Una stella che esplode non è cosa che può lasciare indifferenti. Non è cosa da poco, insomma. E’ un momento critico fondamentale anche per la stessa vita, perché è il modo in cui gli elementi di cui siamo fatti – costruiti dentro le stelle – vengono lanciati nello spazio, messi a disposizione per realizzare qualcosa, anche qualcosa di spettacolarmente grande, come un essere – o più esseri, abitanti ignoti di chissà quali pianeti – che rappresentano, per così dire, l’autocoscienza del cosmo, punti di singolarità capaci di registrare informazioni sull’Universo, di interrogarsi sulla sua nascita, sul suo destino. 

E’ un momento anche spettacolare, come documenta assai bene questa favolosa immagine acquisita dal Telescopio Spaziale Hubble, che riguarda la celebre Nebulosa del Granchio. 

La Nebulosa del Granchio vista da Hubble.
 Crediti: NASAESAHubble, J. Hester, A. Loll (ASU)

Per la cronaca (cosmica), è il risultato di uno scoppio di supernova avvenuto nell’anno 1054 dopo Cristo, debitamente registrato dagli astronomi cinesi (assai precisi, al proposito). Ed è, in un certo senso, ancora avvolto di mistero: seppure molto della dinamica dell’esplosione è ormai noto, diverse cose ancora non tornano. Per esempio, i filamenti: analizzandoli, sembra che vi sia meno massa di quanta originariamente espulsa dalla stella morente. E che si muovano ad una velocità superiore a quanto atteso per una esplosione “libera”, senza altri fattori propulsivi.

Questo mistero nulla toglie, anzi aggiunge fascino alla contemplazione di questa splendida immagine, che copre una zona di cielo di circa dieci anni luce di ampiezza. Al centro, rimane una stella di neutroni. Un posto in cui la materia si è compattata fino a livelli estremi di densità: una massa pari a quella del Sole, schiacciata e compressa nel diametro di una piccola cittadina, in pratica. Una materia che, in assenza di qualsiasi “motore” che contrasti la gravità (essendo la fusione nucleare ormai spenta) non ha potuto far altro che collassare su sé stessa, realizzando un oggetto così compatto che per anni e anni gli stessi astronomi non lo hanno creduto possibile. 

E’ questo il nostro cielo: una sfida continua alle nostre teorizzazioni, un rilancio inesausto ad allargare la mente, perché c’è altro, sempre molto altro. Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia, ci avvertiva già Shakespeare. E questo vale anche per quella parte della filosofia che è il pensiero scientifico, sempre in cerca di un nuovo modo di raccontare il mondo fisico, per aprirsi alle sue sfumature più sottili.

Forse, vale soprattutto per questo. 

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