Ma tu te li ricordi i nostri sogni / al tempo dei pensieri illuminati così canta Fossati e questo mi ritorna in testa adesso, che riprendo questo post, abbozzato tanto tempo fa e rimasto – chissà – in cerca di una soluzione, di una conclusione.

Sarà che uno tenta di ritornare a quello, al tempo dei pensieri illuminati, e tutte le gratificazioni al mondo che arrivano e continuano magari ad arrivare, non riempiono il cuore come faceva uno sguardo, un solo sguardo, in quegli anni… che tanti pensieri e tanta saggezza non serve a niente non scalda nemmeno come un cerino, finché rimangono solo parole non servono a nulla anzi… mai più saggezza mai più…

Sarà che uno vorrebbe a volte prendere tutto e via, scappare lontano diecimila miglia e tornare a vedere… vedere le spiagge i panorami i tramonti sentire l’odore di cibi esotici vedere le ragazze che ridono farsi sommergere dalle promesse dei loro sguardi dolci, ingenui e maliziosi e correre correre correre e non sapere cosa si potrà fare domani, non saperne proprio nulla, sapere appena che domani sarà una cosa nuova, una giornata diversa e nuova (molto diversa e molto nuova) e avremo ancora sorrisi e avremo ancora abbracci e corse e risate e gente che si stupisce con me, per me… gente che – per dire – può avere voglia di sorridere e amare, vestirsi e spogliarsi, senza stare a dosare e a sgocciolare assensi con parsimonia e inossidabile buon senso…

ma tu te li ricordi i nostri anni.. I tempi delle stelle in fondo agli occhi

E’ indubitabile. Ci sono momenti, periodi, che più facilmente si avvertono come magici. Periodi che sono un invito, un invito a venire a vedere, a coinvolgersi.

Perché poi alle volte si rischia di scambiare questo con il tutto. 

Non le bollette, le cose da pagare e le incombenze che ci sono e chissà se oggi magari piove e non i problemi scolastici dei ragazzi e non più le parole oggi sono stanca voglio dormire… e a volte (perché poi, non lo sai nemmeno) non trovi nessuno che ti sorrida più con le stelle in fondo agli occhi, non lo trovi o ti pare di no (forse appena non lo vedi, non lo vuoi vedere), hanno tutti molto altro da fare (ti sembra), molto altro da fare che occuparsi di te e della tua ricerca di stelline negli occhi (ti pare), e una lei che ti guarda normalmente magari ti ricorda di portare la roba in cantina ma lei è anche e soprattutto una bravissima persona e dunque forse è tutto normale, è la normalità, forse sei tu che stai scansando il reale con la tua ansia delle stelline e in qualche modo sei tu, non sono gli altri, in qualche modo sei sempre tu, eppure…

Cosa rimane, cosa rimane? Abbiamo il coraggio di chiedercelo? Cosa rimane adesso delle stelle nel fondo degli occhi? Dei tuoi occhi meravigliosamente intarsiati, amica mia, che ammiravo standoti vicina in metropolitana, dei tuoi maglioni larghi, delle tue esitazioni e della nostra scoperta del vivere nella carne e dei modi tutti nuovi e inesplorati per stare in comunione, in luminosa comunicazione? Cosa rimane se la sabbiolina dorata sembra scivolata tutta tra le mani e se le apri non la trovi più, la cerchi sugli altri e non la trovi più… cosa rimane ancora?

Cosa rimane, se a questo punto non allargo lo sguardo, cerco un senso più ampio che – cadendo dentro tutto questo, smascherando anche la parzialità fallace delle mie percezioni  – lo invera e allo stesso tempo lo ricompatta in una orbita di senso, in una orbita che abbia senso pieno anche adesso?  Cosa rimane se rinuncio a pormi io stesso, prima di tutto, in un orbita di guarigione, se non imparo sempre e di nuovo a guarire?

E’ una decisione fondamentale, è uno spartiacque sempre drammatico. Perché se questo non avviene, se non lo lascio avvenire, ebbene ha ragione (ancora una volta) Fossati, in quella meravigliosa canzone, in quel profondissimo quadretto che è D’amore non parliamo più,

Con la bellezza non discuto / la bellezza se ne va

Ed è una frase che ti rimane dentro e chiama un senso profondo, una riscoperta di senso globale, perché altrimenti rimane appena il dolore, quel dolore purissimo per la scomparsa apparente della cose. Lo dice un altro grande, lo dice il Boss, nella sua Atlantic City

… everything dies, baby, that’s a fact …

Perché allora uno si deve appena rassegnare alla progressiva scomparsa delle cose, all’indebolirsi del senso totale. Ma la rassegnazione è amara, è devastante. E forse, tutto sommato, non è inevitabile. Forse no. It’s a fact dice il Boss e non sembra lasciare margine alle interpretazioni. Del resto lo vediamo anche noi, è sotto gli occhi di tutti: La bellezza se ne va. 

Così Natale dovrebbe avere qualcosa da dire su tutto questo, qualcosa da dire in tutto questo, dentro tutto questo. O naturalmente dentro drammi peggiori, drammi veri. Perché il rischio è che se Natale non ha niente da dire e non incide su questo rimane confinato in una melassa retorica buonista (oggi si direbbe così) che fa soltanto molto male allo stomaco.

E’ anche chiaro cosa non vogliamo. Non qualcosa di strategico, non l’ennesima nostra strategia. Nessun manuale di self help potrà veramente servirci. Ci vuole qualcosa di esterno che ci venga a trovare, ci venga a visitare, per rinegoziare il rapporto con il mondo e ritornare ad una freschezza originaria, alla freschezza di un inizio, di un nuovo inizio. Qualcosa che è fuori di noi e che si propone al fondo di noi; ma è fuori di noi, dice Luigi Giussani, uno che comunque dell’uomo e del suo desiderio profondo, se ne intendeva parecchio.

Basterebbe un semino luminoso, che alla fine possa contrastare credibilmente questo everything dies di Bruce, innestato così profondamente nei nostri cuori. Un semino ancora più profondo, che dice che tutto muore, apparentemente, ma la morte non è l’ultima parola. Cioè, a noi sembra che tutto muore, solo perché non abbiamo sotto gli occhi il quadro completo.

Ripartire allora. Ripartire sempre e di nuovo, dalle profondità abissali di questa notte, di questa vigilia. Accogliendola, accogliendomi e accogliendoti, amica. In fondo, come avverte Marco Guzzi, non dobbiamo avere paura, in fondo è nella notte che nasce il nuovo.

E’ anche una scommessa, ma non solo: è la premessa di una vita veramente vissuta. Non è vissuta davvero fino in fondo quella vita trascorsa ai margini della disperazione del tutto muore. Affatto. Se tutto viene conservato, se non muore davvero, ecco che allora io sono libero di vivere profondamente, di fare tutti gli sbagli che voglio fare e che debbo fare (come diceva in maniera innegabilmente evocativa Luca Carboni, potremmo essere felici fare un mucchio di peccati), ed intanto – come valore aggiunto di grande spessore – essere sicuro, tranquillamente sicuro che il bordo, quel bordo degli occhi, quel tuo bellissimo bordo degli occhi, non lotta più con la disperazione, ma accoglie la quieta consapevolezza di un viaggio che ha una sua Destinazione Buona – così sconvenientemente buona da infastidire tutti i benpensanti, costantemente impegnati a limare e limitare il loro desiderio d’infinito.

Quel bordo ridente dei tuoi occhi, amica mia: che così diventano ancora più lieti, ancora più belli.

Natale, alla fine, non sono tanti discorsi; è una questione di sguardo, una purissima e decisiva questione di sguardo. Di un volto, di un sorriso, del bordo degli occhi, del bordo ridente dei tuoi occhi, amica: di nuovo, ridente. E’ una questione di danza il Natale, alla fine. Di quella danza segreta e primitiva che ti impregna il cuore e i muscoli, amica mia, ti fa scorrere linfa nuova nel tuo sangue selvaggio, ti incatena, finalmente ti incatena al tempo che vivi e ti riscatta, ti riscalda continuamente.

Auguri.

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