Cosa vuol dire rivoluzione? Cosa ha voluto dire per noi, in Italia, negli ultimi decenni del secolo scorso? Cosa vuol dire adesso? E soprattutto, innanzitutto: vuol dire ancora qualcosa?
 
E’ un modo di dire che evoca nostalgia, o risentimento, o comunque rimanda alla memoria di un tempo che fu, di speranze che furono, e che adesso comunque non sono più? In altri termini, rivoluzione vuol dire nostalgia, alla fin fine?
 
Oppure c’è dell’altro?
 
 
Leggo dalla quarta di copertina del libro di Marco Guzzi, Fede e Rivoluzione, una frase di Papa Francesco,

 

Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!

Ora, lungi da me spiegare le frasi del papa, ovviamente. Dico solo, registro, quante suggestioni mi evoca questa frase. L’apparente incidentale in questo tempo — ecco— è soprattutto quella, che mi scombussola. Detto in maniera spiccia: il massimo rappresentante in terra della fede cattolica (una delle prospettive spirituali più seguite, comunque la si voglia pensare), mi avverte non solo che la rivoluzione mi compete in quanto cristiano, ma anche che mi compete ora. E mi compete così tanto, che se disattendo questa chiamata, la mia fede stessa è in qualche modo snaturata — non sarei davvero cristiano.

Mi interessa questo. Mi interessa capire perché.


E mi interessa soprattutto che cosa è e che può essere questa rivoluzione che proprio ora, proprio quando è stata ormai abbandonata dal mondo politico e sociale (perdonate la semplicità grossolana del ragionamento, ma si fa per capirci), diventa interessante e anzi quasi obbligatoria per me cristiano.

Fate caso. Non si parla quasi più di rivoluzione, non è tanto più di moda — fa effettivamente molto nostalgico, molto vecchia guardia. Si parla di riformismo, federalismo, costituzionalismo, e ogni altro ismo che volete, ma non di rivoluzione.

Allora vado a pescare nei miei ricordi di infanzia e adolescenza. Sì, quando ancora la rivoluzione era parlata, discussa, bramata, temuta, agognata, urlata. Una rivoluzione politica, certo, ma spesso così ardentemente sperata, da assumere connotati limpidamente extra-politici: di liberazione totale dell’essere umano da ogni schiavitù, non solo economica.
 
Ripercorro questi ricordi aiutandomi con le canzoni.
 
Già. Una canzone, più o meno riuscita, è una spugna, raccoglie gli umori che circolano — li prende dall’aria, nel momento della sua scrittura— li cristallizza, li richiude nell’ambra delle sue note, e ce li può riproporre, come una istantanea sonora di un dato momento storico. Spesso, se è ben fatta, di umori ne raccoglie parecchi.
 
Vediamo un po’. L’idea che il mondo stia cambiando in maniera radicale, che vi sia una energia nuova nel fare ogni cosa, è benissimo descritta — tra i molti— nel brano di Eugenio Finardi Musica Ribelle (1976). Brano che qui vi propongo nella eccellente rivisitazione con Ivano Fossati
 

Una rivoluzione come risposta ad un disagio esistenziale, come risposta compatta, credibile.

Anna ha 18 anni e si sente tanto sola
ha la faccia triste e non dice una parola
tanto è sicura che nessuno capirebbe
e anche se capisse di certo la tradirebbe…

Ma da qualche tempo è difficile scappare,
c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare
è dolce, ma forte e non ti molla mai
è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai…
E` la musica, la musica ribelle

Ed è come l’apice di una parabola assai stretta, assai veloce tanto nel salire quanto nel tornare giù. Esaltante e al contempo velocissimamente smentita dai fatti — slabbrata, smembrata e inaridita dal corso stesso del reale (i fatti sono testardi, come si dice). Una utopia subito illuminata da una luce fredda, dalla constatazione amara ed un po’ stordita di un fallimento. Così lo stesso Finardi arriva molto presto a Zerbo, di tono completamente dissimile.
 
Sì, siamo nel 1979, appena tra anni dopo.

Che cosa è accaduto? Che la parabola si è compiuta, quello che sembrava un progetto realizzabile si mostra in tutta la sua struttura di mito. E come dice la canzone…
Il mito era crollato / perso nei calci ad un pollo surgelato…
Così l’idea di rivoluzione, intesa in una orbita completamente razionale e politica, mostra una drammatica ed irredimibile inattualità.
 
E nel raffreddarsi del mito, anche ci ci ha creduto si ritrova quasi ad impersonare una parte, in cui una parte di lui non crede più.

… divento soltanto
un uomo navigato;
a dritta nostromo
il sogno è già passato.

Il tempo ha mostrato anche quali fossero i veri limiti di questa tentata rivoluzione. La riflessione pacata delle persone più attente aiuta a definirne i veri contorni, svaporati da quella utopia che intossica e inquina il giudizio.
 
Dalle parole di Aldo Brandirali, fondatore di “Servire il popolo” (persona dunque che con il concetto di rivoluzione ha qualcosa a che fare…) c’è una chiara consapevolezza di questo che stiamo dicendo:
Noi subivamo certamente l’attrattiva fortissima delle grandi ideologie e delle grandi e nuove tematiche mondiali. Sperimentavamo perciò una continua propensione a vivere all’interno di un noi, ma con un difetto fondamentale: non avevamo la capacità di dire io, non pensavamo alle nostre esigenze in quanto singole persone. In atto c’era una fortissima e inconsapevole massificazione. I giovani di oggi invece affermano prima di tutto il proprio ‘io’, e questo è un gran vantaggio sotto un certo punto di vista, ma non sanno cosa significhi giudicare le proprie esperienze. Quindi è come se conducessero una sorta di lotta con il niente. Quello attuale è, a tutti gli effetti, un ribaltamento esatto della nostra situazione di allora. Noi avevamo un ‘troppo pieno’ che ci soffocava, i ragazzi di oggi hanno invece un ‘troppo vuoto’ che non li fa crescere.
C’è qualcosa che non si è compiuto, dunque. O meglio, non si è riuscito a compiere nella forma che sembrava dovesse assumere. E’ una sorta di morte, in un certo senso. Da una certa prospettiva.

Stupisce che già nel 1975, peraltro, certi sintomi di problematicità ci fossero già tutti. In realtà già tutto era compiuto, come è evidente in questo bellissimo brano di Juri Camisasca, qui cantato insieme con Franco Battiato.
 
Il brano di Camisasca, invero, ha un respiro ben più largo, e affonda la sua ragion d’essere in un sogno utopico di cambiamento che va al di là dell’espressione politica come l’ha assunta in Italia, ma si riferisce più marcatamente al fenomeno di liberazione che era strettamente connesso all’espressione musicale, ai grandi concerti.
 
Era quel finire degli ’60 che lo aveva portato alla sua massima espressione, al punto di sfolgorio davvero abbagliante. Il nome Woodstock viene come inevitabile, insieme alla bellissima canzone di Joni Mitchell, cantata da Crosby Still e Nash & Young. Siamo nell’anno 1970.
 

Vedete. Ancora il sogno è intatto, è quasi sfavillante nella meravigliosa utopia…

By the time we got to Woodstock
We were half a million strong
And everywhere was a song and a celebration
And I dreamed I saw the bomber death planes
Riding shotgun in the sky,
Turning into butterflies
Above our nation…

Nel 1970 si può sognare che i bomber death planes, quei giganteschi bombardieri portatori di morte, si possano trasformare in farfalle. Si può ancora fare.
 
Rientrando nel nostro territorio, e ritornando al 1975, anche Edoardo Bennato riesce a fotografare bene questo senso di disillusione che permea l’espressione collettiva, come un qualcosa portato avanti senza più convinzione. E’ dello stesso anno quel Feste di piazza che rivela lucidamente l’inaridirsi di un sogno, consumato dalla sua stessa sempre più plateale irrealizzabilità.

Non stupisca l’andamento temporale apparentemente contraddittorio, rispetto al primo brano di Finardi. C’è infatti un magma, che rende gli anno ’70 così anche difficili da descrivere, in cui convivono — con un certo attrito — sia ancora gli impulsi progressivi che i sintomi di una caduta e di uno scoramento, che si sarebbero poi consolidati negli anni seguenti.
 
Certo il discorso potrebbe continuare avanti per molto, con altri innumerevoli esempi musicali. Non mi interessa però tanto essere esaustivo (ci vorrebbe un intero libro, o più di uno), ma tracciare appena un percorso. Uno dei possibili, moltissimi percorsi. Quello che mi è venuto alla memoria, ripensando ad alcuni brani conosciuti, appunto.
 
Facciamo un salto in avanti, arriviamo alla fine del 1983. Già da questo punto di osservazione si può vedere il decennio passato, sotto un angolo che consente quella visione globale, che sempre viene a mancare nella descrizione del presente. E’ sempre Franco Battiato a regalarci una gemma come il brano Un’altra vita, dentro l’album Orizzonti perduti.

E si arriva sempre più vicino al punto, al punto nevralgico di tutto.

Sulle strade al mattino
il troppo traffico mi sfianca;
mi innervosiscono i semafori e gli stop,
e la sera ritorno con malesseri speciali.
Non servono tranquillanti o terapie
ci vuole un’altra vita.

e la sera ritorno
con la noia e la stanchezza.
Non servono più eccitanti o ideologie
ci vuole un’altra vita

Stupisce la lucidità di questo testo, che in poche parole racchiude la sapienza di infiniti testi e di tantissime analisi sociologiche. L’uomo di oggi si frammenta tra tranquillanti o terapie, eccitanti o ideologie, dove manca un aggancio con qualcosa d’altro, con una rivoluzione sotterranea perenne. Che non è quella dei figli dei fiori, né quella dei collettivi o del proletariato giovanile.
 
Dunque? Ci fermiamo sulle ultime parole delle canzone: ci vuole un’altra vita.
 
Semplice così. E difficilissimo. Siamo alla fine del post ma abbiamo appena lambito un territorio vastissimo.
 
Perché allora — dismesse le speranze di una rivoluzione esterna che avrebbe accordato il mondo con la disposizione interna del cuore, ci si accorge che il movimento è, magari, l’esatto contrario. Che probabilmente ci vuole anche una rivoluzione interna, un’altra vita, per guardare il mondo in modo diverso e probabilmente, per potervi incidere davvero.
 
Forse tutto quanto è accaduto ha un senso. Non ci credo alle vie sempre dritte — credo che a volte gli errori sono necessari per imparare davvero qualcosa. Spesso sono necessari.
 
Forse dovevamo provare tutte le possibili rivoluzioni, per capire veramente qual è quella da perseguire. Cos’è questo essere rivoluzionari in un tempo come quello che stiamo vivendo, se non riconnettersi a livello profondo con la propria interiorità, sovente così trascurata. Ciò che c’è dentro è più importante di quel che si vede fuori. Ciò che c’è dentro, modula la modalità stessa di percezione del reale.
 
Le tradizioni più profonde lo sanno da millenni. I loro rappresentanti ce lo ricordano in maniera instancabile.
La rivoluzione dunque parte dall’interno, dal cuore. Il moto è verso l’esterno, e non verso l’interno, come propongono le rivoluzioni esteriori.

Il Principio Attivo, se possiamo dire così, è dal cuore che parte, che inizia.

Dunque, non è sbagliato tentare di cambiare il mondo. Anzi è una esigenza insopprimibile del cuore umano. Rinunciarci vuol dire ammalarsi, di quella tristezza globale che a volte sembra pervadere tutto e tutti.
 
Non bisogna rinunciarci, no. Se un modo era sbagliato, o magari incompleto, non era il fine ad essere sbagliato, o inesistente.
 
E allora, forse forse, la mestizia da rivoluzione mancata, il disorientamento, è comprensibile, ma non inevitabile. Se ne può uscire.
 
Era in fondo, appena un passaggio.
 
 Era questo, azzardo. Era che dovevamo collimare i fasci, arrivare ad un diverso assetto, ad una coscienza più compiuta-— comprendere che c’è da fare un cammino personale e cosmico insieme. Che adesso possiamo essere ben più ambiziosi di quanto eravamo negli anni ’60 e ’70— possiamo operare nel creare una rivoluzione reale che si connetta ad un Principio Attivo Perenne, che è nella storia e la trascende allo stesso tempo.
 
E che in questo tempo, proprio adesso, si può essere — davvero e compiutamente — rivoluzionari.

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