Blog di Marco Castellani

Mese: Marzo 2018

Tutto il lato “rosa” di Giove…

Il pianeta Giove, visto finalmente da vicino (grazie alla sonda Juno) continua ad essere fonte di grande meraviglia. In particolare, per la complessità mirabolante dei fenomeni atmosferici che avvengono ad alta quota, e che ora si possono veder con un grado di dettaglio assolutamente sorprendente.

Crediti immagine: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Matt Brealey/Gustavo B C

Questa foto che vedete, decisamente suggestiva nella sua tonalità rosa, è stata acquisita da Juno il giorno un mese e mezzo fa, quando si trovava a trascorrere il suo undicesimo passaggio ravvicinato al pianeta gigante (e gassoso, come sappiamo). In quel momento la distanza dalle nubi era di poco più di dodicimila chilometri: un’inezia, in pratica, se consideriamo che la distanza media tra Giove e la Terra si aggira intorno ai 780 milioni di chilometri. 

Da lì arrivano i dati di Juno, che dunque traversano una distanza immensa, per essere poi raccolti a Terra ed elaborati secondo quanto è più opportuno per rivelare volta per volta la straordinaria complessità di questo peculiare ambiente planetario. L’immagine che vedete è stata elaborata dal citizen scientist Matt Brealey, usando creativamente i dati grezzi, messi a disposizione di tutti dalla NASA, nel sito apposito.

La sonda spaziale Juno è stata lanciata ad agosto del 2011, e continuerà la sua missione verso l’estate di quest’anno, al termine della sua dodicesima orbita in cui ha raccolto dati scientifici.

Per intanto, tutto fa pensare che i regali di Juno non siano affatto finiti.

Anzi.

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Ciao, Stephen.

Niente. Quando muore uno scienziato di questo calibro, la notizia trascende velocemente l’ambito strettamente accademico, supera il confine degli addetti ai lavori. E coinvolge irresistibilmente un ambito ben più vasto, ben più ampio e variegato della solita cerchia.

Non fosse un evento tragico, si potrebbero fare considerazioni su come la scienza sia in realtà sempre molto presente nell’immaginario collettivo. Sia come sotto traccia, pronta a venire fuori, ad esondare, in particolari occasioni: l’abbiamo visto più volte, può essere un atterraggio di una sonda su un pianeta lontano, l’uscita della Voyager I dal Sistema Solare, il tuffo finale di Cassini dentro Saturno.

Tanti spunti per ricordarci che il nostro mondo è grande come l’universo. E il nostro mondo, ci interessa. Il suo perenne mistero, ci cattura.

E’ questo, secondo me: la sete di infinito, la voglia di conoscere almeno qualcosa di questa sconfinata immensità in cui siamo lanciati, a bordo i un pianetino ai margini di una galassia gigantesca, ebbene quella sete rimane viva, sempre. A volte scorre sottotraccia, appena coperta dagli strati un pochino polverosi della vita quotidiana. Ma rimane viva. E’ lì, e riguarda tutti.

Capire che ci stiamo a fare nell’universo, non può più prescindere dal capire l’universo. Almeno un po’. E lui ci ha provato, ci si è speso fino all’ultimo, nel capire.

Alla NASA, nel 1980

Così ieri mattina seguivo i messaggi su Twitter con l’hashtag StephenHawking e comprendevo con inequivocabile evidenza – se pur servissero altre evidenze – come questa figura di scienziato sia entrata profondamente nel cuore delle persone (molto al di là del grado molto specialistico delle sue ricerche). D’accordo: il fatto di essere un grande scienziato, ed insieme affetto da una penosa malattia invalidante, ha certo contribuito a creare il suo mito. Ma non è solo questo, probabilmente non è solo questo. Il fatto di non arrendersi mai è stato determinante, da come mi pare di capire.

I messaggi su Twitter si succedevano a gran velocità, e moltissimi davano – come è giusto – un condiviso tributo di ammirazione per il suo coraggio di andare avanti, di cercare,  fino alla fine.

Alcuni rielaboravano questo tributo con intelligente simpatia, legandolo alle storie personali.

Mettiamola così, in modo molto semplice. La gente ha bisogno di vedere che c’è chi non si arrende, di fronte anche a difficoltà grandi. Le persone ne hanno bisogno, per proseguire il proprio viaggio nel cosmo, in questo spicchio periferico  ma tutto speciale di spaziotempo. Anche, per sentire più “amico” questo universo, più praticabile. Più percorribile. Per non sentirsi persi nel vuoto.

Oggi più che mai, infatti, per tanti versi ci sentiamo spaesati, a volte senza una guida, senza un manuale di istruzioni. La gente ne ha bisogno davvero, cerca un esempio, un modello, cerca qualcuno da ammirare. Mutatis mutandis, potremmo dirlo anche – accenno solo un paragone che potrà sembrare azzardato – per Giovanni Paolo II, per quell’eroismo semplice e sofferto che ha contraddistinto i suoi ultimi anni di pontificato, che ha colpito e catturato ben oltre la cerchia di chi si professa cristiano.

Lo so, per alcuni versi due figure agli antipodi, perché sappiamo cosa pensava il nostro scienziato del rapporto tra scienza e fede. Eppure gli antipodi sono un residuo di una visione geometrica cartesiana, un po’ semplicistica. Lo spazio tempo – ormai lo sappiamo bene – è mobile, permeabile, fluttuante, imprevedibile, modificabile. Gli opposti si incontrano, si baciano (e infatti i due si sono incontrati, e anzi Stephen ne ha incontrati altri tre, di papi). Gli opposti, del resto, sono un frutto della mente giudicante, divisiva, non certo della mente che si apre all’infinito. Ecco, lì non c’è contrapposizione, le forse si unificano procedendo verso il punto focale. La geometria cartesiana – troppe volte impalcatura indiscussa della nostra testa – si sfalda, non regge. E’ vecchia.

C’è spazio per chi ha una visione e la segue con forza, sia pure con vis polemica, la argomenta, la innerva di ragioni. E’ sempre un’apertura. Solo i tiepidi non aggiungono niente, non aggiungono sapore all’alchimia universale.

E poi, se vogliamo davvero: non era conciliante con la spiritualità o la religione, ma era stato lo stesso accolto all’Accademia Pontificia delle Scienze (e questo è semplicemente bellissimo, secondo me). A proposito, segnalo che proprio il quotidiano cattolico Avvenire peraltro oggi esce alla grande con un bell’articolo di Piero Benvenuti (in passingex presidente del mio ente, l’Istituto Nazionale di Astrofisica) che assai intelligentemente si smarca subito dal possibile inghippo di vetuste contrapposizioni, ed inquadra in un contesto ampio e aperto l’opera e la visione di questo grandissimo scienziato…

Preferisco onorare la sua memoria pensando che egli abbia voluto richiamare la nostra attenzione, anche con forme provocatorie, sulla necessità impellente che la filosofia e la teologia non ignorino i messaggi provenienti dalla cosmologia attuale, soprattutto dalla evoluzione globale ed unitaria dell’universo.

Non c’è bisogno di altro, perché cadremmo nella retorica. E non è proprio il caso.

Chiudo con un piccolo ricordo personale, se mi è concesso. Moltissimi anni fa – ero un ragazzetto – forse per la prima volta sentii parlare di lui da un altro astrofisico, da mio papà. E ricordo ancora benissimo, a distanza di decenni, l’ammirazione e perfino la commozione con cui ne parlava (ricordo il luogo dove eravamo, quasi le impressioni più minute). E per me già basterebbe questo, per dolermi della sua scomparsa.

Addio Stephen, ora le stelle le vedi, davvero. E sono sicuramente sfolgoranti.

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Il flusso della poesia

Faccio una pausa, una contingenza mi impone di uscire. Sto rivedendo le poesie di Imparare a guarire. Mi stacco dal flusso di congetture e pensieri e idee di miglioramento ed idee di ma così vanno bene alternate ad idee ma cosa ci hanno trovato per volerle pubblicare alternate ad idee ma sai che questo verso viene giù proprio bene il tutto in alta frequenza, a rapida successione.
 
Fatto quel che dovevo, punto ad una piccola passeggiata, anche se piove. Mi spingo fino alla zona che mi piace, la zona che preferisco. Qui respiro, ogni volta e di nuovo.
 
Certo, devo trovare una scusa. Anche e soprattutto con me stesso: che faccio, vado in giro senza uno scopo? Con tutta la gente che ormai si affretta 24/7 (me compreso, più o meno), mica posso gironzolare a vuoto. Mi sentirei colpevole. Mi fermo al forno, è aperto quello, è sempre aperto. Ecco fatto. Prendo qualcosa per casa.
 
Guarda che intanto la pioggia è diminuita. Si può quasi camminare. Lascio in macchina la busta e adesso cammino.
 
Qui, sto bene. Chissà perché.
 
Allora traverso, cammino fino alla stradina che costeggia quella casetta che sembra un piccolo castello, giro a sinistra e lambisco il parco. Guardo intanto le case che si affacciano su quel fazzoletto verde, mi immagino di abitare lì. Scelgo il piano che mi piace, il balcone, quello ampio con i fiori. Oppure le finestre con la luce calda. Penso a situazioni, rumori, odori, frasi dette e sussurrate, pensieri, frammenti di vita quotidiana che ti vengono addosso e costruiscono un’esistenza.
 
Giro a sinistra, prendo la stradina, poi ancora a sinistra e chiudo il giro.
 
Guardo, mentre percorro la piccola via. Perché a camminare senza meta puoi ancora guardare. Con le poesie rimaste in stand-by un po’ di sensibilità mi rimane sulla pelle, mi ricircola nel cervello, passa intorno al cuore, un po’ meno addormentato di tante volte.
 
Così anche una scritta sui muri si collega a qualcosa. Come se un flusso nascosto di poesia, affiorasse, qua e là.
Così, mi fermo a fotografare. Non sarà un verso immortale, ma non ha importanza. E’ lì come segnaposto. E’ lì per dire che le emozioni contano, le emozioni muovono il mondo, le emozioni informano i pensieri (questo lo dice benissimo la scritta) e li scardinano splendidamente dalle inutili costruzioni logiche che l’ego di ognuno si costruisce. Esorbitano, allegramente.
 
Ma non solo. Il desiderio è quello che muove tutto. Comunque sia, comunque inteso. Altrimenti c’è la stasi, la stagnazione, la desolazione. Un desiderio è alla radice della vera poesia, della vera religione, di ogni agognato ritorno alla consolazione. Un desiderio preso sul serio è sempre una pista interessante. Il difficile è prenderlo sul serio, non accontentarsi di poco e vedere davvero dove va a finire.
 
La poesia è il prevalere del desiderio sulla logica. Perché un desiderio non è mai totalmente logico. Anche se è sempre totalmente ragionevole.
 
Forse anche Giorgia, anche lei lo sa. Lo capisco dall’altra scritta, che incontro.
Questo è come riprendere, riconsiderare, riabbracciare la prevalenza del desiderio, esattamente. Che bella frase, solo a ripensarla, a rigirarla nella mente: la prevalenza del desiderio. E’ tutta una indicazione cordiale di un ordine differente delle cose, un ordine più umano e meno meccanico ed impersonale ed impermeabile al cuore di quello che diamo per scontato.
 
E’ una sottile rivoluzione che può sempre ripartire, sempre rifiorire.
 
Dire Ti amo Giorgia con piena coscienza, è un atto rivoluzionario, un riavvicinamento in picchiata al cuore, una ripresa d’aria, una lieta sorpresa.
 
Torno alle mie poesie. Alla fine la poesia è un atto di amore, sempre e comunque. Non può essere altro, strutturalmente è impossibilitata ad essere altro.
 
Per questo è irrazionale e ragionevolissima, per questo è necessaria per vivere, per questo è una linfa che scorre e tiene aperto il cuore, lo tiene acceso, lo tiene morbido, lo tiene vivo.
 
Il flusso della poesia è una festa. Una festa necessaria.
 
Non so. Io credo che Giorgia lo sa e chi la ama veramente, per quanto veramente la ama, già lo sa. Ed io che fatico ad amare, ma voglio amare, lo sto imparando, forse.
 
Poco a poco, zoppicando, incespicando mille volte. Con tanta pazienza, con molta lentezza: datemi tempo per amare, avverte d’altronde il vero poeta, consapevole della difficoltà dell’impresa.
 
Insomma, con ogni possibile lentezza, imparando a guarire.
 
Anche, grazie alla poesia.

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La galassia IC 4710. Un incontro, per splendere

La scoprì nel 1900 un astronomo chiamato DeLisle Stewart, ma certo non poteva immaginare come l’avremmo potuta osservare oggi, a distanza di più di un secolo. Splendida, per come ce la restituisce il Telescopio Spaziale Hubble.

Crediti: ESA/Hubble & NASA, Ringraziamenti: Judy Schmidt

La galassia IC 4710 è indiscutibilmente un affascinante ed affastellato coacervo di stelle. E’ una galassia nana irregolare, e come tale privilegia un allegro ed effervescente disordine interno alle strutture molto regolari  – e magari un po’ noiose – che sono le grandi galassie ellittiche, ad esempio.

Galassie come questa infatti sono – e certo non per caso – caotiche e assai diverse l’una dall’altra. Manca ogni apparenza di nucleo centrale e di braccia a spirale, tanto per dire. Dunque, molto differenti anche dalle galassie a spirale, come la nostra cara Via Lattea. Nel mare immenso di galassie, dunque, queste si ricavano decisamente un posto a sé.

Interessante il fatto che anche qui vi sia decisa evidenza di trasformazione. Ci dicono infatti gli scienziati che le irregolari possono essere state, un tempo, spirali o ellittiche. Ma che poi sono diventate così allegramente anarchiche per l’intervento delle forze gravitazionali sorte, forse, nell’incontro o nella fusione con altre galassie.

Insomma, niente di nuovo. Lo sappiamo bene: tanto spesso è un incontro a scompaginare le carte, a farci balzare fuori da un (finto) senso di ordine, a rimetterci in pista e a farci sentire tutto con un sapore nuovo. A volte ci vuole un incontro (anche con noi stessi, e dunque con tutto il resto) per rimetterci nel flusso cosmico, da dove ci eravamo staccati per cullare qualche malintesa idea di ordine e stabilità.

E anche a splendere. Come fa IC 4710, del resto.

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Come ti scopro una supernova…

A volte può accadere. Del resto, il cielo è un luogo di sorprese, anche se spesso non ci pensiamo. Troppo distratti da tante cose, per guardare in alto. Poco male, potremmo dire: le sorprese arrivano lo stesso. E ci fanno tornare a pensare a quel mondo di stelle che è tutto intorno a noi, sempre capace di stupirci.

In quel mondo, può accadere l’incredibile. Può accadere che un astrofilo (per la cronaca, Victor Buso) acquisisca delle immagini del cielo, ma così, al puro scopo di provare la sua macchina fotografica nuova fiammante, finalmente agganciata al suo telescopio.  E che noti – guarda un po’ che strano! – scorrendo le foto che ha preso, l’apparire di un piccolo “puntino” al bordo di una galassia a spirale, la galassia NGC 613 per la precisione.

Quel puntino che si “acceso” è proprio una supernova! Crediti: NASA, ESA, Hubble, S. Smartt (QUB); Ringraziamenti: Robert Gendler; Inserto: le immagini prese da Victor Buso

Quel puntino è una supernova, una stella in esplosione, che Victor ha avuto il privilegio incredibile di osservare nei primissimi istanti della sua formazione. In effetti, non era mai stata fotografata, nell’ottico, una supernova in questa fase così iniziale! Da come si è evoluta la curva di luce di questo oggetto, è apparso chiaro che Victor ha acchiappato la supernova esattamente quando l’onda di detonazione dal nucleo interno della stella (probabilmente una supergigante, stelle enormi a vita molto breve) raggiungeva gli strati superficiali, innescando l’enorme aumento di luminosità caratteristico di questi peculiari oggetti.

Il bello della faccenda, è che lui ha osservato per puro caso una situazione che miriadi di astronomi professionisti hanno spasmodicamente cercato per anni ed anni, monitorando accuratamente delle galassie più popolose, accuratamente selezionate per probabilità stimata di riscontrare un simile evento.

Hanno cercato. E non ci sono riusciti. Poi è arrivato un tipo che ha scattato un paio di foto per provare una nuova camera, e il cielo gli ha regalato questo spettacolo. Più improbabile che vincere una lotteria.

Tanto per dire, per ricordare, che l’incredibile è di casa. Lassù nel cielo.

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