Le cose vengono un po’ da sole, è noto. O meglio, non sono sotto mai sotto controllo, sotto il tuo controllo. Sarebbe infatti superfluo dire che non avevo idea – non la avevo affatto – che questa onda , questa onda di necessità di guarigione sarebbe risultata così feconda, sarebbe stata intercettata, ripresa, rilanciata, in ambiti importanti, ma differenti da dove queste poesie sono nate.

L’ambito educativo, intendo. La costruzione della nuova umanità se non attraversa una istanza di guarigione, di vera guarigione, è soltanto l’ennesima violenza ideologica. Roba da scappar via, a gambe levate. Non disturbare, non distorcere, non deviare, riportarli a casa, a questo punto. Bring the boys back home, in caso. 

E’ per me già un grande risultato, da guardare con tremore e commozione, quello che è nato dal lavoro sul libro Imparare a guarire (Di Felice Edizioni, 2018), lavoro che nel contesto de La Scuola Visionaria hanno intrapreso i ragazzi dell’I.C. Corradini di Roma. Sotto la guida – che avverto illuminata e docile – della professoressa Carla Ribichini, questi ragazzi hanno iniziato  un po’ di tempo fa a lavorare sulle poesie del volume. Facendole veramente fiorire, oltre ogni mia possibile previsione.

E’ quando ciò che hai scritto, si rende seme di una nuova avventura, indizio di primi passi di una nuova umanità, di una prospettiva di crescere e guarire, ecco: è allora che tutto ciò che puoi fare, che devi fare, è rinunciare all’analisi, metterti da parte, e osservare. Zitto e guarda, insomma. Con gratitudine. 

Osservo allora ciò che nasce, che fiorisce, senza (troppo) interferire. Contento appena di essere un vettore di questa fioritura, un semplice ed umile lavorante in questo campo, sempre da dissodare e da tener pulito. Qualcosa che passa attraverso di te, ma non è tuo, di cui ti rendi strumento ma che non puoi possedere. Non c’è, probabilmente, motivo più grande per essere riconoscente. 
Ripercorro i primi segni di questo lavoro, le prime tracce luminose, con commozione. Leggo quello che hanno scritto i ragazzi, piccole donne e uomini di seconda media, e cerco di farmi da parte,  voglio farmi da parte, lasciando parlare soltanto il loro purissimo desiderio di guarigione. Un desiderio che non può che avere riverberi nella società, nel mondo, dalle cose più vicine, alle stelle. Non è infatti, di per sé, un desiderio contenibile, addomesticabile, non è un desiderio con dei bordi, dei limiti, delle frontiere. 
Così scrive Aurora, schiudendo un tesoro di candore e di sincerità soffusa,

Parte tutto da un semplice presupposto:
perché ci ammaliamo? Perché il nostro ego ci dà questo pensiero fisso:  stare male,  stare male dentro,  pensare di non andare bene, di non essere abbastanza. Stiamo male e non sappiamo guarire, è questo il vero dolore.
Voglio imparare a guarire dentro, a curarmi non con le medicine, anche se ho una mamma farmacista, ma magari con le dolci e morbide parole di una semplice poesia melodiosa.                                                                               
Tutto questo mi insegna a cambiare e a guarire.

Ora, guardiamo, guardiamoci dentro. In poche righe, c’è tutto, c’è veramente tutto. La fotografia della situazione in cui ci troviamo, la condizione umana com’è, fuori da tutti gli orpelli, gli abbellimenti e le maschere. Con una sincerità disarmante. Stiamo male e non sappiamo guarire, è questo il vero dolore. Quante parole inutili, quante ne spendiamo ogni giorno: tutte le parole che non dicono questo! Le parole che non dicono questo sono volgari, perché perdere deliberatamente tempo in chiacchiere è volgare. Meglio allora – chessò – una coraggiosa infrazione, una decisa irriverente trasgressione: perché lì, almeno lì, la ricerca della felicità non è ancora elisa, fermata, abortita. Davanti a parole inutili, no, io non ce la faccio più.

Però non ci si ferma lì, non si ferma lì, lei: c’è la tensione a cambiare, a curarsi non con le medicine, ovvero a non tamponare il disagio appena, ma lavorare in profondità (guarire dentro) per avviare una guarigione reale, non appena farmacologica. Questa guarigione, infatti, si nutre di parole, e queste parole possono certo essere dolci e morbide, parole di una semplice poesia melodiosa. La parola guarisce: questa è l’ipotesi positiva, la partenza di un viaggio. Questa è anche, se ci pensiamo, l’assunto di base di ogni approccio di guarigione, anche sotto l’aspetto direttamente psicoanalitico. Un rapporto terapeutico, proprio nel senso più ortodosso del termine, è fatto di parole. 

E una poesia, guarda caso, è ugualmente fatta di parole.

Qui riscopro io stesso, come in filigrana, l’origine profonda del titolo della raccolta, Imparare a guarire. Qui dunque arriva Aurora, giovane donna di seconda media che in tre frasi, in tre frasi appena, giunge sicura al punto d’origine, giunge certa al focus da cui tutto germoglia. Ciò che insegna a cambiare e a guarire, appunto. Mi piace l’accostamento delle parole cambiare e guarire, mi rimanda a quanto scrive Marco Guzzi nella prefazione al mio volume,

Imparare a guarire significa innanzitutto entrare in una dinamica esistenziale di trasformazione continua, significa mettere in discussione le nostre abitudini mentali e comportamentali, significa aprirci ad un radicale ricominciamento

Ci sarebbero molti interventi da citare, e magari si troverà un modo di raccoglierli, esporli, dare loro il rilievo che meritano. Per ora li conservo nel cuore, li riprendo nei momenti di oscurità, tanto possono fare luce, possono riscaldare, risanare. Strumenti di guarigione essi stessi, in pratica.

Riporto qui solo una altra suggestione, quella di Monica

Lo squarcio è una ferita aperta. E’ la fine fredda  delle mie cellule e, allo stesso tempo, uno spettacolare punto da cui ricominciare. Voglio essere come un globulo bianco e avere la forza di continuare, riempire e risanare tutte le ferite della mia pelle mortificata. Guardare oltre la crosta per quanto grande.  Non abbassare il capo, non farlo più!

Pero, che bello. Che bello percorrere, quasi scorrendo il dito, quasi toccandole, ripercorrere la scelta delle parole, soffermarsi, goderne.  La fine è un inizio, endings are just beginnings, penso. La fine fredda delle mie cellule – quella fine che non è più discorso, tempo a parlare trascorso, scende fino dentro le cellule – è al contempo uno spettacolare punto da cui ricominciare.  Cioè la crisi, la ferita aperta, è anche e soprattutto un punto di ricominciamento. Dipende insomma dalla prospettiva con cui guardi, probabilmente dipende da questo, carnalmente ne dipende.

Anche qui alla denuncia della condizione, segue rapida, incisiva, la tensione a progredire, a ricominciare, a risanare. E chiude con una spettacolare apertura verso una insurrezione. Perché poi tutto è uno, tutto converge al punto di guarigione. E ciò che ad oggi non parla di guarigione, non interessa, non interessa proprio più nessuno. La guarigione, che è anche sociale, che diventa irresistibilmente politica. Diventa materia da elaborare per una nuova umanità. 

Non abbassiamo il capo, non lo facciamo più.
Nel percorso di guarigione troviamo una nuova ragione, per essere al mondo,
per essere anche nel mondo. 

Me lo dicono, me lo suggeriscono due piccole donne,
in preannuncio nascosto di apertura, in incipiente,
risonante, tiepida fioritura.

Posso fidarmi, dunque. 

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