Il fatto è che c’è sempre qualcosa che sborda, c’è sempre un overshooting, una volta chiuso qualcosa. Come se davvero non si potesse veramente chiudere qualcosa. C’è dunque qualcosa che rimane, che esorbita, che in qualche modo chiama ad una ripresa, ad un ampliamento, o una correzione di rotta. Un arricchimento, oppure uno sfilamento, un asciugare quello che è ridondante. Un dire meglio quello che c’è da dire,
 
Perché quello che c’è da dire non è un optional. E’ un lavoro che va fatto.
 
 
 
Questa nuova raccolta di poesie (sarà pubblicata in agosto), Imparare a guarire, è nata piano piano, e poi uscita – come la precedente – quasi sotto la pressione delle cose. Sono parole, appena. 

Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson)

Sono parole arrivate in lenta progressione, accumulazione, in paziente precisazione. Arrivano e poi piano piano compongono un ambito, definiscono delle coordinate, un orizzonte. Cercano una visibilità e una loro specificità, ritagliano scenari, individuando dei colori dominanti. Che poi non vanno inventati, questi colori. non è uno sforzo di immaginazione, una strategia di composizione. Tutt’altro. E’ la vita che te li porge. La stessa che ti spinge a scrivere, ti fornisce il materiale grezzo, e la spinta per lavorarlo.

 
Molto di questo materiale è polarizzato dalla mia esperienza in Darsi Pace. Polarizzato, nel senso che il materiale viene ovviamente da ovunque ovvero dalla vita, in sé. Più ampia di qualsiasi catalogazione, esorbitante rispetto ad ogni schema. Allora è una sorta di griglia di ordine, appena, quella che viene ricercata, e che in questo caso è il percorso di ricerca di significato delle cose, che germina nella modernità di ricerca di significato di uno specifico percorso (che non elide o toglie spazio ad ogni percorso, semmai lo definisce meglio). 
 
E’ come un campo magnetico, una ipotesi di senso (sempre da verificare). Il materiale si ordina, allora, quasi spontaneamente. Non c’è ordine possibile nella mancanza di senso, infatti. L’ipotesi di senso permette al materiale della realtà – di cui sono fatte le poesie – di essere lavorato, come al materiale dell’animo. Peraltro ogni atto creativo, mi pare, si appoggia su una ipotesi di senso: altrimenti non è possibile. 
 
Imparare a guarire è fin nel titolo, la sommessa ipotesi di perpetua lavorabilità del reale,  del materiale reale fuori e dentro di noi. Oppure solo dentro, che il fuori ne deriva, comunque. E’ una sfida gentile a rimettersi in movimento, a camminare, appena, perché ogni materiale che incontriamo in realtà – lo sappiamo – è lavorabile, plasmabile. 
 
Questo progetto nasce e cresce, anche, per l’amichevole vicinanza di due poetesse. Due donne amiche dei versi, sacerdotesse delle parole, e sono davvero contento che sia così. Alessandra Angelucci, ha creduto subito nel mio materiale e mi ha insegnato discretamente come portare avanti l’opera. Valeria Di Felice ha accolto le mie parole e le ha fatte nascere, ospitandole nella forma di un libro per la sua coraggiosa e frizzante casa editrice.
 
La mia profonda gratitudine a Marco Guzzi (poeta, filosofo, creatore ed animatore dei gruppi Darsi Pace) per la bellissima prefazione, che a me rivela un amore all’idea di guarigione come riverberata nell’opera, e una attenta e partecipe lettura della stessa. La mia sincera gratitudine anche a Davide Calandrini, un amico bravissimo disegnatore, che ha fatto nascere la copertina, in un lavoro di paziente ascolto, prima di tutto delle mie parole scritte, e delle mie indicazioni. 
 
Ci sarebbe da ringraziare, ancora e tanto. Affetti, percorsi di guarigioni, terapie ed abbracci. Sorrisi e incoraggiamenti. Segni di stima, quando tu non ti stimeresti. Luci nel percorso. Soprattutto, chi condivide più vita con te, e ti incoraggia in modo implicito ma tenace, testardamente efficace. Ma rischierei di annoiare. Comunque è questo, sinteticamente: è tutte le persone che incontri e che ti fanno capire che essere te stesso è la loro gioia, in fondo. Tutto quello che ti chiedono, quello che desiderano nel rapporto con te (speculare a quello che tu desideri negli altri, quando non sei preso da una tua strategia piccola), è che tu sia te stesso. Che tu nasca. Ancora e sempre.
 
Finalmente può dire “Benvenuto Marco” mi scrive Laura, pochi giorni fa. Significativo. 
 
Ed è questo, che uscirà tra pochi giorni. La cosa più bella proprio è che è un lavoro di amicizie, in fondo. Non è roba mia, in fondo. Non penso che ci sia cosa più bella, lieta e robusta (a parte certi momenti di gioia donata), di un lavoro di amicizie: quasi, davvero, un anticipo di guarigione. 

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