Blog di Marco Castellani

Mese: Novembre 2017

Tutte le note del Voyager

Di per sé, la sonda Voyager 1 avrebbe già collezionato una impressionante serie di record, tale da fare impallidire – se possibile – molte delle più blasonate imprese spaziali “moderne”. Lanciata a pochissima distanza di tempo dalla cugina Voyager 2, in un giorno di settembre dell’ormai lontano 1977, è attualmente il manufatto umano in assoluto più lontano dalla Terra.

La sua missione originaria era “appena” quella di esplorare Giove, Saturno e la luna Titano: già cosa non da poco, per l’epoca. Invece, il viaggio è continuato ben oltre, fino a diventare veramente “interstellare”. Eh sì, perché Voyager 1 ha ormai valicato il bordo stesso del nostro Sistema Solare. E nonostante questa immensa distanza, nonostante quasi tutti gli apparecchi siano ormai stati spenti (inclusa la camera fotografica), lei continua imperterrita ad inviare dati scientifici alla lontanissima Terra.

La sonda Voyager (Crediti: NASA)

Per celebrare i quaranta anni della sonda, appena appena compiuti, è stato creato un brano musicale, ma con una modalità compositiva decisamente peculiare, ovvero incorporando i dati scientifici raccolti dalla sonda, trasformati in note musicali attraverso un processo chiamato sonificazione. A lanciarsi in questo tributo, tanto anomalo quanto intrigante, sono stati due ricercatori che operano nel Regno Unito, Domenico Vicinanza (Anglia Ruskin University) e Genevieve Williams (Università of Exeter).

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Un uragano… complicato (su Giove) !

Il brutto tempo può essere (oltre che brutto) anche piuttosto complicato. No, non pensiamo adesso alle complicazioni di cui si costella la nostra giornata quando il maltempo innesca il traffico e la congestione di auto e mezzi pubblici (laddove passano). Il nostro pensiero invece vola  più in alto, vola sul più grande pianeta del Sistema Solare, laddove la sonda Juno ha appena acquisito per noi una stupenda immagine: appunto, di un formidabile temporale.

Crediti: NASA, JPL-Caltech, SwRI, MSSS; Processing: Gerald Eichstädt & Seán Doran

L’immagine si allarga per circa trentamila chilometri, il che rende questo suggestivo sistema di nubi esteso quasi quanto la Terra intera. E’ animato da una rotazione antioraria e mostra delle correnti ascensionali (colorate nell’immagine), che si ritiene siano composte principalmente di ghiaccio di ammoniaca (che si trova anche in altri ambienti nel Sistema Solare).

Dunque mentre siamo presi nel traffico di cui sopra, o mentre pensosi aspettiamo il tram – che sistematicamente tarda ad arrivare – possiamo andare con la mente lassù, proprio intorno a Giove, dove c’è Juno che per i prossimi anni continuerà ad orbitare attorno a questo enorme pianeta, inviando dati a terra veramente preziosi. Per capire meglio anche l’abbondanza di acqua nell’atmosfera di Giove, e per comprendere se, sotto queste affascinanti nuvole, si nasconde una crosta solida.

Sarà dunque vero, che anche i temporali servono?

Su Giove, almeno, la riposta è sì.

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Oumuamua, l’asteroide interstellare

Ha certamente una particolarità, oltre naturalmente alla forma particolarmente elongata: è il primo asteroide interstellare  che abbiamo mai scoperto. Anche se c’è da giurare che presto – grazie ai recenti progressi delle tecnologie osservative – altri corpi simili, fuori dal Sistema Solare, verranno individuati.  Il nome è praticamente  impronunciabile, Oumuamua, e nonostante questo sta catturando in questo periodo l’attenzione di un bel po’ di telescopi a Terra, giustamente desiderosi di scoprire qualcosa di più di questo ospite, che viene da molto lontano.

Un’immagine di fantasia del visitatore interstellare (Crediti: ESO, M. Kornmesser)

L’asteroide – beninteso – è appena di passaggio nel nostro Sistema Solare. Da quanto ora riusciamo a comprendere delle sue caratteristiche, la traiettoria, il colore, la velocità, e la stessa probabilità di essere visto, si armonizzano assai bene con l’ipotesi che si sia formato naturalmente attorno ad una stella del tutto normale, diversi milioni di anni fa.

L’evento che ha cacciato Oumuamua fuori dal suo ambiente, è stato con ogni probabilità, un incontro gravitazionale con un pianeta, per il quale poi è stato espulso dall’orbita che aveva intorno alla sua stella. Così, ora vaga libero per la nostra smisurata Galassia, avendo del tutto smarrito il contatto con casa. 

E l’insieme dei delicati equilibri gravitazionali, ha voluto che si spingesse fino dalle nostre parti. A testimoniare, silenzioso ma imponente, quasi come una nave spaziale di qualche aliena civiltà, come i segni di un nuovo universo stanno premendo sempre di più alle nostre porte. Il cosmo ci viene a trovare, ora a noi mantenere gli occhi aperti: le sorprese non mancheranno di certo.

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Tutto in un minuto…

La storia di tutto quanto, potremmo dire: raccontata in appena un minuto. A questo ci conduce la visione del video qui di seguito. Nonostante il tempo ridotto, niente – potremmo dire-  viene lasciato fuori. Si parte infatti dal vero inizio, da quel Big Bang che riteniamo abbia dato il via a questo universo, e si prosegue poi con un viaggio velocissimo attraverso il cosmo primordiale, dove “presto” si arriva alla formazione della Terra e della Luna.

Video Credit & Copyright: MelodySheepSymphony of Science, John Boswell; Music Credit: Our Story

L’avventura prosegue poi con l’emergere della vita multicellulare, e si giunge all’epoca dei  rettili e dei dinosauri. A questo punto, come sappiamo, c’è il punto di rottura (e ripartenza) dato dall’impatto devastante con un gigantesco meteorite. La ripartenza seguita all’estinzione di massa, è data proprio dall’avvento sulla scena del mondo dei mammiferi.  Siamo dunque alla comparsa dei primi uomini, e finalmente – sempre andando avanti veloce – allo sviluppo della moderna civiltà, così come la conosciamo.

Il video termina con una bellissima immagine di un uomo in cima ad una montagna, quasi segno tangibile ed evocativo di una rinnovata unione tra un uomo – finalmente  consapevole di quanto è stato necessario per la sua comparsa nell’economia del cosmo – e la natura immensa che lo circonda.

Per tutto questo, vale la pena prendersi un minuto. Indubbiamente.

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Quarantacinque anni dopo…

Bisogna tornare decisamente  indietro, riavvolgere veloce fino a ben quarantacinque anni da adesso, per ritrovare una presenza umana sul nostro caro, unico satellite naturale. Le cronache ci riportano, per la precisione, a quel lontano dicembre del 1972, quando gli astronauti Eugene Cernan ed Harrison Schmitt si trovarono a trascorrere ben 75 ore sulla superficie della Luna, mentre il loro collega Ronald Evans orbitava sopra la loro testa, nella paziente attesa del rientro.

Crediti: NASA

L’immagine qui sopra mostra Schmitt sulla sinistra del rover lunare, proprio ai bordi del cratere chiamato Shorty. Assai interessante il fatto che l’equipaggio della Apollo 17 riportò a terra ben centodieci chilogrammi di roccia e campioni di suolo lunaredunque assai più di quanto è stato mai riportato da ogni altro sito di atterraggio lunare.

Centodieci chili che, tra l’altro, sono sul nostro pianeta e testimoniano senza troppo clamore ma con indubbia efficacia che – ancora ci fosse chi ne dubita – sulla luna ci siamo stati, ci siamo stati davvero. 

E’ questa, una evidenza solidamente corroborata dai fatti, a dispetto anche di recenti clamori che, proprio per il caso dell’Apollo 17, vogliono vedere bizzarri e fantasiosi complotti laddove, assai più realisticamente, c’è “solo” il caso di una esplorazione scientifica e di una impresa tecnologica, che è stata (grazie al cielo) pienamente di successo.

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Caldo, e ancor più caldo…

L’astronomia è decisamente una scienza strana. Eh sì, perché contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non è vero che gli oggetti a noi più vicini siano sempre i più esplorati. Prendiamo il Sole, ad esempio. Ad appena otto minuti luce da noi, potremmo supporre che ormai sia completamente conosciuto. E invece no: di fatto, la nostra stessa stella è ancora contornata – potremmo dire – da una serie di piccoli e grandi misteri scientifici, che attendono ancora compiuta articolazione, e convincente soluzione.

Crediti: NASA/GSFC/Solar Dynamics Observatory

Osservate questa sequenza di immagini del nostro amato Sole. Tutte le istantanee sono state acquisite nella stessa giornata, il giorno 27 del mese di ottobre, per la precisione. Ma mentre la prima “fettina” di Sole ci viene restituita in luce “bianca” (ovvero, nel modo in cui lo vedrebbe un occhio umano), tutte le altre sono acquisite in bande ultraviolette estreme, ovvero nella regione più energetica dello spettro, rispetto alla banda ottica. Sono anche disposte in bell’ordine secondo una scala di temperatura, crescente verso destra : la prima è su una temperatura di circa 6000 gradi, mentre l’ultima arriva a ben 10 milioni di gradi.

Una prima cosa che si può notare, ad un esame abbastanza puntuale, è che ogni immagine ci regala in realtà dei particolari diversi. Possiamo dire che ogni intervallo in lunghezza d’onda trasporta e rivela informazioni relative a diversi processi che stanno avvenendo sulla superficie solare (e al di sotto). E’ appena un accenno in scala ridotta dell’astronomia cosiddetta multi-messenger che si sta rivelando come approccio estremamente fecondo nella comprensione “a tutto campo” dei fenomeni celesti. Potremmo dire, in parole semplici, che occorre avere “occhi” per ogni specifica radiazione, sensori per ogni specifico “segnale”, per sperare di ricostruire un quadro completo e compiuto, di quanto stiamo osservando.

L’altra cosa, naturalmente, è l’ampio intervallo di temperatura in cui è capace di “splendere” il Sole. Arriviamo a dieci milioni di gradi, come abbiamo visto. E questo, per di più, accade nell’alta atmosfera solare, dunque molto più calda dei circa seimila gradi della base della fotosfera (da dove si originano i fotoni che arrivano fino a noi). Sì, avete letto bene: da seimila a dieci milioni di gradi, procedendo dalla “superficie” all’atmosfera solare! E’ una faccenda che ha dato ben più di qualche grattacapo ai fisici solari, per diversi anni, ma forse proprio adesso – grazie anche a dati precisi e dettagliati come questi – sta arrivando verso una sua piena comprensione.

Pubblicato originariamente su EDU INAF

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Quella sua maglietta fina (e ciò che contiene)

Che poi, è una canzone che davvero conosciamo tutti. L’incipit è diventato così famoso che non ha bisogno di alcuna presentazione. La maglietta fina ha fatto sognare (ed immaginare) ormai generazioni di persone.
Sì. Sto parlando di Questo piccolo grande amore, la celeberrima canzone inclusa nell’album omonimo, di Claudio Baglioni. Siamo lontani lontani, lontanissimi da oggi: indietro rapido, fino all’anno 1972. Tra parentesi, anni interessantissimi per la musica di matrice pop/rock. Basti ricordare che i Pink Floyd, questi quattro ragazzi inglesi, hanno appena rilasciato roba del calibro di Atom e Meddle. Così, tanto per dire. Insomma, anni di fermenti, di ipotesi di rinnovamenti, di innovazioni. Di (vagheggiate) rivoluzioni, anche.
Copertina decisamente anni ’70, tra le altre cose…

Ed eccoci al nostro.
Diciamo subito. Un album strano, decisamente interessante. Che non avevo mai sentito, fino a poco tempo fa. Del resto, va così: se sei abbonato ad un servizio di streaming può capitare che vai a cercare un album, così, giusto per curiosità. In questo caso, per il gusto di per capire cosa c’è intorno ad una canzone celebre. E scopri un mondo, magari.
Intanto, un concept album (come, Baglioni, un concept album?), sviluppato attorno ad una storia, per quanto semplice. Epperò, un vero concept, con espressioni, frasi, cellule musicali, che attraversano le canzoni e si ripropongono, a volte in contesti diversi, con sfumature differenti. C’è un lavoro piuttosto buono che lega le canzoni, amalgama i contesti — e si sente.
Curioso che di questo album si ricordino adesso appena un paio di canzoni — essenzialmente la title track e Porta Portese — mentre altre godibilissime, come ad esempio Cartolina rosa, o altre veramente particolari, decisamente anomale per il Baglioni che conosciamo, come Battibecco oppure Che begli amici!… siano comunque completamente (meritatamente?) obliate.
Ma vorrei dire, strano ancora di più che una canzone dolcissima, struggente, emozionante, poetica nel senso più compiuto, come Io ti prendo come mia sposa non passi per radio, un giorno sì e un giorno no.

Una canzone che affonda totalmente nel mistero dell’innamoramento, nel mistero profondissimo dell’attrazione tra due persone, che diventa quasi sacra di per sé. Perché è un mistero della natura e della vita, mai completamente indagato, mai declinabile in un discorso razionale. Qualcosa di cui si stupiscono le stelle.
Ma la cosa ancora più strana, e forse divertente, è che la title track — ascoltata in modo avulso dal contesto— venga sistematicamente fraintesa, per una ambiguità del testo, forse, ma anche per una ignoranza delle condizioni al contorno. Ovvero di quello che precede e quello che segue.

Io stesso mi sono accorto che per anni e anni l’ho fraintesa. Appunto. Perché niente, uno la sente così, la intende come la descrizione nostalgica di un amore finito, concluso. E non ha capito nulla. Non è niente di questo. Ascoltate l’intero album: è appena che il protagonista, durante il servizio militare, rievoca il periodo felice passato con la sua ragazza, la sua attuale ragazza (o almeno, lui così pensa).
E noi tutti ancora oggi canticchiamo adesso che / saprei cosa fare / adesso che / saprei cosa dire… come se fosse qualcosa che non c’è più. Come un rimpianto, un rimorso per essersi fatti sfuggire qualcosa. E invece c’è (e già non c’è più, forse, ma questo senza fare troppo spoiler).
Che poi, come stanno le cose tra lui e lei, o meglio, cosa ha vissuto lei quando lui era in caserma, si capisce di schianto nell’ultima folgorante strofa di Porta Portese.

Ecco. Questa per me è realmente un piccolo capolavoro.
Sì, spendo questa parola impegnativa, ma non saprei trovarne un’altra.
Per come viene tratteggiata — a sapienti schizzi di colori — una descrizione del celebre mercato romano, di questi piccoli quadretti (anche amabili), che fan sorridere (C’è la vecchia cha ha sul banco / foto di Papa Giovanni, /lei sta qui da quarant’anni o forse più… oppure …le patacche che ti ammolla quello là. / Ci ha di tutto pezzi d’auto / Spade antiche quadri falsi / E la foto nuda di Brigitte Bardot…). Ma anche e soprattutto, per come — in questo quadretto apparentemente svagato e scanzonato — piomba come un fulmine a ciel sereno l’ultima strofa, Quella lì non è possibile che è lei… (non vi dico di più per non rovinarvi la sorpresa di un ascolto, se non lo sapete già). E la musica segue in modo mirabile la variazione di atmosfera, il cambiamento di sapore che improvvisamente assume il brano.
Tanto non te l’aspetti, tanto pensi di aver capito che il pezzo è appena un brano di descrizione d’ambiente tipico romano (sia pur ben confezionato) che corri il rischio di farti sfuggire il fatto che sei ancora totalmente dentro la storia.
E in una storia, come si sa, c’è questa faccenda: succedono cose.
E infatti. Dall’ultima strofa di Porta Portese c’è la virata del disco, su altre coordinate, altri sapori, incontri, rimpianti, nostalgie. Su un altro insieme di autovalori che la prima parte, giustamente, non contemplava.
Tanto che, nella versione estrapolata dall’album, scopro che l’ultima strofa semplicemente non c’è. Non troppo strano, alla luce di tutto.
Ci sarebbe tanto da dire, naturalmente. Quanto ti voglio, nella sincerità assai poco di maniera, quasi un Odi et Amo moderno, ma peculiarmente apparentato al carme del poeta latino, nella sua coloritura globale. E Piazza del Popolo, con cui si apre il disco ci porta prepotentemente negli anni settanta e nei sui fermenti, anche se qui è appena un pretesto, un escamotage per dare l’avvio ad una storia, che ha indubbiamente connotati molto più intimistici che sociali o politici.
E tanti altri scampoli, il rapporto con i genitori, con gli amici.
E su tutto, la vera protagonista.
Eh sì. Perché te ne accorgi dopo un po’. La vera protagonista è lei. Non la ragazza dalla maglietta fina, no. La vera protagonista è Roma, lei è la vera signora al centro della scena. Un centro quasi defiliato, non invasivo, ma richiamato, punteggiato costantemente da una serie di rimandi, oltre a Porta Portese, Stazione Termini, Piazza del Popolo, ad esempio. E molto altro, anche se appena accennato, anche se nemmeno compiutamente descritto.
Questa è una storia in Roma. E una storia in Roma è sempre una storia di Roma, inevitabilmente.
Così’ che me lo fa ancora più caro, questo bell’album.
Coraggioso, deliziosamente imperfetto.
Vero.

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Incontro ravvicinato con Cerere

Il suo nome è Cerere, ed è un appena un asteroide. Ma attenzione, un asteroide di tutto rispetto, perché è il più grande nella fascia principale di asteroidi del Sistema Solare. Scoperto nel 1801 dal sacerdote italiano Giuseppe Piazzi, per la sua grandezza (può vantare un diametro di quasi mille chilometri…) è stato considerato per più di un secolo come l’ottavo pianeta del nostro sistema. Derubricato poi al rango di mero asteroide, è stato riabilitato – almeno parzialmente – nel 2006, anno dal quale riveste ufficialmente il ruolo di pianeta nano (con compagni decisamente illustri, quali Plutone, Makemake ed altri).

E’ notizia di questi giorni che la NASA abbia deciso di prolungare la sua missione Dawn (missione lanciata nel 2007 proprio per investigare gli ambienti di Cerere e dell’asteroide Vesta). In virtù di questo prolungamento vitalela sonda si farà anche più ardita, tanto da avvicinarsi alla superficie del pianeta nano, ad un livello mai tentato prima: per la precisione, si spingerà fino ad una altezza inferiore ai 200 km dalla superficie, laddove il precedente record di avvicinamento si attestava su una distanza quasi doppia. Inutile spendere parole sul vantaggio di poter osservare Cerere così da vicino, e sulle cose nuove che potremo imparare.

Immagine di fantasia di un passaggio di Dawn sopra Cerere (Crediti: NASA/JPL Caltech/UCLA/MPS/DLR/IDA)

Il prolungamento della missione ha difatti un senso assai preciso, che è quello di misurare accuratamente quantità e spettro di energia dei raggi gamma e dei neutroni. Informazioni importantissime per comprendere la composizione della superficie di Cerere, e sopratutto per capire quanto ghiaccio può davvero contenere. La sonda non mancherà poi di regalarci foto ravvicinate della superficie, naturalmente. Ma c’è dell’altro. Il valore aggiunto di tutto questo è che Dawn si troverà ancora in “azione” quando l’orbita di Cerere giungerà al perielio (il punto di massimo avvicinamento al Sole) nell’aprile del prossimo anno. E qui ci si aspettano cose davvero interessanti, perché – a motivo dell’inevitabile innalzamento della temperatura – parte del ghiaccio superficiale si sublimerà in vapore, e il fenomeno potrà essere accuratamente monitorato dalla sonda, in combinazione con telescopi a terra. C’è infatti molto da capire ancora sulla natura della superficie di questo bizzarro pianetino, e possiamo scommettere che i dati che Dawn ci regalerà in questa occasione saranno, a dir poco, estremamente preziosi.

Così la sonda, un po’ come Cassini con Saturno, terminerà in gloria la sua missione. Sì, ma dopo? Come verrà scritto il capitolo finale di Dawn? Ebbene, gli scienziati sono decisi ad evitare che questo peculiare pianeta nano venga contaminato con materiale terrestre. Piuttosto che terminare i suoi giorni schiantandosi su Cerere, dunque, Dawn si assesterà buono buono nella sua orbita finale, terminando quietamente la sua attività (inviando nuovi dati a Terra, fino a quando ci riesce…), ma rimanendo integro. A segno perpetuo dell’interesse umano per la comprensione di Cerere, e attraverso questo, del sistema, incredibilmente ricco e complesso, di pianeti, pianetini ed asteroidi all’interno del quale abitiamo, e guardiamo il cielo.

Pubblicato originariamente su EDU INAF 

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