Me ne accorgo, me ne accorgo subito. Qualcosa della qualità dell’aria, si potrebbe dire. Non so bene cosa, ma qualcosa. Qualcosa nella vibrazione delle cose, nel modo specifico particolare di vibrazione delle cose.
Nel modo diverso del loro riposo, anche.
Sono nel parco da due minuti e già lo so. Già lo sento, già lo so. E’ autunno, è già autunno, ed è la cosa più evidente che ci sia. Non so a che agganciare precisamente tale percezione, ma è certa. E più certa di un dato scientifico, di un algoritmo matematico, di un calcolo programmatico.

Autunno è questo desiderio di tiepido ripiegamento, dopo l’espansione estiva. E’ il timido desiderio di un riparo, che torna a farsi vivo, torna a farsi sentire, a richiamare uno spazio, uno spazio-tempo proprio. E’ una rinnovata attenzione alla delicatezza di sé stessi. E’ dirselo, l’un l’altro — l’un l’altra. O uno all’altra, ancora. Copriti, non prendere freddo, mi raccomando è solo il primo passo, appena il primo passo, un piccolo passo fondamentale, per ritrovare quel caldo d’amore che risana dal profondo, che ti lascia in piedi, ti rimette in piedi e ti lascia in piedi.
Puoi camminare, in una struttura d’amore intorno a te.
Se entri in una storia d’amore. Con il terreno, gli animali, le piante, l’aria, le persone, le stelle, con Dio. Nessuna storia conta, nessuna storia vale la pena, se non è una storia d’amore. Ormai sei troppo vecchio per tutto il resto, Marco. Te lo puoi dire, sei troppo vecchio per tutto ciò che non è una storia d’amore, non riverbera una storia di amore. Andava bene prima, per guardare, esplorare, capire. Per il gusto di dividere, catalogare, esaminare. Eccepire. Ora non più, non più, ora è tempo di scegliere, di scegliere tra l’amore o la delusione, l’amore o la prestazione, l’amore o la tentata perfezione, l’amore o la progressiva consunzione.
Sono contento di poggiare i miei piedi su un pianeta con questa variazione periodica di stagione, un pianeta con questa amabile scansione. Sono contento di avvertire questi segnali misteriosi, quasi arcani, dalla natura. E’ un linguaggio che non si incanala nel procedere discorsivo, al quale siamo così affezionati, tanto che pensiamo che ogni informazione, ogni evidenza, ogni realtà reale sia suscettibile di declinazione discorsiva, argomentativa. No, è qualcosa che è immensamente più diretto, primitivo. Insomma come un odore, un sapore. Si muove su uno strato fondamentale, primordiale. Su questo strato risuona, mi rientra in circolo, mi cattura.
L’altra cosa, i colori. L’autunno esalta i colori, fa brillare quello che c’è, esalta i tuoi stessi colori. Toglie luce, calore, perché i tuoi colori, le tue luci vengano fuori. Arretra per darti spazio. Ma lo spazio di te che rientri in te stesso, non della tua proiezione esuberante o esitante dell’estate (la stagione luminosa e dichiarativa). Quello spazio. Quello spazio si apre, e puoi entrarci e puoi trovarti comodo.
Puoi metterti di nuovo quella maglia, saggiando la consistenza del tessuto, riscoprendo il piacere di altri strati che coprano delicatamente la tua pelle, che la adornino, la adombrino e la adornino, sottilmente. Scopri una parte di te che non è più nella proposizione secca ed esplicita del tuo stampo, della tua forma nello spazio, del tuo corpo. D’estate togli, esponi. D’autunno ricopri, nascondi, ma non troppo. Togli appena dallo sguardo diretto e unidimensionale, così troppo povero rispetto al cuore. Ed è di nuovo un gioco sottile di immaginazione, di ricostruzione dietro un rimando di sguardi, di quel che c’è e non si vede e riposa nell’ombra e nell’ombra trattiene i suoi stessi umori e magari ti attraversa la mente tra un modo d’istinto e una rinnovata dolcezza percettiva.
L’autunno è la diminuzione di segnale, il buio che riprende spazio, arriva più presto. Autunno è la stagione della poesia, è abbassare i volumi di tutti i telecomandi, perché ciò che è in penombra, quasi nascosto, possa esaltarsi, possa venir fuori, possa finalmente mostrarsi. Autunno è anche tristezza, a volte, ma è più d’ogni cosa una onda di delicatezza che arriva come un balsamo, e ti parla, ti chiama, ti dice di tornare, di ricominciare a tornare, a fare quel ricominciamento, quel ritorno di cui sei colmo di nostalgia, quel ritorno nell’universo specifico di ciò che è tuo, più tuo di te stesso.
Ciò che proprio non puoi perdere.

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