Blog di Marco Castellani

Mese: Settembre 2018 Page 1 of 2

Lo splendore di Coma

L’ammasso di galassie è veramente notevole, e si trova a circa 350 anni luce da noi, nella costellazione di Coma berenice, dal quale in effetti prende il nome. L’ammasso della Chioma è una gigantesca struttura cosmica che comprende migliaia di galassie, tenute insieme dalla mutua attrazione gravitazionale. La maggior parte di queste galassie sono di tipo ellittico, come NGC 4860, che occupa proprio il centro di questa bellissima immagine (un’altro regalo del Telescopio Spaziale Hubble), impreziosendola con il suo alone luminoso così ampio.

Crediti:  ESA/Hubble & NASA

Ma una galassia altrettanto interessante, se non di più, è quella che appare nella parte sinistra dell’immagine, denominata NGC 4858. Nello zoo delle galassie si ritaglia davvero un posto tutto per sé: sembra una semplice galassia spirale ma non lo è affatto, a guardarla in dettaglio. Piuttosto, dovremmo forse definirla un aggregato galattico, visto che ci appare come una struttura centrale impreziosita da una serie di sbuffi luminosi che sembrano partire dalla zona centrale e innervarsi per lo spazio circostante, donandole questa sua peculiare conformazione.

E’ una galassia speciale anche per quello che sta succedendo al suo interno. Sappiamo infatti che NGC 4858 sta vivendo una fase impressionante di formazione stellare. Di fatto, la galassia sta bruciando il suo gas residuo convertendolo in stelle, ad un ritmo talmente forsennato che si prevede lo consumerà tutto ben prima della fine della sua esistenza.

In questo Universo, che per tanti versi potrebbe dunque apparire antico (dopotutto è online da quasi quattordici miliardi di anni, a quanto ci risulta), riscontriamo giorno per giorno come gli eventi di nascita non siano affatto rari, anzi accadano frequentemente in moltissimi luoghi intorno a noi: in particolare, segnano ancora in modo profondo l’esistenza e la morfologia di moltissime galassie. Evidentemente le stelle possono ancora dirci qualcosa, in molti sensi: a noi la furbizia di guardare il cielo, con la disponibilità del cuore ad essere educati.

Del resto, ogni stella che si accende in cielo è una nuova storia, che merita di essere raccontata.

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Solo un filamento?

Così cantavano i Pink Floyd, in una celebre canzone di un album che è rimasto tra le acquisizioni musicali del secolo appena trascorso: everything under the Sun is in tune / but the Sun is eclipsed by the moon. La canzone, probabilmente lo saprete, è la bellissima, fulminante Eclipse e l’album, rimasto in classifica per tempi quasi stellari, è The dark side of the moon.

Tutto sarebbe dunque “in tune”, ovvero “in sintonia”, sotto il Sole. Così un sole tranquillo, costante, rassicurante, è quello che normalmente ci figuriamo. Del resto così ci appare, dalla nostra posizione del cosmo. Non possiamo scorgere granché delle sue turbolenze (ed è assolutamente da evitare di fissarlo senza adeguate protezioni, per non danneggiare l’occhio).

Ma niente è come appare. 

Per convincervi potete guardare questa immagine del Sole.

Crediti: NASA‘s GSFCSDO AIA Team

Niente di (troppo) particolare, per il nostro Sole. E’ appena un filamento, emesso dalla superficie della stella, durante una emissione coronale di massa avvenuta nel 2012. In quella occasione, una gran quantità di particelle cariche (elettroni e ioni) furono spedite verso Terra, impattando la magnetosfera del pianeta circa tre giorni più tardi, e generando una serie di aurore spettacolari. 

Queste emissioni di massa da parte dello strato più esterno del Sole, la corona appunto, sono fenomeni giganteschi, che coinvolgono masse di gas dell’ordine dei diecimila miliardi di chilogrammi, con velocità che possono raggiungere anche i 2000 chilometri al secondo (oltre i sette milioni di chilometri all’ora, tanto per capirci). 

Non è del tutto chiaro il dettaglio di quello che avviene, ma sappiamo che gli enormi campi magnetici alla superficie del Sole, in rapido cambiamento, hanno sicuramente una bella responsabilità in avvenimenti esagerati come questi. Eventi che arrivano sovente a disturbare lo stesso sistema di telecomunicazioni di Terra.

Sono però tempi estremi anche per la nostra stella, ed è probabile che molte incertezze che abbiamo nel crearci un modello affidabile di quel che avviene sulla superficie del Sole (assai più complesso di quello che avviene all’interno), trovino il modo di essere dipanate e forse dissipate, dai nuovi strumenti con i quali ci stiamo accingendo a guardare questa stella così importante per noi, ovvero Parker Solar Probe (appena lanciata) e Solar Orbiter, in partenza ormai imminente.

Lo scopo è riempire di parole nuove il racconto del nostro Sole (come quello dell’universo), parole nuove che possano farci davvero comprendere – ed anche stupire. 

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Google lo sa… ma si perde il meglio

Certamente, Google lo sa. Ma non intendo riferirmi alle classiche ricerche in rete, dove siamo ormai abbastanza certi che googlando qualcosa otterremo le informazioni che cerchiamo, o almeno ci avvicineremo abbastanza a trovarle. 
No, Google sa anche quello su cui noialtri, spensieratamente, lo riterremmo ignorante. Tanto per capirci, l’editoriale di PC Magazine del mese di settembre, si intitola significativamente Google sa sempre dove siete, e dove siete stati. Che vi piaccia o no! Il titolo è abbastanza preoccupante, ma leggendo l’articolo non si può dire che la preoccupazione sia infondata. 
Lo abbiamo visto diverse volte, siamo diventati in un certo senso noi stessi merce, nel senso che le informazioni su di noi (dove andiamo, cosa facciamo, cosa guardiamo e cosa pensiamo di comprare), hanno valore, sono monetizzabili. Non sempre questo è esecrabile, non è tutto negativo. Per esempio, io non vedo come una cosa brutta che mi arrivi pubblicità mirata ai miei interessi, e non sia esposto ad inserzioni di detersivi o assorbenti, per dire. Dall’altro lato, questa profilazione sempre più accanita un po’ inizia a spaventarmi. 
E’ chiaro che Google mi vuole conoscere, vuole conoscere i miei gusti, per ottimizzare l’offerta di vendita. Come qualsiasi commesso esperto, cerca di valutare chi è entrato in negozio per comprendere meglio a che tipologia di merce può essere interessato. Fino ad un certo punto, va bene. E’ naturale.
Il problema è che la tecnologia diventa momento per momento più fina, più sopraffina, e questa analisi restituisce sempre più dati, mi riproietta nello spazio informatico come una serie complessa ed articolata di parametri. C’è dunque un problema di privacy, sicuramente. Ci sono soggetti commerciali come Google o Facebook che ogni giorno immagazzinano informazioni su di me, e sanno ormai più cose sul mio comportamento e sulle mie scelte di quante io stesso ne possa consapevolmente elencare. 
C’è però anche un problema più profondo, di percezione della persona. E’ qui lo scarto drammatico, l’elisione totale di un aspetto, dell’aspetto più insondabile e misterioso della persona. Perché io vengo ridotto, rimappato, in una serie di comportamenti, e perdo ogni aggancio con il mistero in cui è intriso l’essere umano. Perdo il mio rapporto con il Tutto, il mio anelito di Infinito e di Senso: al mercato questo non interessa, nella misura in cui non influenza le mie scelte commerciali, o politiche (perché anche il mio orientamento politico viene mappato e subdolamente influenzato dalla rete, come recenti clamorosi casi insegnano).
Il rischio è che noi stessi iniziamo a pensare la concretezza dell’essere umano allo stesso modo degli algoritmi di Google e di Facebook. Che invece tracciano la parte meno interessante di noi, quella più istintuale, più prevedibile, più categorizzabile. Questo rischio, così grave, nasconde probabilmente un compito, non più dilazionabile. 
Avverte Marco Guzzi che Siamo chiamati a una rifondazione spirituale delle tecnologie, ad una mistica poetica, capace cioè di fare storia, e quindi anche a una inedita politica del Giorno Nascente. (La Nuova Umanità, pag. 114)
Ogni uomo è un mistero infinito. E questo Google non lo sa.
E quel che è peggio, molto peggio, è che non gli interessa. 
Starà a noi ricordarlo, ritrovarlo, questo infinito. E renderlo parola.
Renderlo di nuovo cercabile, incontrabile.
Così che anche Google, finalmente, se ne accorga.

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Notte dei ricercatori 2018

Siamo ormai alle soglie della Notte Europea dei Ricercatori 2018, la manifestazione promossa dalla Commissione Europea, coordinata in Italia, tra varie organizzazioni, da Frascati Scienza.  Tale associazione infatti si è aggiudicata anche questa volta il bando della Commissione Europea Horizon 2020 nell’ambito delle azioni Marie SkłodowskaCurie.

E siamo quest’anno alla tredicesima edizione di questa interessante iniziativa. Avevamo già sottolineato come questa sia una occasione preziosa per riconciliarci con la pratica scientifica, scoprire l’umanità di chi fa ricerca e comprendere che le domande dello scienziato di professione sono esattamente le nostre, perché l’universo sollecita ogni uomo, potremmo dire, verso questa indagine, a tutto campo.

E proprio l’universalità di questa chiamata si riverbera assai bene nel titolo scelto per la manifestazione di quest’anno, quell’attraente Be a Citizen Scientist che davvero invita ognuno di noi a confrontarsi con l’impresa scientifica, la quale da tempo ha travalicato l’ambito del laboratorio specializzato (con tutta la sua carica esoterica che lo avvolge nell’immaginario collettivo) e – soprattutto grazie ad Internet – è arrivato a bussare alle porte delle nostre case, in cerca di chi abbia curiosità e passione per partecipare a questa impresa.

Ormai la scienza è di tutti, perché veramente tutti possono partecipare a qualche progetto e regalare un po’ di tempo per fare vera scienza, qualunque sia la propria preparazione: è il senso ancora tutto da esplorare del cittadino scienziato, una vera rivoluzione dei tempi moderni. Progetti come ZooUniverse, di cui ci siamo occupati diverse volte, sono appena la punta di diamante di un settore in progressiva, direi irreversibile espansione. 

La Notte dei Ricercatori, ed in realtà tutta la settimana che la comprende, è un’occasione ulteriore e ancor più diretta per entrare in contatto con la scienza dal vivo, declinata in una ampia rosa di possibilità di incontri. Il programma della manifestazione è appena stato pubblicato, vale la pena consultarlo perché nella sua ricchezza troveremo sicuramente il punto in cui la traiettoria scientifica incontra il nostro gusto personale, la nostra voglia di scoperta. 

E le occasioni non mancano, sicuramente! Sapevate ad esempio che la cucina è un eccellente lavoratorio scientifico? La scienza è in tavola si occupa proprio di questo (Frascati, 24 e 25 settembre). O se si vuole nutrire la propria passione storica, Le Mura Aureliane a Porta Latina: storia e restauri costituisce un ottimo science trips per cui dedicare il pomeriggio di lunedì 24 settembre. Oppure, perché no, potremmo trovarci impegnati in “Scacco al bullo”, una partita di scacchi viventi, a Villa Torlonia (Frascati), in quel di domenica 23 settembre!

Signori, qui si fa scienza! 😉 

Ma sono solo alcuni esempi, scelti per significare l’ampiezza del ventaglio delle offerte della settimana: il rimando al programma, come dicevamo, è obbligato, per assaporare il gusto di una scienza articolata in moltissimi modi e intrecciata a tante simpatiche iniziative.  

Perché la scienza è di tutti, è un bene comune davvero. E non conta tanto dirlo, ma (potremmo dire, in linea esatta con il metodo proprio della scienza), dimostrarlo. E questa è un’occasione preziosa, per impararlo. Preziosa, e divertente. 

La scienza infatti è anche gioco, gioco dell’uomo che impara dalla Natura, uno dei giochi più belli che ci siano. Venite dunque a giocare con noi?

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La via della guarigione

Quando un libro viene pubblicato, ti accorgi presto, che non è un punto di arrivo, ma un punto di inizio. Perché comunque, a questa creatura nuova c’è bisogno – da subito – di volergli bene, di amarlo, di considerarlo non una cosa fatta per cui passare oltre, ma qualcosa da amare, da accudire, custodire. Prima ancora si sperare di piazzarlo qui o là, di vendere, di farlo circolare tra amici, parenti e poi in cerchi più allargati, prima ancora di cercare di compiacere l’editrice, che tutto sommato ha investito soldi su di te, ecco, c’è da fare questo. 

Nessuno si aspetta altro da te che tu ami la tua creatura. La ami così com’è, nella sua luminosa imperfezione (se perfino i capolavori sono imperfetti, chiaramente la perfezione non è la cosa da cercare), la ami come espressione di te stesso, espressione dialogante e come una apertura, una proposta, per chiunque ti incontri. 
La poesia è lo stupore di un nuovo inizio, di un inizio “bambino”, sempre… 
La poesia infatti è una proposta alla libertà di ognuno. La poesia è un grimaldello, anche. Sottilmente ma irresistibilmente antiretorico, è un grimaldello che disarticola ogni struttura di pensiero troppo consolidata, irrigidita, usurata da eccessive ripercorrenze quotidiane. La poesia scardina e liquida queste strutture, ma lo fa in modo accorto, in modalità sempre laterale, non frontale. Lo fa in tono sommesso per cui ti ridona morbidità di pensiero senza quasi che te ne accorgi. La poesia non sopporta i discorsi inutili, lei va al sodo: lustra la parola perché brilli.
Per questo è tragico che non si legga abbastanza poesia. Si leggono romanzi, saggi, dissertazioni (sempre poco). E non si legge abbastanza poesia. Perché c’è un pregiudizio, pesante, all’opera nelle nostre teste. 

Non avevo niente in particolare contro la poesia, però la trovavo decisamente una perdita di tempo. Nei casi migliori era uno svago o un esercizio letterario, in quelli peggiori, i più numerosi, era per me un’irritazione da evitare senza indugio. Poesia uguale debolezza, fuga dal reale, roba da sognatori o da gente complicata.”

Così scriveva Antonietta Valentini, qualche tempo fa, fotografando un atteggiamento molto diffuso (atteggiamento poi da lei stessa superato, come potete leggere). Dobbiamo infatti recuperare la consapevolezza che ci stiamo esattamente giocando l’opposto: la poesia è la possibilità diretta di entrare nel reale con una lucidità e consapevolezza nuova, con la mente spurgata da tanti inquinanti che la parola poetica, ovvero la parola usata in tutta la sua forza, può realizzare. 
Il titolo che ho scelto, Imparare a guarire, esorta consapevolmente ad un uso terapeutico della parola poetica, ben oltre la semplice percezione estetica (ma non troppo, in fondo la miglior cura è il bello). La prima sfida è per me: custodire questo libro, proporlo a chi mi vuole bene, a chi voglio bene, come canale di comunicazione privilegiato e diretto verso il cuore. Usarlo insomma come strumento di cura.
Del resto, è così per tutto. L’importante è esserci, non scappare. Rimanere, in questo. Avere il coraggio di respirare quel che si è scritto, distillato lungamente, in tante revisioni, a cercare la parola giusta, la parola esatta, come un colore, che si depone vicino agli altri per realizzare il quadro, secondo quanto deve essere fatto. 

Da ieri si può leggere online la bella prefazione di Marco Guzzi al mio volumetto; si può ordinare via ibs.it oppure all’editrice (info@edizionidifelice.it), fino al 20 di settembre ancora senza spese di spedizione. Se lo prendete, vi prego veramente di una cosa: leggete lentamente. Ci vuole spazio, tempo e spazio mentale, per aderire alla tavolozza di colori che ho provato a scegliere. Per non violentarla involontariamente. Non cercate ma fatevi cercare, non affannatevi per raggiungere, ma lasciatevi raggiungere. Siate spettatori passivi, provateci: cambia tutto. 
E’ un regalo di delicatezza che ho provato a fare, e a farmi. Una possibilità di (auto)guarigione, un avvio di guarigione, alimentato dalla morbidezza degli accostamenti delle parole, così come ho potuto, come mi è venuto. Un ritornare bambini senza infantilismo, ma nell’idea evangelica di apertura, di condizione necessaria – sempre da riprendere – per essere nel mondo, vivendolo davvero.
Quel che accadrà per questo libro, lo sanno le stelle. Ma fin d’ora è un canale aperto, una possibilità in più, di affratellamento intorno ai ritmi del cuore. Che sono quelli, sempre finalmente quelli, per tutti. 

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Se la stella esplode…

Una stella che esplode non è cosa che può lasciare indifferenti. Non è cosa da poco, insomma. E’ un momento critico fondamentale anche per la stessa vita, perché è il modo in cui gli elementi di cui siamo fatti – costruiti dentro le stelle – vengono lanciati nello spazio, messi a disposizione per realizzare qualcosa, anche qualcosa di spettacolarmente grande, come un essere – o più esseri, abitanti ignoti di chissà quali pianeti – che rappresentano, per così dire, l’autocoscienza del cosmo, punti di singolarità capaci di registrare informazioni sull’Universo, di interrogarsi sulla sua nascita, sul suo destino. 

E’ un momento anche spettacolare, come documenta assai bene questa favolosa immagine acquisita dal Telescopio Spaziale Hubble, che riguarda la celebre Nebulosa del Granchio. 

La Nebulosa del Granchio vista da Hubble.
 Crediti: NASAESAHubble, J. Hester, A. Loll (ASU)

Per la cronaca (cosmica), è il risultato di uno scoppio di supernova avvenuto nell’anno 1054 dopo Cristo, debitamente registrato dagli astronomi cinesi (assai precisi, al proposito). Ed è, in un certo senso, ancora avvolto di mistero: seppure molto della dinamica dell’esplosione è ormai noto, diverse cose ancora non tornano. Per esempio, i filamenti: analizzandoli, sembra che vi sia meno massa di quanta originariamente espulsa dalla stella morente. E che si muovano ad una velocità superiore a quanto atteso per una esplosione “libera”, senza altri fattori propulsivi.

Questo mistero nulla toglie, anzi aggiunge fascino alla contemplazione di questa splendida immagine, che copre una zona di cielo di circa dieci anni luce di ampiezza. Al centro, rimane una stella di neutroni. Un posto in cui la materia si è compattata fino a livelli estremi di densità: una massa pari a quella del Sole, schiacciata e compressa nel diametro di una piccola cittadina, in pratica. Una materia che, in assenza di qualsiasi “motore” che contrasti la gravità (essendo la fusione nucleare ormai spenta) non ha potuto far altro che collassare su sé stessa, realizzando un oggetto così compatto che per anni e anni gli stessi astronomi non lo hanno creduto possibile. 

E’ questo il nostro cielo: una sfida continua alle nostre teorizzazioni, un rilancio inesausto ad allargare la mente, perché c’è altro, sempre molto altro. Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia, ci avvertiva già Shakespeare. E questo vale anche per quella parte della filosofia che è il pensiero scientifico, sempre in cerca di un nuovo modo di raccontare il mondo fisico, per aprirsi alle sue sfumature più sottili.

Forse, vale soprattutto per questo. 

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Un esagono per Saturno…

La sonda Cassini ha da tempo concluso la sua (fruttuosa) esistenza, ma (come accade spesso) noi non abbiamo ancora finito di comprendere tutte le cose che ci ha rivelato. Ora uno studio a lungo termine della NASA ha mostrato una caratteristica davvero sorprendente visibile nella parte intorno al polo nord, nel periodo in cui l’estate (di Saturno) si sta avvicinando. 

C’è infatti ad alta quota un magnifico vortice di chiara geometria esagonale, che ricorda molto il vortice già conosciuto, ad altezze più basse, osservato da tempo negli strati nuvolosi del pianeta. E’ un “nuovo vortice” insomma che si aggiunge – totalmente inatteso – a quello già conosciuto (e ugualmente misterioso), la cui scoperta ha meritato un articolo sulla prestigiosa rivista Nature, appena pochi giorni fa

Questa colorata animazione ricavata dai dati della sonda Cassini è la miglior vista possibile del famoso “esagono” al polo nord di Saturno (Crediti: NASA)

In soldoni, lo studio rivela innanzitutto la presenza di un vortice ad altissima quota sopra l’emisfero nord di Saturno, a centinaia di chilometri dallo strato di nuvole, per capirci. La vera sorpresa però è che la sua forma, chiaramente esagonale, rimanda alla configurazione di nuvole già vista a quote molto molto più basse, proprio dentro l’atmosfera di Saturno. 

Possiamo dire, semplificando ma non troppo, che a mistero si aggiunge mistero, perché appunto nemmeno la forma così peculiare delle nubi (a formare l’esagono “basso”), individuata prima dal Voyager e poi confermata da Cassini, è stata adeguatamente compresa. 

I dati regalatici dalla sonda Cassini sono moltissimi, e non è escluso che arrivino altre sorprese, man mano che l’analisi e le possibili correlazioni vengono pazientemente esplorate dagli scienziati. 

Cassini è “morta”, è vero. E’ sprofondata nell’atmosfera di Saturno, confondendosi con il pianeta stesso. Ma in un certo senso, è più viva che mai, adesso: come dicevamo esattamente un anno fa, è una storia che continua

Una storia che, come ogni vera storia, vale la pena raccontare. Gli esagoni di Saturno sono sfide per la scienza, ma anche segni di un universo che ci provoca, ci incuriosisce, ci dice “venite a vedere che meraviglia sono”:  vuole insomma essere visto, amato, raccontato

Farlo, è il mestiere dello scienziato: farlo con passione,  per incontrare la curiosità di ogni uomo, fornirle pezzetti di risposte, ed insieme procedere verso nuove, più intriganti domande.

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Venti anni dopo (i.e., sognare ancora)

No, non si parla del seguito del celebre romanzo I tre moschettieri, di Alessandro Dumas, ma del fatto che Google compie venti anni, e lo fa esattamente oggi. Questa è una delle (non troppo frequenti) occasioni in cui uno può utilmente vantare la sua età non proprio minima per articolare una riflessione ampia sul fenomeno. 
Se non altro, perché, insomma, lui c’era. 

Infatti. Io c’ero. Venti anni sono tanti. Vuol dire che molte persone sono nate e vissute interamente nell’era Google, non sperimentando quel che c’era prima. Per non parlare delle persone che non hanno ricordi dell’era pre-Internet. D’accordo. 
Ma ricordare l’epoca pre-Google è già, di per sé, scavare in un passato (informaticamente) remotissimo. Però può servire, può essere una testimonianza che non tutti possono produrre, di prima mano. Il fatto è questo, comunque: venti anni di Google inevitabilmente, rimandano a quel che c’era, prima
Oggi cercare qualcosa è totalmente sinonimo di usare Google (con buona pace di Bing e dei simili tentativi). E’ automatico. Poi se uno cerca con Chrome, automaticamente chiama il motore di ricerca Google, quindi non se ne accorge nemmeno. 
Eppure, prima, era diverso. Prima c’erano altri motori. C’è stato un tempo che cercare su Internet era sinonimo di cercare con Altavista. A molti questo nome non dirà nulla, Altavista. Eppure era il motore di ricerca su Internet, senza alternativa. Era come Google adesso, pari pari. 
Poi venne l’epoca Yahoo!, o meglio di Internet 1.0. Era lo standard, Yahoo!, delle ricerche su Internet. E aveva piano piano costellato la sua offerta di tanti servizi aggiuntivi, gruppi, chat, giochi, storage (la famosa Valigetta Yahoo! antesignana di Drive, Dropbox, Onedrive e simili, repentinamente scomparsa). Tutte cose che sono appunto sparite o si sono congelate, come i Gruppi Yahoo!, residuo cristallino – quasi un fossile in ambra – una sorta di capsula  impermeabile dell’epoca uno-punto-zero piovuta qui fino a noi, in un tunnel informatico, stranamente persistente.
Poi venne appunto l’epoca Google, che è quella che stiamo vivendo (con aggiunta di Facebook, se vogliamo, Microsoft e pochissimi altri soggetti). Non sappiamo quanto durerà e non sappiamo cosa verrà dopo. Non è chiaro, nemmeno, come queste diverse fasi si avvicendino, quando e perché un soggetto commerciale ceda il passo ad un altro. 
Ma accade. 
Così i venti anni di Google in realtà ci interrogano, a livello più profondo, a capire come mai Internet si è sviluppato e polarizzato in questo modo, ovvero agglomerandosi intorno a pochissime entità commerciali molto potenti, sacrificando quella meravigliosa (e un po’ anarchica) diversità che per molti begli anni è stata la sua principale caratteristica. 
Google ha venti anni e Internet, di suo, ha messo la testa a posto. Anche troppo, secondo alcuni. Ha rinunciato ai sogni, ha abbracciato la logica commerciale (ormai intesa come inevitabile ed incontrastabile), ha perso iniziativa e spontaneità, ha depennato agevolmente l’entusiasmo degli inizi, dove bastava una buona idea per realizzare un progetto di successo sul web. Del resto, oggi il web è così complicato che nessuno, da solo, può sognarsi di realizzare niente. 
Sarà una crescita, sicuramente, ma c’è anche tanto rimpianto, tanta nostalgia dei tempi passati. Google è maturo, ma noi ci permettiamo di rimpiangere i tempi in cui era ancora bambino.
Tempi in cui fiorivano mille e mille progetti, in cui ogni giorno sul web si incontrava, davvero,  la creatività in azione. Oggi il commercio ha preso il posto dell’inventiva, non si sogna più come un tempo. E’ un business, Internet, non una palestra di invenzioni. 
I giganti hanno spazzato via la panoplìa allegra ed irregolare dei piccoli. 
Forse, un’altra epoca può arrivare, deve arrivare.
Se non smettiamo di sognare, però.

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