Blog di Marco Castellani

Mese: Luglio 2018

Di cosa è fatto tutto quel che c’è?

L’astronomia ci ha abituato da tempo a splendide immagini: stelle, pianeti, lontani quasar… Eppure, raramente troviamo una immagine così densa come quella che presentiamo oggi e che racchiude, conchiude – quasi come una icona – la nostra attuale concezione di Universo.

Di cosa è fatto insomma il nostro Universo? Di cosa è fatto tutto quel che c’è? Scoprirlo, è il compito della sonda Plank (un grande progetto della nostra Europa) che ha realizzato – dal 2009 al 2013 – una mappa puntigliosissima delle differenze in temperatura della superficie ottica più “antica” che si conosca in assoluto, ovvero il fondo cielo che si creò quando il nostro universo divenne, finalmente, trasparente alla luce (prima era così denso che non c’era verso, nemmeno i fotoni potevano fluire tranquilli).

La radiazione cosmica di fondo è una complessa intelaiatura che è anche un formidabile campo di prova per le varie teorie cosmologiche, per le nostre prove di comprensione della struttura del mondo. Le teorie dunque sono chiamate ad accordarsi con quanto oggi “vediamo” tramite satelliti come Plank, e questo pone fortissime “costrizioni”, che sono a loro volta cogenti indicazioni. Di quel che c’è, e quel che non c’è.

Soprattutto, di quanto sia sorprendente questo universo, in cui viviamo. La più recente analisi di questi dati, infatti – roba fresca fresca, di pochi giorni – conferma ora ed ancora che la maggior parte dell’Universo è fatta di qualcosa che non conosciamo, la elusiva “energia oscura”. E non è tutto: anche la maggior parte della materia, è materia che non conosciamo, anch’essa detta “oscura”, appunto.

Insomma l’universo, questo universo – nato (e lo sappiamo proprio da questi dati) 13,8 miliardi di anni fa, continua a stupirci con la sua formidabile carica di mistero. E’ così davvero affascinante, guardarlo, esplorarlo, cercare di capirlo. Perché quel poco che sappiamo (ed è già moltissimo) si immerge in un mare magnum di cose che ancora non sappiamo. Ma che siamo invitati ad esplorare, ogni giorno di più.

E le sorprese – questo sì, lo sappiamo – non mancheranno.

 

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Imparare a guarire

Il fatto è che c’è sempre qualcosa che sborda, c’è sempre un overshooting, una volta chiuso qualcosa. Come se davvero non si potesse veramente chiudere qualcosa. C’è dunque qualcosa che rimane, che esorbita, che in qualche modo chiama ad una ripresa, ad un ampliamento, o una correzione di rotta. Un arricchimento, oppure uno sfilamento, un asciugare quello che è ridondante. Un dire meglio quello che c’è da dire,
 
Perché quello che c’è da dire non è un optional. E’ un lavoro che va fatto.
 
 
 
Questa nuova raccolta di poesie (sarà pubblicata in agosto), Imparare a guarire, è nata piano piano, e poi uscita – come la precedente – quasi sotto la pressione delle cose. Sono parole, appena. 

Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson)

Sono parole arrivate in lenta progressione, accumulazione, in paziente precisazione. Arrivano e poi piano piano compongono un ambito, definiscono delle coordinate, un orizzonte. Cercano una visibilità e una loro specificità, ritagliano scenari, individuando dei colori dominanti. Che poi non vanno inventati, questi colori. non è uno sforzo di immaginazione, una strategia di composizione. Tutt’altro. E’ la vita che te li porge. La stessa che ti spinge a scrivere, ti fornisce il materiale grezzo, e la spinta per lavorarlo.

 
Molto di questo materiale è polarizzato dalla mia esperienza in Darsi Pace. Polarizzato, nel senso che il materiale viene ovviamente da ovunque ovvero dalla vita, in sé. Più ampia di qualsiasi catalogazione, esorbitante rispetto ad ogni schema. Allora è una sorta di griglia di ordine, appena, quella che viene ricercata, e che in questo caso è il percorso di ricerca di significato delle cose, che germina nella modernità di ricerca di significato di uno specifico percorso (che non elide o toglie spazio ad ogni percorso, semmai lo definisce meglio). 
 
E’ come un campo magnetico, una ipotesi di senso (sempre da verificare). Il materiale si ordina, allora, quasi spontaneamente. Non c’è ordine possibile nella mancanza di senso, infatti. L’ipotesi di senso permette al materiale della realtà – di cui sono fatte le poesie – di essere lavorato, come al materiale dell’animo. Peraltro ogni atto creativo, mi pare, si appoggia su una ipotesi di senso: altrimenti non è possibile. 
 
Imparare a guarire è fin nel titolo, la sommessa ipotesi di perpetua lavorabilità del reale,  del materiale reale fuori e dentro di noi. Oppure solo dentro, che il fuori ne deriva, comunque. E’ una sfida gentile a rimettersi in movimento, a camminare, appena, perché ogni materiale che incontriamo in realtà – lo sappiamo – è lavorabile, plasmabile. 
 
Questo progetto nasce e cresce, anche, per l’amichevole vicinanza di due poetesse. Due donne amiche dei versi, sacerdotesse delle parole, e sono davvero contento che sia così. Alessandra Angelucci, ha creduto subito nel mio materiale e mi ha insegnato discretamente come portare avanti l’opera. Valeria Di Felice ha accolto le mie parole e le ha fatte nascere, ospitandole nella forma di un libro per la sua coraggiosa e frizzante casa editrice.
 
La mia profonda gratitudine a Marco Guzzi (poeta, filosofo, creatore ed animatore dei gruppi Darsi Pace) per la bellissima prefazione, che a me rivela un amore all’idea di guarigione come riverberata nell’opera, e una attenta e partecipe lettura della stessa. La mia sincera gratitudine anche a Davide Calandrini, un amico bravissimo disegnatore, che ha fatto nascere la copertina, in un lavoro di paziente ascolto, prima di tutto delle mie parole scritte, e delle mie indicazioni. 
 
Ci sarebbe da ringraziare, ancora e tanto. Affetti, percorsi di guarigioni, terapie ed abbracci. Sorrisi e incoraggiamenti. Segni di stima, quando tu non ti stimeresti. Luci nel percorso. Soprattutto, chi condivide più vita con te, e ti incoraggia in modo implicito ma tenace, testardamente efficace. Ma rischierei di annoiare. Comunque è questo, sinteticamente: è tutte le persone che incontri e che ti fanno capire che essere te stesso è la loro gioia, in fondo. Tutto quello che ti chiedono, quello che desiderano nel rapporto con te (speculare a quello che tu desideri negli altri, quando non sei preso da una tua strategia piccola), è che tu sia te stesso. Che tu nasca. Ancora e sempre.
 
Finalmente può dire “Benvenuto Marco” mi scrive Laura, pochi giorni fa. Significativo. 
 
Ed è questo, che uscirà tra pochi giorni. La cosa più bella proprio è che è un lavoro di amicizie, in fondo. Non è roba mia, in fondo. Non penso che ci sia cosa più bella, lieta e robusta (a parte certi momenti di gioia donata), di un lavoro di amicizie: quasi, davvero, un anticipo di guarigione. 

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L’universo raccontabile (anche su Facebook)

L’uomo. Ecco il grande escluso dalle teorie cosmologiche che ci stiamo lasciando alle spalle. Ecco il grande furto a cui urgentemente porre riparo, l’immenso impoverimento da sanare al più presto: c’è da riconsegnare il cosmo all’uomo. Dare all’uomo – ad ogni uomo – un modello di universo comprensibile, pensabile, lavorabile. Raccontabile, declinabile perfino sui social. E soprattutto, portatore di senso.
La partita è fondamentale, decisiva: in effetti, è questo il vero campionato del mondo, o meglio dell’universo. Un cosmo non raccontabile è qualcosa che proprio non ci possiamo più permettere:  è un cosmo in cui il disagio di non poter tracciare una storia diventa angoscia, timore del nulla, si veste di senso di impotenza, si colora di paura dell’ignoto. Un universo in cui siamo spersi: dispersi, per essere più pilotabili. Te la raccontano così, in effetti: sii buono e possibilmente, un quieto cittadino, buon consumatore, rimani pure nella tua quieta disperazione. Tanto cosa puoi sperare, lì fuori è tutto freddo e buio, non vedi?
Ebbene, è il momento di dire basta. Da tutto questo, da questo scenario malato, sconfessato ormai dalla stessa scienza cosmologica, dobbiamo e vogliamo evolvere.
Come da piccoli, la voce del papà e della mamma scavavano un percorso rassicurante nel buio della notte, confortando il nostro cuore impaurito, così l’umanità è sempre “piccola” – ovvero sempre in crescita – e desiderosa di ricavare un sentiero nella vastità dello spazio: per vedere il buio non più come oscurità, ma come un silenzio trattenuto, delicatamente trapuntato di stelle. Come scrivono Leonardo Boff e Mark Hataway, nel volume Il Tao della Liberazione“abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza del mondo”
In breve, la cosmologia contemporanea, quella più avveduta, ha questo grande compito: riportarci verso un cosmo a misura d’uomo, ovvero un cosmo incantato. Scrivono infatti gli stessi autori, che “l’umanità si è in genere considerata parte di un cosmo vivente intriso di spirito, un mondo dotato di una specie di incanto.” In questo modo il nuovo cosmo non potrà che riflettere la nuova scienza, quella che riporta l’essere umano non solo al centro del processo cognitivo, ma al centro stesso dell’universo che vuole indagare.
Questa rivoluzione cosmologica non avviene oggi “per caso”, ma è stata preparata da una profondissima crisi all’interno della stessa scienza più rigorosa, crisi che ha visto lo scardinamento e il tracollo della visione meccanicistica cartesiana (funzionale peraltro ad un approccio di dominio e non di relazione) sospinta dall’avanzare delle visioni – potentemente dirompenti – della fisica relativistica e della meccanica quantistica. Non è questa la sede per indagare la portata di tali eventi concretamente rivoluzionari, dobbiamo appena comprendere il loro di stimolo potente verso le istanze di un ricominciamento totale, anche nella scienza.
Questo ricominciamento, questo reincantamento, possiede in sé l’urgente necessità di comunicarsi a tutti gli uomini, perché tutti noi siamo comunque vittime di questo “furto del cielo”, perché  noi tutti soffriamo di questa ferita aperta. E’ un risarcimento che si vuol proporre, in altre parole. Urgentissimo, perché già tardivo. Una impresa di questa natura deve rivestire il carattere deciso di modernità, ovvero avvenire attraverso ogni canale informativo: ad esempio, non è ormai nemmeno pensabile, senza il coinvolgimento attivo dei social media.
C’è dunque un messaggio, il nuovo cosmo “a misura d’uomo”, e c’è la necessità urgente di rilanciarlo attraverso i canali privilegiati della connessione informatica, così pervasiva ad ogni livello di istruzione e in ogni ambiente. Anzi, potremmo addirittura ribaltare la questione, sostenendo che questa facilità immensa di comunicazione è nata esattamente nell’attesa, nell’imminenza di un messaggio “planetario” da trasmettere. Così comprendiamo perché, con Facebook, Twitter e gli altri social media – che a loro volta si appoggiano a questa straordinaria innovazione che è Internet – siamo arrivati ad una capacità di connessione sbalorditiva, proprio nell’imminenza di questo momento di crisi.
Il rischio allora è che questa capacità di contatto e condivisione, questa inedita potenza di fuoco possa rimanere senza un messaggio profondo da veicolare. Sarebbe pericolosissimo, perché l’assenza viene sempre colmata, in qualsiasi modo, a qualsiasi prezzo. Lo vediamo nei giorni presenti, dove diviene sempre più difficile estrarre un contenuto di valore dal rumore di fondo di ogni schermata di Facebook. Il valore, ovvero tutto quel che invita a riflettere e ad approfondire, rispetto alle innumerevoli “chiamate” alla reazione immediata e superficiale.
Tutto questo presenta conseguenze dirette – tra l’altro – anche nell’educazione, quel processo delicatissimo che deve anch’esso tornare ad un incanto primordiale, ad un ambiente protetto e non giudicante dove la creatività dei ragazzi è esaltata. A noi dunque la scelta di subirlo, questo cambio di pelle, di rimanere frenati in questa urgenza del nuovo, sempre più a fatica, oppure di lanciarci, di scommettere finalmente su un vero rovesciamento di prospettiva.
Alla fine, è una decisione, a cui siamo chiamati. In questa proposta interpretativa non c’è più il “caso”, ma tutto avviene per un senso, e la percezione di un modo “incantato” di guardare l’universo richiama ad un modello d’uomo che non è più vittima della tecnica, perché – in ultima analisi – non è più prigioniero del nichilismo.
Un uomo che possiede (in un possesso dinamico, per invocazione) un senso delle cose, è un uomo che automatica-mente manipola ogni oggetto, ogni tecnica, con una coscienza diversa, che porta nuovo frutto in quello che fa, perfino al tempo speso sui social. Non ci serviranno dunque decaloghi e regole d’uso per recuperare una dimensione umana in Facebook: ci salverà piuttosto la percezione di un cammino fatato, di un percorso possibile verso quel “Regno” dove tutto diventa anticipo e possibilità d’espressione nuova, di creatività inedita ed insperata. Dove la scienza si sposerà con un uso equilibrato e sobrio del mezzo informatico, recuperato nella sua autentica dimensione di strumento, e non di fine. In altri termini, ripreso a servizio.
Questo è il compito che abbiamo davanti, questa è una precisa responsabilità di chi, a vario livello, si occupa di fare scienza, o di divulgarla. Questo, con le sue piccole forze (che poi è sempre questione di risonanza, non di forza bruta), è anche il fine che il gruppo culturale AltraScienza si è prefisso, fin dalla sua formazione. Che vuole appunto declinarsi anche su Facebook, e su Twitter.
Per meno di questo non vale la pena muoversi, credetemi. Per meno di questo, non mette conto ripensare creativa-mentel’impresa scientifica. Nessun gioco al ribasso ormai ci è possibile, in questa epoca di grande cambiamento. O meglio, in questo cambiamento d’epoca. Tenendo in debito conto che, per usare le parole di Thomas Berry, “a noi non mancano le forze dinamiche per costruire il futuro. Viviamo immersi in un oceano di energia inimmaginabile. Ma questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio ma per invocazione”.
Queste dunque sono le coordinate del gioco. Enorme, smisurato. Grazie al cielo, splendidamente al di sopra della nostra capacità. Così che sia più dolcemente chiaro, appunto, che tutto è alla nostra portata, sì, ma  per invocazione. Infine, a chi riguardasse questo come bello, ma utopico, permettetemi di rispondere con un motto del ‘68 francese, molto amato sia da scrittori laici come Albert Camus che da personalità religiose come Don Luigi Giussani: “Siate realisti, domandate l’impossibile”.
Pubblicato in origine sul blog Darsipace.it

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Ragionamento

Siamo strani, siamo umani. Siamo universi sempre diversi. Un approccio logico-razionale tra due persone, comunque, porta rapidamente ad un attrito, una frizione, una consunzione, come due ingranaggi che girano a regime diverso e si volessero mettere in connessione. Tale approccio porta in realtà allo stesso stress delle strutture anche nel rapporto di una persona con sé stessa, come sappiamo. Siamo, mi pare, in una epoca di ipertrofia della logica, che viene applicata spesso fuori dal suo specifico campo d’azione. 
Sarà perché la logica è in un certo senso, falsamente rassicurante. Ci fa sentire padroni della situazione, ci fa sentire in pieno controllo. E’ una cosa che possiamo dominare, e sembra lì apposta, per fare chiarezza. Tipo, enucleare i termini di un problema, descriverne i contorni, per poi operare in maniera logica e razionale, verso una soluzione (o mitigazione del problema). Dividere, sezionare, scansionare, enucleare all’infinito, per comprendere, o per risolvere. 

E’ un abbaglio della ragione, fondamentalmente. Una sua hybris, abbastanza perniciosa. Nella sua ansia risolutiva, si scorda di tutto un mondo attorno, che però non può essere escluso senza alterare e avvelenare il contesto, il campo da gioco. Si scorda – per dire – dell’esistenza delle stelle. 

Ci siamo molto abituati a diffidare di tutto tranne che del ragionamento, che invece a volte è proprio l’ultima cosa alla quale ricorrere per affrontare i problemi. Avete presente quella sensazione che tanto più ragioniamo su una certa circostanza, tanto più ci impantaniamo?

Forse perché il ragionamento ci illude di tenere presente tutto, e ponderare tutto. Mentre in realtà ha fatto fuori dal suo stesso moto iniziale quella salutare pratica di affidamento ad una forza più grande e benevolente, che spesso – a parole – diciamo pure di considerare, o di onorare (chiamatela Dio, o Essere, o Vita, o in qualsiasi modo vi risuoni di più). O più semplicemente,  se volete, a qualcosa che non cade nella nostra orbita di analisi, al momento.

Alla base del ragionamento c’è infatti un assioma, un postulato, quello segretamente prometeico che dice “bene, ora vediamo come io posso risolvere questo problema”. Come tale esclude appunto un qualsiasi affidamento a qualcosa che sia esorbitante dalla mia cognizione razionale. Ed esclude dunque qualsiasi sorpresa.  Come dire, “poche chiacchiere, quando si arriva veramente ai problemi, me la devo vedere da solo”. 

Dunque in un certo senso, un approccio totalmente razionalistico ad un dato problema è prima di tutto e subito una mozione di sfiducia. 

Come appunta  Etty Hillesum nel suo Diario,

Dammi pace e fiducia. Fà che ogni mia giornata sia qualcosa di più che le mille preoccupazioni per la sopravvivenza quotidiana. E tutte le nostre ansie per il cibo, i vestiti, il freddo, la salute, non sono altrettante mozioni di sfiducia nei tuoi confronti, mio Dio? 

Certo non è facile, lasciarsi andare, provare ad affidarsi, mollare la presa (per me, ad esempio, è francamente difficilissimo). Ma non per questo dobbiamo desistere, anzi forse dobbiamo lavorare di più e con più allegra determinazione a lasciare, ad abbandonarci ad un flusso più grande e più saggio di noi. 
Certo, non ci riusciamo subito. 
Ma fare delle prove di abbandono, magari anche spezzare la catena perversa di ragionamenti, la proliferazione di pensieri, con qualche minuto di meditazione, o di lettura profonda? Perché no? O comunque, appena, sapere che a volte la soluzione non viene dai pensieri – per quanto la mente ci suggerisca di pensare più a fondo se non troviamo soluzione. Paradossalmente, una buona cosa potrebbe essere quella di accogliere la situazione presente, rinunciando – almeno per un po’ – alla idea, alla pretesa di cambiarla, o di cambiarci. Onorare la situazione presente, accettandola
Senza tanti ragionamenti. 

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