Blog di Marco Castellani

Mese: Giugno 2017

Sì (un mondo in due lettere)

Sì. E’ appena una parola. E’ appena una sillaba. Appena questo. Ogni tanto mi viene da pensarci. Alla forza totalizzante di questa sillaba. Non è un forse, un può darsi, un magari potrei. Niente di questo. Un sì è un sì.
Vengono subito bruciati via tutti i territori intermedi. Solitamente, luogo di inquinanti.
C’è Chi avvertì autorevolmente, già da tempo, sulla pericolosità dei territori in mezzo, avvisando il vostro parlare sia sì sì no no.


Energeticamente, in termini fisici, un Sì è una cannonata. E’ un accordo di frequenze, un rinforzo di energia. Dico Sì, sono con te, vibro alla tua frequenza, assecondo un tuo progetto, una tua idea. Per un vero  la tua idea, il tuo progetto, ora sono anche i miei. La funziona d’onda si allarga, ora ci comprende entrambi. Non si sa più nemmeno da chi sia partita, non è più essenziale. Quello che è essenziale è vibrare insieme nel sì. Nel Sì siamo più uniti, siamo meno distanti, crediamo meno all’illusione di essere distanti.
Per un Sì diventiamo una cosa sola. A volte, un solo corpo.
C’è un Sì che fa piazza pulita dell’esitazione sterile, di voler essere qui ma anche lì, del sentire attrattiva ma anche paura. Un Sì che oltrepassa l’ostacolo della nostra stessa debolezza, un Sì che è più forte della persona che lo dice, che sorpassa, svapora i suoi stessi errori. Un Sì che non è cancellato da ogni errore, da ogni variazione, del momento dopo.
C’è un Sì che immette nel fluire del cosmo, che travalica l’esistenza fisica. La trasfigura, la travalica. La inonda di senso.

Perciò ricordati quello che è stato detto prima: il «sì» a questo punto rallegra la vita. Il «sì» a Gesù ha rallegrato Simone. (Luigi Giussani)

Ci sono immensità di diversi Sì possibili. Costellazioni di universi. Te ne accorgi, lo vedi, lo sai: ogni Sì genera una panoplia di stelle, nel tuo cielo. Non che il Sì sia la tua unica opzione. Anzi. Vive proprio della libertà di fare diversamente, vive del fatto elettrizzante di essere libero. Tu sei libero. Dici Sì ed è meraviglioso perché potrebbe essere diversamente, potresti dire, chessò, potresti aver detto il contrario, dirmi il contrario, dirmi diversamente. Dire no.
Pensare al Sì muove continuamente su diversi stati, su diversi strati, su cose apparentemente lontane, in realtà vicinissime. Un Sì unisce sempre. Un Sì è musicale, intimamente inestricabilmente musicale. La musica è un Sì, l’arte è un Sì. Il più bel nome che è stato scelto per un gruppo musicale, il più bel nome più bello di tutti quelli che ci sono e ci saranno, è esattamente Sì. Se vogliamo, Yes.
Sì è ogni progetto, ogni sogno, ogni seme, non preventivamente smorzato, abbassato a terra, abortito, fermato, interrotto. E’ la dimensione artistica dell’esistenza, il Sì. E’ la parola alla quale approda, dopo un lungo tormentato viaggio, l’Ulisse moderno, l’Ulisse di James Joyce. Il romanzo culmine, riassunto, superamento di tutti i romanzi. In un finale di una bellezza strepitosa, ardimentosa, felicemente impressionante, totalmente commovente, prepotentemente intimamente femminile.

… poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora / sì allora mi chiese se io volevo / sì dire di sì / mio fior di montagna / e per prima cosa gli misi le braccia intorno / sì e me lo tirai addosso / in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato / sì e il suo cuore batteva come impazzito / e sì dissi / sì voglio / sì.

Il Sì a sé stessi, come si è, esattamente come si è, è il perno focale di ogni cammino spirituale, di ogni vero percorso: quel difficilissimo Sì e sempre più essenziale, sempre più necessario. Un Sì a cui dobbiamo essere educati, sempre di più.
Il Sì non si ferma ad un discorso, non si circoscrive, non si descrive. Sempre rimarrà fuori qualcosa, sì.
Anche da qui. Sì, anche da qui.

Loading

Fred, e quella creazione continua

Ci penso, ci continuo a pensare. Del resto, il posto contribuisce non poco. Già la mattina, quando cerchi lo Hoyle building dell’Istituto di Astronomia di Cambridge, magari un pensiero ti ci viene.

HoyleFred Hoyle. Chi era costui?

In trasferta per un meeting di GAIA, mi trovo a passare più volte davanti alla sua statua, che troneggia nel parco dell’istituto.

Non è una statua di una bellezza esaltante, devo dire. Ma ottiene probabilmente il suo effetto. Mi ci fa pensare.

 

Fred Hoyle. Parco dell’Istituto di Astronomia di Cambridge (foto mia).

Chi era questo signore, insomma? Vi avviso, qui non tratteggerò una biografia nemmeno lontanamente completa. Coerente con il nostro procedere per pilloline astronomiche, spero soltanto di destare la vostra curiosità, alla quale potrete poi dare seguito investigando gli innumerevoli percorsi presenti in rete (ad iniziare dalla pagina di wikipedia, naturalmente).

Ebbene, questo signore — ora che scrivo la sua statua è ad una decina di metri da me — è stato intanto un signore molto eclettico. Sembrerebbe quasi un personaggio del Rinascimento, per certi suoi tratti.

Fu proprio lui a fondare il dipartimento di astronomia teorica dell’Università di Cambridge, nel 1967. Per poi lasciarlo, nel 1972, anche per via del sostegno crescente che la teoria del Big Bang stava ottenendo anche nell’ambiente scientifico inglese. Teoria che al nostro Fred — forse anche per motivi filosofici— non andava proprio giù.

Come scienziato, ha dato importantissimi contributi allo studio della formazione degli elementi nell’universo. Ma è rimasto particolarmente famoso proprio perché per questo, perché è stato un fiero oppositore della teoria del Big Bang. Sostenendo, in luogo di quello, un modello rivisitato dell’antico stato stazionario, modello chiamato stato quasi stazionario. Un modello in cui il “grande scoppio” viene sostituito dall’ipotesi di creazione continua di materia, in piccolo scoppi, che avrebbero luogo in certe parti specifiche di universo (all’interno dei nuclei galattici attivi, per esempio).

L’inizio di un famoso articolo a prima firma di Hoyle. Siamo nel 1993.

Un modello che è stato portato avanti con determinazione ed ostinazione, fino negli anni novanta del secolo scorso (mi è stato detto che già diventava molto molto faticoso arrivare a riviste prestigiose con queste teorie, e che articoli come quello che qui riproduciamo nella parte iniziale, hanno avuto un percorso alla pubblicazione molto sofferto). Modello, appunto, che è piano piano stato abbandonato dalla quasi totalità dei cosmologi.

Per il semplice motivo che tutti i nuovi dati che arrivavano a getto continuo dalle sonde e dagli strumenti puntati verso lo spazio, si incastonavano molto bene nello scenario del Big Bang. Molto meglio.

Su tutte, spiegare la radiazione cosmica di fondo togliendo il Big Bang, è veramente difficile. Ci si può provare, ma credetemi, è veramente ardua.

Quello di Hoyle è un modello, si badi bene, che si impernia su basi filosofiche bel diverse. E’ forse l’ultimo tentativo di riprendere l’idea che l’Universo esista da sempre, senza inizio e senza fine.

Capirete che lo scenario filosofico — ed anche metafisico — che implica tale teoria è totalmente differente da quello di un Universo che ha avuto inizio da un singolo evento di creazione ad un tempo preciso.

C’è però che i dati sono cocciuti. Di fatto, proporre altri scenari, via via che passava il tempo, era sempre più un faticoso arrampicarsi sugli specchi. E alla fine questo nella scienza, non paga.

Ma vorrei dire che la determinazione di Hoyle è stata preziosissima.

Perché ha messo il Big Bang davvero sotto torchio. Come la determinazione di Einstein verso la confutazione della meccanica quantistica. La scienza ha un bisogno grandissimo di queste visioni critiche, che mettono sotto test la teoria dominante.

Perché nessuna teoria è dogma, nella scienza. Ed è giustissimo verificarla al massimo grado. Così il Big Bang deve ad Hoyle molto più di quanto sembri, paradossalmente.

Hoyle che poi fu anche eccellente romanziere, ad esempio. Qualcuno avrà letto La nuvola nera, oppure Il primo ottobre è troppo tardi. Ve li consiglio, se non li avete letti. Potreste sorprendervi.

In ogni caso, questi signore che sta qui vicino a me, adesso, è stato veramente un grande dell’astronomia moderna. Gli dobbiamo tantissimo. E’ qualcuno che si è preso la briga di non adeguarsi acriticamente al pensare comune, ed ha seguito una sua visione.

Alla fine conta questo. Alla fine, con questo, fallire è (comunque) impossibile.

Grazie, Fred. Grazie davvero.

Loading

Lo spazio, che si piega

Avviene. Per quanto sembri strano, avviene. Ne abbiamo parlato varie volte. La fisica moderna (segnatamente, la relatività generale e la meccanica quantistica, ma anche tanta parte della più nuova fisica) è — anche e soprattutto— un’avventura del pensiero che trascende in moltissimi aspetti il nostro senso comune. E che ci invita ad allargare la mente, a forzare i nostri schemi di pensiero, per abbracciare un punto di vista più grande e più inclusivo, più morbido.

Già da cento anni sappiamo che la materia piega lo spazio, ne altera davvero la geometria. Pensiamo però (quando ci pensiamo) che sia qualcosa che acquista senso solo su scale cosmiche, che sia qualcosa di ordinariamente trascurabile. Invece è veramente una proprietà dello spazio tempo di cui troviamo traccia anche su scale stellari.

CreditiNASAESA, and K. Sahu (STScI)

Vediamo. La stella brillante al centro della foto è la nana bianca Stein 2051B, abbastanza vicina a noi (roba di poco meno di diciotto anni luce, un’inezia su scala cosmologica). La stellina meno luminosa, in basso, è invece a circa cinquemila anni luce di distanza.

Gli astronomi hanno osservato in diversi momenti la combinazione delle due stelle, colte nelle diverse posizioni a seconda delle rispettive orbite. Osservando che durante la fase di allineamento, la nana bianca modifica veramente il tragitto della luce della stella lontana. Facendola spostare ai nostri occhi di circa due milliarcosecondi rispetto alla sua vera direzione di provenienza.

L’entità dello spostamento è veramente minima, è come osservare una formica muoversi su una moneta posta a 2300 chilometri di distanza.

Ma c’è. La luce è piegata, o meglio lo spazio si piega, per la presenza della stella più vicina a noi.

Pensateci: viviamo in un mondo strano. Come definire un mondo in cui un sasso altera la geometria dello spazio? Dove la forma del contenitore dipende dal contenuto?

Strano, ma affascinante.

Loading

Musica e rivoluzione

Cosa vuol dire rivoluzione? Cosa ha voluto dire per noi, in Italia, negli ultimi decenni del secolo scorso? Cosa vuol dire adesso? E soprattutto, innanzitutto: vuol dire ancora qualcosa?
 
E’ un modo di dire che evoca nostalgia, o risentimento, o comunque rimanda alla memoria di un tempo che fu, di speranze che furono, e che adesso comunque non sono più? In altri termini, rivoluzione vuol dire nostalgia, alla fin fine?
 
Oppure c’è dell’altro?
 
 
Leggo dalla quarta di copertina del libro di Marco Guzzi, Fede e Rivoluzione, una frase di Papa Francesco,

 

Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!

Ora, lungi da me spiegare le frasi del papa, ovviamente. Dico solo, registro, quante suggestioni mi evoca questa frase. L’apparente incidentale in questo tempo — ecco— è soprattutto quella, che mi scombussola. Detto in maniera spiccia: il massimo rappresentante in terra della fede cattolica (una delle prospettive spirituali più seguite, comunque la si voglia pensare), mi avverte non solo che la rivoluzione mi compete in quanto cristiano, ma anche che mi compete ora. E mi compete così tanto, che se disattendo questa chiamata, la mia fede stessa è in qualche modo snaturata — non sarei davvero cristiano.

Mi interessa questo. Mi interessa capire perché.


E mi interessa soprattutto che cosa è e che può essere questa rivoluzione che proprio ora, proprio quando è stata ormai abbandonata dal mondo politico e sociale (perdonate la semplicità grossolana del ragionamento, ma si fa per capirci), diventa interessante e anzi quasi obbligatoria per me cristiano.

Fate caso. Non si parla quasi più di rivoluzione, non è tanto più di moda — fa effettivamente molto nostalgico, molto vecchia guardia. Si parla di riformismo, federalismo, costituzionalismo, e ogni altro ismo che volete, ma non di rivoluzione.

Allora vado a pescare nei miei ricordi di infanzia e adolescenza. Sì, quando ancora la rivoluzione era parlata, discussa, bramata, temuta, agognata, urlata. Una rivoluzione politica, certo, ma spesso così ardentemente sperata, da assumere connotati limpidamente extra-politici: di liberazione totale dell’essere umano da ogni schiavitù, non solo economica.
 
Ripercorro questi ricordi aiutandomi con le canzoni.
 
Già. Una canzone, più o meno riuscita, è una spugna, raccoglie gli umori che circolano — li prende dall’aria, nel momento della sua scrittura— li cristallizza, li richiude nell’ambra delle sue note, e ce li può riproporre, come una istantanea sonora di un dato momento storico. Spesso, se è ben fatta, di umori ne raccoglie parecchi.
 
Vediamo un po’. L’idea che il mondo stia cambiando in maniera radicale, che vi sia una energia nuova nel fare ogni cosa, è benissimo descritta — tra i molti— nel brano di Eugenio Finardi Musica Ribelle (1976). Brano che qui vi propongo nella eccellente rivisitazione con Ivano Fossati
 

Una rivoluzione come risposta ad un disagio esistenziale, come risposta compatta, credibile.

Anna ha 18 anni e si sente tanto sola
ha la faccia triste e non dice una parola
tanto è sicura che nessuno capirebbe
e anche se capisse di certo la tradirebbe…

Ma da qualche tempo è difficile scappare,
c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare
è dolce, ma forte e non ti molla mai
è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai…
E` la musica, la musica ribelle

Ed è come l’apice di una parabola assai stretta, assai veloce tanto nel salire quanto nel tornare giù. Esaltante e al contempo velocissimamente smentita dai fatti — slabbrata, smembrata e inaridita dal corso stesso del reale (i fatti sono testardi, come si dice). Una utopia subito illuminata da una luce fredda, dalla constatazione amara ed un po’ stordita di un fallimento. Così lo stesso Finardi arriva molto presto a Zerbo, di tono completamente dissimile.
 
Sì, siamo nel 1979, appena tra anni dopo.

Che cosa è accaduto? Che la parabola si è compiuta, quello che sembrava un progetto realizzabile si mostra in tutta la sua struttura di mito. E come dice la canzone…
Il mito era crollato / perso nei calci ad un pollo surgelato…
Così l’idea di rivoluzione, intesa in una orbita completamente razionale e politica, mostra una drammatica ed irredimibile inattualità.
 
E nel raffreddarsi del mito, anche ci ci ha creduto si ritrova quasi ad impersonare una parte, in cui una parte di lui non crede più.

… divento soltanto
un uomo navigato;
a dritta nostromo
il sogno è già passato.

Il tempo ha mostrato anche quali fossero i veri limiti di questa tentata rivoluzione. La riflessione pacata delle persone più attente aiuta a definirne i veri contorni, svaporati da quella utopia che intossica e inquina il giudizio.
 
Dalle parole di Aldo Brandirali, fondatore di “Servire il popolo” (persona dunque che con il concetto di rivoluzione ha qualcosa a che fare…) c’è una chiara consapevolezza di questo che stiamo dicendo:
Noi subivamo certamente l’attrattiva fortissima delle grandi ideologie e delle grandi e nuove tematiche mondiali. Sperimentavamo perciò una continua propensione a vivere all’interno di un noi, ma con un difetto fondamentale: non avevamo la capacità di dire io, non pensavamo alle nostre esigenze in quanto singole persone. In atto c’era una fortissima e inconsapevole massificazione. I giovani di oggi invece affermano prima di tutto il proprio ‘io’, e questo è un gran vantaggio sotto un certo punto di vista, ma non sanno cosa significhi giudicare le proprie esperienze. Quindi è come se conducessero una sorta di lotta con il niente. Quello attuale è, a tutti gli effetti, un ribaltamento esatto della nostra situazione di allora. Noi avevamo un ‘troppo pieno’ che ci soffocava, i ragazzi di oggi hanno invece un ‘troppo vuoto’ che non li fa crescere.
C’è qualcosa che non si è compiuto, dunque. O meglio, non si è riuscito a compiere nella forma che sembrava dovesse assumere. E’ una sorta di morte, in un certo senso. Da una certa prospettiva.

Stupisce che già nel 1975, peraltro, certi sintomi di problematicità ci fossero già tutti. In realtà già tutto era compiuto, come è evidente in questo bellissimo brano di Juri Camisasca, qui cantato insieme con Franco Battiato.
 
Il brano di Camisasca, invero, ha un respiro ben più largo, e affonda la sua ragion d’essere in un sogno utopico di cambiamento che va al di là dell’espressione politica come l’ha assunta in Italia, ma si riferisce più marcatamente al fenomeno di liberazione che era strettamente connesso all’espressione musicale, ai grandi concerti.
 
Era quel finire degli ’60 che lo aveva portato alla sua massima espressione, al punto di sfolgorio davvero abbagliante. Il nome Woodstock viene come inevitabile, insieme alla bellissima canzone di Joni Mitchell, cantata da Crosby Still e Nash & Young. Siamo nell’anno 1970.
 

Vedete. Ancora il sogno è intatto, è quasi sfavillante nella meravigliosa utopia…

By the time we got to Woodstock
We were half a million strong
And everywhere was a song and a celebration
And I dreamed I saw the bomber death planes
Riding shotgun in the sky,
Turning into butterflies
Above our nation…

Nel 1970 si può sognare che i bomber death planes, quei giganteschi bombardieri portatori di morte, si possano trasformare in farfalle. Si può ancora fare.
 
Rientrando nel nostro territorio, e ritornando al 1975, anche Edoardo Bennato riesce a fotografare bene questo senso di disillusione che permea l’espressione collettiva, come un qualcosa portato avanti senza più convinzione. E’ dello stesso anno quel Feste di piazza che rivela lucidamente l’inaridirsi di un sogno, consumato dalla sua stessa sempre più plateale irrealizzabilità.

Non stupisca l’andamento temporale apparentemente contraddittorio, rispetto al primo brano di Finardi. C’è infatti un magma, che rende gli anno ’70 così anche difficili da descrivere, in cui convivono — con un certo attrito — sia ancora gli impulsi progressivi che i sintomi di una caduta e di uno scoramento, che si sarebbero poi consolidati negli anni seguenti.
 
Certo il discorso potrebbe continuare avanti per molto, con altri innumerevoli esempi musicali. Non mi interessa però tanto essere esaustivo (ci vorrebbe un intero libro, o più di uno), ma tracciare appena un percorso. Uno dei possibili, moltissimi percorsi. Quello che mi è venuto alla memoria, ripensando ad alcuni brani conosciuti, appunto.
 
Facciamo un salto in avanti, arriviamo alla fine del 1983. Già da questo punto di osservazione si può vedere il decennio passato, sotto un angolo che consente quella visione globale, che sempre viene a mancare nella descrizione del presente. E’ sempre Franco Battiato a regalarci una gemma come il brano Un’altra vita, dentro l’album Orizzonti perduti.

E si arriva sempre più vicino al punto, al punto nevralgico di tutto.

Sulle strade al mattino
il troppo traffico mi sfianca;
mi innervosiscono i semafori e gli stop,
e la sera ritorno con malesseri speciali.
Non servono tranquillanti o terapie
ci vuole un’altra vita.

e la sera ritorno
con la noia e la stanchezza.
Non servono più eccitanti o ideologie
ci vuole un’altra vita

Stupisce la lucidità di questo testo, che in poche parole racchiude la sapienza di infiniti testi e di tantissime analisi sociologiche. L’uomo di oggi si frammenta tra tranquillanti o terapie, eccitanti o ideologie, dove manca un aggancio con qualcosa d’altro, con una rivoluzione sotterranea perenne. Che non è quella dei figli dei fiori, né quella dei collettivi o del proletariato giovanile.
 
Dunque? Ci fermiamo sulle ultime parole delle canzone: ci vuole un’altra vita.
 
Semplice così. E difficilissimo. Siamo alla fine del post ma abbiamo appena lambito un territorio vastissimo.
 
Perché allora — dismesse le speranze di una rivoluzione esterna che avrebbe accordato il mondo con la disposizione interna del cuore, ci si accorge che il movimento è, magari, l’esatto contrario. Che probabilmente ci vuole anche una rivoluzione interna, un’altra vita, per guardare il mondo in modo diverso e probabilmente, per potervi incidere davvero.
 
Forse tutto quanto è accaduto ha un senso. Non ci credo alle vie sempre dritte — credo che a volte gli errori sono necessari per imparare davvero qualcosa. Spesso sono necessari.
 
Forse dovevamo provare tutte le possibili rivoluzioni, per capire veramente qual è quella da perseguire. Cos’è questo essere rivoluzionari in un tempo come quello che stiamo vivendo, se non riconnettersi a livello profondo con la propria interiorità, sovente così trascurata. Ciò che c’è dentro è più importante di quel che si vede fuori. Ciò che c’è dentro, modula la modalità stessa di percezione del reale.
 
Le tradizioni più profonde lo sanno da millenni. I loro rappresentanti ce lo ricordano in maniera instancabile.
La rivoluzione dunque parte dall’interno, dal cuore. Il moto è verso l’esterno, e non verso l’interno, come propongono le rivoluzioni esteriori.

Il Principio Attivo, se possiamo dire così, è dal cuore che parte, che inizia.

Dunque, non è sbagliato tentare di cambiare il mondo. Anzi è una esigenza insopprimibile del cuore umano. Rinunciarci vuol dire ammalarsi, di quella tristezza globale che a volte sembra pervadere tutto e tutti.
 
Non bisogna rinunciarci, no. Se un modo era sbagliato, o magari incompleto, non era il fine ad essere sbagliato, o inesistente.
 
E allora, forse forse, la mestizia da rivoluzione mancata, il disorientamento, è comprensibile, ma non inevitabile. Se ne può uscire.
 
Era in fondo, appena un passaggio.
 
 Era questo, azzardo. Era che dovevamo collimare i fasci, arrivare ad un diverso assetto, ad una coscienza più compiuta-— comprendere che c’è da fare un cammino personale e cosmico insieme. Che adesso possiamo essere ben più ambiziosi di quanto eravamo negli anni ’60 e ’70— possiamo operare nel creare una rivoluzione reale che si connetta ad un Principio Attivo Perenne, che è nella storia e la trascende allo stesso tempo.
 
E che in questo tempo, proprio adesso, si può essere — davvero e compiutamente — rivoluzionari.

Loading

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén