Niente. Quando muore uno scienziato di questo calibro, la notizia trascende velocemente l’ambito strettamente accademico, supera il confine degli addetti ai lavori. E coinvolge irresistibilmente un ambito ben più vasto, ben più ampio e variegato della solita cerchia.

Non fosse un evento tragico, si potrebbero fare considerazioni su come la scienza sia in realtà sempre molto presente nell’immaginario collettivo. Sia come sotto traccia, pronta a venire fuori, ad esondare, in particolari occasioni: l’abbiamo visto più volte, può essere un atterraggio di una sonda su un pianeta lontano, l’uscita della Voyager I dal Sistema Solare, il tuffo finale di Cassini dentro Saturno.

Tanti spunti per ricordarci che il nostro mondo è grande come l’universo. E il nostro mondo, ci interessa. Il suo perenne mistero, ci cattura.

E’ questo, secondo me: la sete di infinito, la voglia di conoscere almeno qualcosa di questa sconfinata immensità in cui siamo lanciati, a bordo i un pianetino ai margini di una galassia gigantesca, ebbene quella sete rimane viva, sempre. A volte scorre sottotraccia, appena coperta dagli strati un pochino polverosi della vita quotidiana. Ma rimane viva. E’ lì, e riguarda tutti.

Capire che ci stiamo a fare nell’universo, non può più prescindere dal capire l’universo. Almeno un po’. E lui ci ha provato, ci si è speso fino all’ultimo, nel capire.

Alla NASA, nel 1980

Così ieri mattina seguivo i messaggi su Twitter con l’hashtag StephenHawking e comprendevo con inequivocabile evidenza – se pur servissero altre evidenze – come questa figura di scienziato sia entrata profondamente nel cuore delle persone (molto al di là del grado molto specialistico delle sue ricerche). D’accordo: il fatto di essere un grande scienziato, ed insieme affetto da una penosa malattia invalidante, ha certo contribuito a creare il suo mito. Ma non è solo questo, probabilmente non è solo questo. Il fatto di non arrendersi mai è stato determinante, da come mi pare di capire.

I messaggi su Twitter si succedevano a gran velocità, e moltissimi davano – come è giusto – un condiviso tributo di ammirazione per il suo coraggio di andare avanti, di cercare,  fino alla fine.

Alcuni rielaboravano questo tributo con intelligente simpatia, legandolo alle storie personali.

Mettiamola così, in modo molto semplice. La gente ha bisogno di vedere che c’è chi non si arrende, di fronte anche a difficoltà grandi. Le persone ne hanno bisogno, per proseguire il proprio viaggio nel cosmo, in questo spicchio periferico  ma tutto speciale di spaziotempo. Anche, per sentire più “amico” questo universo, più praticabile. Più percorribile. Per non sentirsi persi nel vuoto.

Oggi più che mai, infatti, per tanti versi ci sentiamo spaesati, a volte senza una guida, senza un manuale di istruzioni. La gente ne ha bisogno davvero, cerca un esempio, un modello, cerca qualcuno da ammirare. Mutatis mutandis, potremmo dirlo anche – accenno solo un paragone che potrà sembrare azzardato – per Giovanni Paolo II, per quell’eroismo semplice e sofferto che ha contraddistinto i suoi ultimi anni di pontificato, che ha colpito e catturato ben oltre la cerchia di chi si professa cristiano.

Lo so, per alcuni versi due figure agli antipodi, perché sappiamo cosa pensava il nostro scienziato del rapporto tra scienza e fede. Eppure gli antipodi sono un residuo di una visione geometrica cartesiana, un po’ semplicistica. Lo spazio tempo – ormai lo sappiamo bene – è mobile, permeabile, fluttuante, imprevedibile, modificabile. Gli opposti si incontrano, si baciano (e infatti i due si sono incontrati, e anzi Stephen ne ha incontrati altri tre, di papi). Gli opposti, del resto, sono un frutto della mente giudicante, divisiva, non certo della mente che si apre all’infinito. Ecco, lì non c’è contrapposizione, le forse si unificano procedendo verso il punto focale. La geometria cartesiana – troppe volte impalcatura indiscussa della nostra testa – si sfalda, non regge. E’ vecchia.

C’è spazio per chi ha una visione e la segue con forza, sia pure con vis polemica, la argomenta, la innerva di ragioni. E’ sempre un’apertura. Solo i tiepidi non aggiungono niente, non aggiungono sapore all’alchimia universale.

E poi, se vogliamo davvero: non era conciliante con la spiritualità o la religione, ma era stato lo stesso accolto all’Accademia Pontificia delle Scienze (e questo è semplicemente bellissimo, secondo me). A proposito, segnalo che proprio il quotidiano cattolico Avvenire peraltro oggi esce alla grande con un bell’articolo di Piero Benvenuti (in passingex presidente del mio ente, l’Istituto Nazionale di Astrofisica) che assai intelligentemente si smarca subito dal possibile inghippo di vetuste contrapposizioni, ed inquadra in un contesto ampio e aperto l’opera e la visione di questo grandissimo scienziato…

Preferisco onorare la sua memoria pensando che egli abbia voluto richiamare la nostra attenzione, anche con forme provocatorie, sulla necessità impellente che la filosofia e la teologia non ignorino i messaggi provenienti dalla cosmologia attuale, soprattutto dalla evoluzione globale ed unitaria dell’universo.

Non c’è bisogno di altro, perché cadremmo nella retorica. E non è proprio il caso.

Chiudo con un piccolo ricordo personale, se mi è concesso. Moltissimi anni fa – ero un ragazzetto – forse per la prima volta sentii parlare di lui da un altro astrofisico, da mio papà. E ricordo ancora benissimo, a distanza di decenni, l’ammirazione e perfino la commozione con cui ne parlava (ricordo il luogo dove eravamo, quasi le impressioni più minute). E per me già basterebbe questo, per dolermi della sua scomparsa.

Addio Stephen, ora le stelle le vedi, davvero. E sono sicuramente sfolgoranti.

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