quando diciamo “ok, non rinuncio a questo cammino, lungo o corto, sia come sia. Io ci sto”
L’allegria è starci ad una proposta, appena. Questo segna — immediatamente e irresistibilmente — uno strappo nel tessuto dello spazio tempo, spesso così’ opaco. E di colpo si vedono, si vedono le stelle.
Il resto sono chiacchiere circolari. Buone per quest’anno e per i prossimi. Si possono fare abilmente anche continuando a nutrire quello strato oleoso di cinismo spicciolo, dentro il quale siamo abitualmente impastati.
Starci invece è rimettere in moto gli ingranaggi, riprendere a far girare la storia. Quella piccola e quella grande (non c’è differenza).
E’ un miracolo: una decisione intima, quasi microscopica, che ribalta il (mio) mondo come un guanto, collega il cuore con i quasar più lontani, cortocircuita gli spazi dei pensieri aridi.
Gli scrupoli morali sono per chi ha tempo e voglia di tormentarsi (e ne so qualcosa). Non si parla di questo, qui.

Quello che ci dici oggi, o Signore, è l’ultima parola che hai detto nel vangelo di san Giovanni: «Simone, mi ami tu?». Non hai detto: «Non peccare, non tradire, non essere incoerente». Non hai toccato nulla di questo. Hai detto: «Simone, mi ami tu?». Questa è la voce che echeggia dalla capanna di Betlemme: «Mi ami tu?». (Luigi Giussani)

L’Amore è un punto, è ovunque. La libertà di riconoscerLo, di amarLo, rimette in moto l’universo.
Adesso, e sempre.

Auguri di buona Pasqua e di buona resurrezione!

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Perché devo scrivere

Non so come mai, ma tendo a girarci intorno. A procrastinare, a evitare l’argomento, anche con me stesso. A trovare mille altre cose che devono essere fatte, comunque fatte, prima di mettersi a scrivere.
A cose che sono più importanti, più urgenti. Più.
Poi magari chi ti pubblica? Il mercato è una cosa complicata, una giungla…
Eppure ormai lo so. Scrivere non è una cosa che si fa per avere un prodotto. O meglio, si fa anche per questo. Ma non è questo, in fondo. Chi sente questo bisogno lo sa.
Questo bisogno che è una elezione ed insieme una specie di condanna, in un certo senso.
Eh sì, perché non sei mai completo, non sei mai a posto, se non scrivi. Se il tuo strato più interno non è rassicurato sapendo che tu stai scrivendo.
Non puoi barare molto, verso lo strato più interno. Verso i ragazzi giù nel basamento, come direbbe Stephen King. Loro, loro lo sanno. Lo sanno se stai adducendo scuse, e non ti mollano. Non ti lasciano in pace.
Puoi provare, certo. Distrarli, per un po’. Alcool, sesso, o qualcosa di più pericoloso. Per ingannare i ragazzi giù nel basamento, insomma. Ma dura poco. Quelli ripartono più furibondi di prima, se non li ascolti. Con conseguenze destabilizzanti sulla tua vita psichica, manco a dirlo (più tu non li ascolti più devono battere forte, è il loro compito: il loro compito è che tu segua il tuo compito).
Del resto, lo sai. Fai finta di non saperlo, ma lo sai.
Bene. Allora dillo.

Scrivere è la tua medicina.

Ecco perché sono pensieri insensati, consigli inopinati, quelli secondo i quali tu prova, se poi tra qualche anno non vieni pubblicato, smetti e fai altro.
Peggio, quelli ci sono già troppi che scrivono, nessuno che legge.
Insensati. Folli. E pericolosi, per di più.
Come dire, prendi questa medicina, è necessaria alla tua sopravvivenza. Poi tra due anni, anche se vedi che ti fa bene, ti fa vivere: beh, di colpo smetti.
Quale medico oserebbe dire una cosa del genere?
Eppure si collega ancora troppo lo scrivere alla sua riuscita mondana. Che è importante, è rassicurante, è bellissima. Peccato che non sia la variabile fondamentale. Quello che decide della tua vita.
Van Gogh non vendeva un quadro, per anni ed anni. Niente, non glieli compravano. Eppure dipingeva come un pazzo, insisteva, insisteva. Aveva qualcosa da dare al mondo, qualcosa che comunque non poteva tenere dentro.

Vincent Van Gogh, Paesaggio da Saint-Rémy, 1889
Non hai deciso tu questo impulso di scrivere. Lo sai bene. Se avessi potuto, ne avresti fatto a meno, preso come sei dallo struggimento per una vita “normale”. 
 Eppure. 
 Eppure c’è. Se c’è è per un motivo. 
Se non lo onori, se ti fai vincere da manie di perfezionismo e dal non sono bravo abbastanza avveleni te stesso e l’universo. 
L’universo se ne frega se tu sei bravo abbastanza — non è compito tuo deciderlo. 
L’universo (diciamo) reagisce se ti muovi lungo il tuo campo di forza o no. Se è deciso che tu devi scrivere, che sei qui apposta, ogni tuo commento in proposito, ogni tua esitazione, è frutto di amor proprio. 
Sei qui per una cosa. Falla.

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Sporcarsi le mani

Che non si possa vivere senza sporcarsi le mani, è una cosa abbastanza evidente — se non si è troppo prigionieri di schemi ideologici di qualsiasi natura — ed è tuttavia qualcosa che, al tempo stesso, così facile da dimenticare, che (almeno per me) ogni accenno ad una maggiore consapevolezza, è benvenuto e salutare.
E’ dunque con gratitudine che leggo un accenno all’omelia del 28 marzo di papa Francesco. Perché colpisce nel punto giusto, risana esattamente dove c’è da farlo.

“Il Signore a ognuno di noi dice: ‘Alzati, prendi la tua vita come sia, bella, brutta come sia, prendila e vai avanti. Non avere paura, vai avanti con la tua barella’. Ma vai avanti! Con quella barella, anche se brutta, ma vai avanti! E’ la tua vita, è la tua gioia. ‘Vuoi guarire?’, prima domanda che oggi ci fa il Signore? ‘Sì, Signore’ — ‘Alzati’”.

Così è molto bello, davvero molto bello e liberante, questo far piazza pulita di quel pantano melmoso di obiezioni parziali, mezze dette mezze pensate (quasi mai teorizzate compiutamente), tipo ma non sono bravo abbastanza, non sono in grado, oppure sì , ma con calma, devo prima sistemare questa cosa, limare quel difetto, arrivare a quel punto di perfezione, poi certo…

No, non è così che vanno le cose. Insomma, non è così che funziona l’universo. Così ci dice Francesco, che dell’argomento ne sa più di qualcosa (e credo che dica una cosa qui così importante, in maniera così semplice, da interessare ogni uomo, a prescindere da quel che crede di credere):

Non avere paura, vai avanti con la tua barella.

Mi fa bene rileggerlo. Ecco, siamo tutti impastati da questi pensieri, questi propositi di perfezione, che in realtà sono niente altro che erbe infestanti, scorie tossiche per la nostra creatività e la nostra gioia di vivere. Ma ne siamo davvero così impastati che a volte non ce ne rendiamo conto: ci vuole davvero un percorso di liberazione. Concreto, quotidiano.
Diceva Don Giussani che non bisogna coltivare progetti di perfezione ma guardare in faccia Cristo. Ovvero non guardare sé ma guardare altrove, un Altro, la sorgente del bello e del vero. Comunque guardare fuori da sé, alzare lo sguardo.
Diceva anche, in Certi di alcune grandi cose,

Sono diverso da come dovrei essere, ho vergogna, le Sue parole sono ben lontano da quel che faccio io. Lo scarto. Questa è la prima cosa tremenda, che bisogna che avvenga; anzi, prima di qualunque tentativo di coerenza, questa è la suprema coerenza. Qual è la suprema coerenza con Cristo, nel riconoscere Cristo? Che anche se tu sei un mucchio di letame, Cristo è più grande del tuo mucchio di letame…

Credo che siano parole che investono chiunque, qualsiasi cosa pensi dell’uomo Gesù Cristo, vissuto duemila anni fa in Palestina. Perché non si scappa dalla partita: si creda o no, comunque siamo soggetti a certe dinamiche di vita, che sono sempre quelle. Conoscerle, approfondirle, è parte importante di quel lavoro di ogni giorno, che accomuna uomini di ogni fede e ogni credo.
Mi dimentico facilmente questa verità elementare. Ogni bilancio che faccio su di me è incompleto, errato, deformato, alienante. Se prescinde da una Sorgente di irradiazione di bene e di gioia, che per la sua stessa esistenza permette una continua (e felice) rinegoziazione del reale, per come lo percepiamo.
E’ poi quello che si riverbera nella bella canzone di Samuele Bersani, La fortuna che abbiamo. Questo invito a vivere si appoggia alla bella musica e mi ricircola felicemente nelle vene, alleggerendomi di pesi non necessari.


Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti. Sono tutto. E ogni rivoluzione è anche linguistica.

Voglio spremere il tubetto fino in fondo
La fortuna che abbiamo
Ridipingere con un colore più intenso, meno opaco
E finalmente indelebile

Non è ipotizzabile, non è fisico, spremere il tubetto fino in fondo (cosa che in fondo tutti vorremmo) senza sporcarsi le mani (cosa che non vorremmo mai). E’ la dinamica della vita, né più né meno.
Annotava già Cesare Pavese nel suo diario, “No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte — non sono pazzi, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi.”

Il punto è che (solo) se c’è una Presenza amica, se dietro ai miei tentativi parziali e perfettibili esiste uno scenario di benevolenza, di amore incondizionato a me stesso e alla mia povertà creaturale, io posso sempre ricominciare. Posso riprovare, imparare dagli scarti di strada. Che spesso servono per crescere.
Il punto in fondo è vivere. Come mi ricorda Don Juliàn Carron (Appunti della “Scuola di Comunità” del 22 marzo)

Il segno è se noi siamo sempre di più coinvolti, se siamo sempre più intensamente implicati nel reale, se abbiamo la voglia di mettere la mani in pasta, senza pretendere che un altro ci dia la soluzione. È questo che potrà veramente far crescere la persona, farla partecipare di quella pienezza che Cristo vuole comunicare all’uomo nella storia. E questo, invece di svilire il cammino, fa sperimentare una tale energia da consentire di entrare nelle pieghe della storia, nella concretezza dei problemi.

La questione di urgente attualità, per chi crede, è anche redimersi da un concetto sbagliato di cristianesimo, da un modo errato di intenderlo, per il quale la cosa giusta sia porsi fuori dal mondo, o perlomeno contaminarsi il meno possibile.
Invece io credo che sia esattamente l’opposto. Dobbiamo entrare sempre più nella storia, non cercare di uscirne. Per tornare a Giussani, l’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale.
Sporchiamoci le mani. Possiamo farlo, se c’è un destino buono che ci attende. Lì, tra le stelle. Scrive Marco Guzzi in una sua poesia,

Chiara, te lo prometto, risorgeremo ./ Io, te, mamma, e Gloria e Gabriele/ Rideremo in eterno e un nuovo gioco / Impareremo a vivere tra Sirio / E l’Orsa Maggiore.

Abbiamo questa barella, sì? Ebbene, portiamocela appresso.
Camminiamo. Anche zoppicando, saltellando. Le stelle ci aspettano.

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